AUTORITRATTO
Da un’idea di Luigia Sorrentino
A cura di Fabrizio Fantoni
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Nati sotto Mercurio
di Roberto Deidier
Un cielo stellato mette di buon umore, come un oroscopo favorevole. Alle stelle non ho mai pensato se non in questi termini. A parte poche figure evidenti, non ho mai riconosciuto neppure le costellazioni, e ho preferito creare altre immagini, più mie, come per disobbedire a quel gioco enigmistico in cui si devono unire tra loro tutti i punti e viene fuori qualche strano oggetto o un animale troppo stilizzato. Fin da piccolo ho cercato i miei oggetti e i miei animali, usando il cielo notturno come una lavagna. Perfino quando ho acquistato un discreto telescopio, l’entusiasmo è durato poco: in un’estate particolarmente limpida, con alcuni pianeti nella posizione adatta, sono riuscito a vedere le lune di Giove. Poi, passata la stagione, il telescopio è tornato nel suo scatolo e Giove si è allontanato per chissà quanto ancora.
Anche Mercurio era per me un pianeta, niente di più che un puntino scuro visibile nei momenti di luce obliqua, all’alba o al tramonto. Un’apparizione veloce, contenuta in una dimensione troppo fluida, incerta. Gli astronomi antichi devono aver pensato al dio dei commerci e degli annunci per la velocità della sua orbita, quando hanno voluto dargli un nome, ma a me piace pensare proprio a questa impossibilità di definizione, a questa sostanziale deficienza di messa a fuoco. Troppo vicino alla stella, Mercurio resta quasi sempre invisibile. Nel chiaroscuro dei passaggi tra giorno e notte, invece, si lascia finalmente cogliere, ma si tratta di una luce ingannevole, mutevole di minuto in minuto, fino a farsi oscurità totale o abbaglio meridiano. Mercurio è anche il protettore dei ladri e dev’essere amico di Dioniso: la loro luce è, inevitabilmente, quella della metamorfosi.
La vita di un osservatore, anche se si tratta di un osservatore irriverente, è giocoforza sedentaria: l’arte del «mirare», lo sostiene un vero contemplatore della volta celeste come Leopardi, non si disgiunge da quella del «sedere». Anche quella di guardare al cielo con l’intento del bricolage è un’arte che richiede una certa fermezza; la velocità, qui, è affidata alla memoria, che è il solo lapis di cui disponiamo per tracciare e ritagliare i nostri impossibili origami, o per tentare di riconoscere la mappa delle nostre strade e della nostra vita, come se il cielo fosse uno specchio affidabile. E tale pensavo che sarebbe stata la mia, segnata da pochissimi spostamenti al di fuori di Roma. Ma già una certa inquietudine famigliare, e il succedersi di diversi traslochi avrebbero dovuto accendere in me qualche sospetto che le cose sarebbero andate diversamente.
Nella prima casa, al settimo piano di un caseggiato tra l’Appia e la Tuscolana, ero nato verso la fine di un’estate calda, quella del ’65, e ci sarei rimasto solo tre anni. La seconda, la più felice, affacciava sui campi sportivi delle Tre Fontane, ma anche qui sarei vissuto per una manciata d’anni: il tempo di iniziare la scuola e mi ritrovai in un sobborgo fuori del grande raccordo, per un’altra manciata. La quarta casa, poco distante da quest’ultima, fu quella dell’adolescenza e delle grandi scelte, tra il liceo e l’università. Per averne una tutta mia, avrei dovuto attendere ancora molti anni e un’altra città. Mercurio dunque incombeva fin dall’inizio, ma non potevo saperlo: cominciai a pensarci durante una strana gita nella Tuscia, che pure conoscevo bene perché la mia famiglia aveva una proprietà nei dintorni di Sutri. Ma nell’alto Lazio, tra le creature mostruose di Bomarzo e i calanchi di Civita di Bagnoregio, non m’ero ancora avventurato. Ero partito per una sorta di pellegrinaggio a Lubriano, proprio di fronte a Civita, nell’ultima residenza di un autore che stavo scoprendo allora, Juan Rodolfo Wilcock, e non potevo mancare una visita alla «città che muore». Il ponte che collega il borgo ha la mia età. Sulla facciata della chiesa, al centro del paese, un’iscrizione conteneva il nome del dio dei viaggi. Fu come un segno, il riconoscimento di un destino: ancora qualche anno e proprio come Dioniso infante sarei stato affidato a lui. Il movimento e la velocità entravano nella mia esistenza.
Alle metamorfosi, almeno in parte, ero abituato. Avevo imparato presto a osservare i mutamenti intorno a me, quelli nelle cose e ancora di più quelli nelle persone e delle persone tra loro; ogni rapporto mi si presentava all’insegna dell’instabilità, della mutevolezza improvvisa e imprevista. E poi c’era l’arte della metamorfosi in assoluto, la poesia. Forse, per qualcuno destinato a vivere sotto il giogo e i capricci di Mercurio, un corredo di nascita. Cominciavo apprendendo a scrivere, e per molto tempo, per me, la poesia fu soltanto questo: l’esercizio della scrittura, una grafia martellante, un quaderno ricolmo di pensieri brevi, prove di descrizione. Fu perso nel passaggio dalla seconda alla terza casa e così non volli scrivere più per molto tempo. Una reazione spropositata, che nascondeva l’abbandono dell’infanzia. Forse la ribellione a un’infanzia serena nella sua staticità. Il lungo periodo degli spostamenti e dei viaggi di lavoro stava per cominciare. Fu Cassino, al principio, e poi sempre più a sud, fino alla Sicilia. Tra un corso e l’altro, Roma rischiava di perdersi, come un centro fisso non più dominabile; ma anche la mia città, dentro di sé, covava le sue trasformazioni e le impressioni recenti già cedevano di fronte alle immagini nuove che non collimavano più.
La Roma che avevo lasciato, sul finire degli anni Novanta, era ancora la Roma dei poeti. C’era Bertolucci, tra i grandi vecchi, e i molti che avevano costruito la stagione declinata sulla spiaggia di Castelporziano. Ma già non era più la città dei miei esordi. Se n’era andato Dario Bellezza, e poco prima Amelia Rosselli. Soprattutto lei, distante come una galassia ai margini dell’universo in cui mi addentravo da un decennio. La sentivo distante per grandezza, per carattere, per la sua scrittura così diversa dai primi esperimenti che avevo ripreso a fare dopo la lunga censura. Eppure decisi che sarebbe stata solo lei a instradarmi, da quando, nel pomeriggio di un’estate già lontana, in una libreria di Formia, mi era stata regalata la sua antologia poetica. Fu una frequentazione breve, perché Amelia avrebbe trascorso i suoi ultimi anni spesso in viaggio, fuori da una città che ormai la opprimeva, ma bastò. I miei inizi, e i miei ricordi, coincidono con la sua figura e con la sua voce.