La poesia di Luisa Pianzola in questa nuova raccolta “Una specie di abisso portatile” 2015, attesta un interrogarsi rigoroso sulla memoria e sul presente e nello stesso tempo la fluidità e porosità della lingua; lingua viva che respira e sa raccontare il tempo, il lavoro, il corpo, la speranza e l’indifferenza. Temibile lo sguardo dell’autrice che indaga le più riposte pieghe della modernità, dai suoi miti materni (e paterni), fino agli echi di un capitalismo quotidiano e famigliare che riverbera di non detti, come di frasi rivelatrici e cattivi pensieri. E’ forse la cattività in cui ci stringono le mode, i vezzi, i conformismi a fare da filo conduttore tra le sillogi che compongono questo libro. L’autrice, più che onestamente, non si chiama fuori; nessuno è assolto, nemmeno indicato a dito, piuttosto ne escono evidenziate le trasformazioni a cui si soggiace a volte senza capirle.
La splendida poesia in apertura, sull’eccidio di operai italiani emigrati in Francia avvenuto nel 1893 ad Aigues-Mortes, un paese di miniere di sale, è un pezzo di memoria che induce a una riflessione immediata, a un calarsi nel tempo proprio per comprendere che l’accaduto, pur cambiando i luoghi e i nomi, è storia di oggi: “ I cercatori si sale, coloro che bucavano le pietre/ per trarne monete, salivano in squadre allenate/ a tormentare le rive i pianori le chine disfatte in sequenze. … E’ un fatto che la storia/ ha registrato, gli elenchi dei caduti e delle loro età/ nel momento di massima fierezza.” p. 9
“Ricordo di Tania – Holodomor” sull’olocausto ucraino (1929-1933), è un testo che letto dopo la visione delle foto sui pogrom antiebraici in questa stessa Ucraina, durante il secondo conflitto mondiale, tutte immagini ritrovate di recente e pubblicate da pochi giorni in Italia, riporta a un sentimento di estrema ingiustizia e di inumanità da cui nessuno può esimersi. Sia che l’ evento appartenga a ieri o ad ora, ci chiama come testimoni di qualcosa di non misurabile col metro di sempre. Vediamo così l’ignavia, l’indifferenza, la paura e in molti casi la complicità del silenzio di fronte a tragedie annunciate a cui qualcuno si volge: “ A volte mi tolgo il cappello e ricomincio / da capo ma si vede che è un ritorno, un infinito ritardare. / Non rimangono che i buchi delle case…/“. p. 27
Mario Santagostini nella postfazione scrive di “momenti di follia verbale” e a tutta prima potrebbe, al lettore meno avvertito, sembrare un’esagerazione. La lingua di Luisa Pianzola pare piuttosto che abbia un ordine, un piano fedelmente seguito per arrivare a noi. Ma lei stessa scompiglia i piani, mischia, alleggerisce e confuta “gli algoritmi del possesso, dell’attributo” p.55 con i suoi versi che ci lasciano ancora più convinti dove sembrano abbandonarci o confonderci: “ …popoli sul comodino/ ghiaccio che scolora, sapere di non potere andare/ oltre un po’ d’equilibrio tra la tela e il pianto”. p. 64
Ma possiamo apprendere ben altra lezione dai piccioni, se siamo in cerca di certezze: “ Nelle sere d’inverno, pochi elementi scelti/ della squadra se ne stanno impettiti sul filo/ da bucato, quello più esposto al rigore notturno./ …. Il cortile quadrato, per noi bisognoso/ di manutenzione, è la loro reggia perfetta,/ il fortino inespugnabile./p. 76
L’abisso portatile ci riporta a noi stessi; l’istante è lo scatto di una polaroid; quelle foto a colori, terribili, col nostro passato: sentimentale, feroce, straziato, ma mai irrimediabilmente svanito.
Pubblicata in QuiLibri di gennaio febbraio 2016
Luisa Pianzola, Una specie di abisso portatile, (La Vita Felice, 2015)