In principio è l’ora 00:00, «l’istante assoluto» (00:00, p. 9). Le cifre tonde che marcano in apertura la raccolta d’esordio di Pietro Russo, Italic, 2016 A questa vertigine, non sono l’alpha né l’omega, piuttosto l’uroboro che abbraccia i due estremi. Siamo di fronte a una poesia che raggiunge la coscienza dopo aver attraversato una quiete ipnotica: i quattro zeri dell’incipit lampeggiano come un ultimatum su schermo bianco, minacciando una lunga epoca di effetto neve.
Ma forse è tutto sotto controllo. Qualche anno fa un’équipe di scienziati tedeschi è riuscita a sospendere il tempo di un fascio di luce, intrappolandolo per alcuni secondi in un cristallo opaco. L’operazione alla quale Russo sembra intento, nel suo laboratorio, non è poi tanto diversa: si tratta di convogliare nel segno linguistico tutte le energie del mondo presente, passato e futuro; inchiodare i movimenti; «tenere tempo e fiato» (Eravamo splendidi, p. 14) per portarsi d’un salto al centro delle cose.
In questi versi il dato cronotopico si fa spesso, in deroga al proprio statuto, oggetto anziché sfondo. Tutto ciò che cade sotto lo sguardo del poeta trova collocazione nel tempo e nello spazio; ma sono un tempo e uno spazio relativi, esperiti su un piano soggettivo o culturale. Coordinate che dileguano, producendo una serie ininterrotta di fluttuazioni.
Il tempo, nella fattispecie, è uno dei motivi più fertili della sezione iniziale («Come quello che non avremo»), misterioso come un dio dai novantanove nomi: «Mettiamoci d’accordo su questo almeno / non è uguale a se stesso il tempo / c’è tempo e tempo e per ognuno / un nome diverso» (Per nome, p. 12). «Battezzare» il tempo (ivi), aspergerlo con l’acqua del linguaggio, è la sola via per accendere l’illusione di un possesso. E non solo il tempo vissuto, ma anche il suo negativo, «quello / dove non stiamo insieme si deve battezzare / assieme al tempo mai avuto, che fa male / come quello che non avremo» (ivi).
Ma se lo sforzo di costruzione è tutto rimesso al soggetto, sembra che non reggano più nemmeno le palizzate che separano il tempo della vita da quello della morte, sicché quest’ultimo «attecchisce sul nostro» (Un 25 novembre, circa, p. 11); o il presente dal futuro, perché «una volta questo era un futuro» (così un verso di Eravamo splendidi, p. 12, che potrebbe innestarsi – a mo’ di controcanto assertivo – su quello leopardiano: «Questo è quel mondo?», con allusione a un «prima» su cui l’«oggi» sorgeva luminoso).
Tocca la stessa sorte ai luoghi dello spazio: alto e basso si mischiano, stipulando un’invisibile alleanza, e «il cielo» è creato a «immagine dell’asfalto» (Un 25 novembre, circa, p. 11). Quella di Russo è una poesia che non ha mai paura di ferire sidera vertice, di sondare le connessioni tra la terra e la notte, di profondarsi nel cosmo. Il che si verifica specialmente nell’ultima sezione, «Dove chiami»: cfr. «il principio, quello delle stelle» (Pietre di Marradi, p. 56); «dal freddo delle galassie» (Pietra, p. 57); «non si sono interrotti i cieli» (p. 61); «gli anni luce» (p. 62); «gli ultimi fuochi delle supernove» (p. 63); «forse le stelle» (p. 64).
Ma qui pure non si danno punti fermi. Essere nello spazio significa scontare la condanna di un eterno passo indietro: «abitare il luogo che si lascia» (A passo strabico, p. 13), «adattarsi» a un «informe deserto» (I,p. 27), come leggiamo nella prima poesia della terza sezione, che rivisita luoghi evangelici tentando un dialogo con l’alto e con l’altro: «Sarebbe più facile dire: ecco, questa notte ti nego. / Ma non il corpo. Con il corpo ti cerco. Il corpo / non finge.» (IV, p. 30)
Dentro una realtà così precaria, simile a una camera orbitante ove si sia forzati a correre sulle pareti e sul soffitto, l’«onomastica» è il suggello di ogni relazione: stabilire un contatto qualsiasi, conoscere, fermare nella memoria sono modi per guadagnarsi un posto nel mondo («E quando scende più lenta / la sera e non sono comignoli a fumare ma l’Etna / da lontano la chiameremo casa / comunque, per non dimenticare», Con questa distanza, p. 46). Al fondo è la coscienza tragica, oracolare, che «Il nome, / […] è in sé il suo destino / anche quando bluffa.» (Onomastica, p. 48)
Neppure il poeta è immune da questa legge: in un altro testo dell’ultima sezione, Pietra, egli veste i panni dell’apostolo Pietro, ossessionato dalla direzione e dal carico del proprio destino: «Fosse stato maledetto / il mio nome “… su questa pietra…” / avrei dovuto spaccarmici la testa» (Pietra, p. 57). Senonché la pietra può divenire, da ara sacrificale, teschio di Yorick, oggetto intorno al quale addensare la meditazione («La tengo tra le mani, la soppeso, la interrogo / invece», ivi).
Altrove il poeta individua «la sua parte nella storia» nel ruolo di spettatore alla conversione di Paolo:
A Damasco, il giorno che la luce sfondò lo spazio
c’ero anch’io. Ero il terzo incomodo, l’intruso
dietro il pezzato che alza lo zoccolo,
quello che entra per sbaglio nelle foto.
Deve essere stato forte davvero il flash
ripensando il nitrito e il terrore della bestia
e poi l’urlo, il tonfo sordo sul selciato.
Tenere salde le redini, la mia parte nella storia.
Perdonatemi ma
attimi come quello li conosci se hai visto,
se davvero sai cos’è peccare.» (V, p. 31)
Laddove l’ambientazione, quella luce che strappa il reticolo dello spazio, il clic fotografico e poi la caduta sembrano rendere – per un disturbo di trasmissione tipico della poesia, interferenza di piani storici – un’istantanea subliminale delle esplosioni e dei crolli della guerra civile siriana.
Quest’impeto precipite, transitorietà dello spaziotempo, è vissuto dal poeta con la lucida sovreccitazione di un pilota davanti alla strumentazione di un aereo in avaria: si va incontro al disastro, eppure bisogna agire. Anche quando si diano solo movimenti scoordinati, «passi strabici» (A passo strabico, p. 13), «è il movimento che vanifica la mira» (Per nome, p. 12). Se il destino è immobile, bisogna opporgli l’azione, il dramma; arrabattarsi per «”trovare un posto, il fisico del ruolo”» (p. 37), perché la stasi non è solo preludio della morte, è rigor mortis; «se stiamo fermi è già una fine» (Motrice, p. 16).
E qui pare di intercettare l’eco di alcuni appelli frequenti nel primo De Angelis («È dentro, deve continuare, in un ritmo / infinito, come una parola / scoperta da altre parole / deve parlare, bagnarsi in un fiume / che non è suo ma lo tiene in vita, e non ha rive», Dovunque ma non, in Somiglianze). Del poeta di Somiglianze la poesia di Russo conserva le ambizioni ascensive, le inquietudini di fronte al destino avanzante, l’urgenza di un moto qualsiasi: purché si resti in gioco, si duri contro la tentazione di «abbandonare il dramma, la linea bianca / dritta che sembra un miraggio» (p. 40: deangelisiano è anche l’immaginario atletico entro il quale si situano il calciatore di questo testo e il «maratoneta» del successivo).
Più di un secolo fa un altro autore di vertigini, Giovanni Pascoli, preconizzava l’avvento di un’«era nuova» di poeti in grado di «descrivere la sensazione del nulla»: ministri di una religione in cui il «terrore dell’infinito» non sia «consolato o temperato o annullato», ma sbocchi nel «riconoscimento» e nella «venerazione del nostro destino». A questa missione Pietro Russo non si sottrae, quando indica nella vertigine il momento in cui l’uomo, presente a sé stesso, guarda nello specchio della propria finitudine. La poesia di A questa vertigine trasporta oggetti, pensieri, passioni in un deserto al tramonto, lasciando che i significati e la loro assenza emergano per spontanea esposizione alla propria fine; i versi si aprono così a una «pietà… / prima del congedo» (p. 63), che è itinerario «tra due impossibili» (p. 43), visita delle soglie tra vita e morte, dell’«amore / alla fine, che muore.» (p. 60)
La vertigine di Russo è il contrario del di-vertissement, con cui si pone in relazione etimologica: è montare di sentinella sul varco del buio, andare incontro alla morte per strapparle il senso della vita. Da complemento di tempo o di luogo figurato il titolo scivola così verso un dativo: «a questa vertigine», a questo nulla che è tutto, occorre consacrare ogni esperienza.
Siamo al mondo come in un terminal d’aeroporto (cfr. Terminale, p. 47): «E puoi vedere anche noi da questa parte / che agitiamo una mano, attenti / a non staccare i piedi da terra, non / prendere il volo per nessuna ragione» (ivi); eppure quel segno di saluto si chiama addosso presagi sinistri, sembra quello dei condannati che sfilano sotto gli occhi del Cesare.
Nella sezione «Tra due impossibili», cui appartiene il testo succitato, la vanità delle azioni umane diviene in questo senso scacco della storia, sullo sfondo di una Catania che quello scacco sembra rinnovare in eterno, tra le «pareti di qualche bar», Via Etnea che è una «fuga barocca / dal Duomo alla Montagna»: per metà sogno, per metà composizione musicale. «Non c’è scelta / né fedeltà che tenga» («Delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro», p. 51): il tempo lungo cade, «la polvere» matura «sotto il tappeto da anni» (ivi); il movimento è tanto necessario quanto impossibile. Dietro non c’è solo il Verga dei Malavoglia, ma anche il Sereni disincantato di Inverno a Luino («Sa la gente del porto quanto è vana / la difesa dei limpidi giorni»).
Eppure in questo passaggio bisogna giocare all’essere. E forse la vertigine non è solo minuto contemplativo, ma dichiarazione di una possibilità capace di espandersi, coprire mondi interi: per «spingere orizzonti e pianeti / oltre le leggi. Non importano le basi / se nella mia mano hai visto già la torre / e decisa, leggendomi gli occhi, / “sì, ce la faccio. È possibile” dici.» (p. 23)
Pietro Russo è nato a Catania dove insegna materie letterarie nei licei e Lingua italiana agli stranieri presso il comitato locale della Società Dante Alighieri, di cui è anche responsabile delle attività culturali. Collabora con diverse riviste letterarie cartacee e online. Suoi testi poetici sono apparsi sul web e nell’antologia 4×10. Quadernetto di poesia contemporanea (a cura di G. Calanna e O. Caruso, Algra, 2015). Ha pubblicato il saggio La memoria e lo specchio. Parole del Petrarca nella poesia di Sereni (Bonanno, 2013) e la raccolta poetica A questa vertigine (Italic, 2016). È socio fondatore e segretario del Centro di Poesia Contemporanea di Catania.