Dalla nota di Giancarlo Pontiggia
Un sentimento di ansiosa precarietà pervade il mondo poetico di Marco Vitale. Oggetti, luoghi, persone sembrano ogni volta sul punto di perdersi, come se la ruggine del tempo potesse intaccarne da un momento all’altro la fragilissima patina. Di ciò che è stato, sopravvivono solo labili indizi – esili giunzioni, fili, lumi, soffi di un tempo remoto – che hanno a volte la consistenza di un sogno, e cui il poeta può opporre solo i fragili, anch’essi, eppure così tenaci, moti del cuore. Ne è spia la sintassi poetica, intessuta di vocativi, inversioni, reduplicazioni intensive, interrogative cariche di pathos («Possibile, nessuno parla, possibile?»), gerundi che sospendono il movimento dei pensieri, quasi a eludere il loro rovinoso volgersi a un esito immancabile, immedicabile.
La tonalità affettiva, naturaliter elegiaca di ogni verso coinvolge non solo la materia domestica e memoriale (una proustiana «lanterna di figure»), ma anche il mondo della natura: cieli, nubi alte, lumi che s’incastonano nella retina degli occhi, luoghi resi sacri da un transito – da un gesto che li illumina per sempre, sottraendoli al pauroso «periplo di buio» che li insidia – si colorano di una loro umanissima pietas. In questo libro di grazia prodigiosa e di struggente intensità, equamente diviso fra strazio e lenimento, lucida percezione del nulla e ostinato risorgere di un mondo di amorose illusioni, il caravaggesco diversorium della Vulgata, cui si allude nel titolo, e che il poeta rivive nel ricordo dei «grandi presepi napoletani che da piccolo mi incantavano», si fa emblema della vita stessa, con le sue perenni, insondabili contraddizioni, il suo misterioso gioco delle parti che l’autore fa balenare, proprio nell’ultima pagina della raccolta, con l’improvvisa apparizione, da un punto lontano, quasi improbabile – eppure così vero – della storia, di un Marcus Vitalis, oste «nell’antica Lugdunum», che potrebbe benissimo reggere la locanda di muschi e di legni della Santa Notte, mescere il vino che ci consola e insieme ci sprofonda – ignari di tutto – nel grande buio del mondo.
da Diversorium di Marco Vitale, Il labirinto, 2016
Che restino soltanto poche patine
di quel tuo orgoglio così chiaro
incontornabile e il sorriso di lei
voglio dire di te con quel rossore
che un mattino d’inverno
d’Alta Italia scioglieva
Un volo di colombi di promesse
che resti solo quello
questo davvero strazia
**
Le scontornate immobili colline
quella luce cordiale quel settembre
che riconcilia
Tutto era raccolto in uno scatto
di un altro tempo
un tempo calmo e vostro
che immagino al lenire di un raccordo
di poche voci
Una sera di luci, di promesse
come ingannevole fa brillare la vita
**
Una liberazione
dicono spesso in questi casi, ma chi
libera chi se il delicato
tuo orologio si ferma?
Oh filo sottilissimo che spezzi
soffio che più non torni
più non torni
poco è stato possibile
quando era possibile
troppo ne avanza e non per te si dà
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Marco Vitale (Napoli 1958) vive a Milano. È autore dei seguenti libri di poesia: Monte Cavo, Edizione del Giano 1993, L’invocazione del cammello, Amadeus 1998, Il sonno del maggiore, Il Bulino 2003 (poi in Bona Vox, Jaca Book 2010), Canone semplice, Jaca Book 2007, Come da un lungo sonno, Il Bulino 2009. Un suo racconto, intitolato Port’Alba, è uscito a Mendrisio nel 2011 per i tipi di Josef Weiss. Ha pubblicato la monografia Parigi nell’occhio di Maigret, Unicopli 2000 (nuova edizione 2013) e curato, per la stessa casa editrice, il volume intervista a Evaldo Violo Ah, la vecchia BUR!: storie di libri e di editori, 2011. Tra le sue traduzioni le Lettere portoghesi, Bur 1995, Gaspard de la Nuit di Aloysius Bertrand, Bur 2001, Stanze della notte e del desiderio di Jean-Yves Masson, Jaca Book 2008, Miseria della Cabilia di Albert Camus, Nino Aragno Editore 2011.