Enzo Lamartora, “La dimensione della perdita”

copertina-jpgNota di Enzo Lamartora

Come tutte le cose umane – le emozioni, i valori, le relazioni – anche la poesia è soggetta al tempo, alle stagioni, nel senso che cambia di forma e di sostanza.
Da giovani si è naturalmente portati a pensare che l’arte, ma anche l’amore e l’amicizia, debbano essere dei moti spontanei, debba tradurre emozioni spontanee. Poi il tempo, l’esperienza e la perdita fanno il loro lavoro di scalpello. L’emozione e l’arte diventano il frutto di una disciplina di vita.
Oggi io credo che la poesia debba essere fondamentalmente una riproduzione fotografica della realtà, cioè che debba presentare ogni volta un pezzo umanità così com’è. Penso alle foto di guerra di J. Natchwey, alle foto parigine di A. Kertesz, a quelle di Scianna o Depardon.

Un poeta non deve inventare nulla.

La creazione artistica, svincolata dalla realtà, è puro esercizio di fantasia. Può essere anche “bella”, ma rischia di finire nell’album dell’estetica, e non avere alcuna capacità di presa e trasformazione umana e sociale.

Allo stesso modo, la poesia dev’essere comprensibile.

Un poeta dovrebbe sforzarsi di dire le cose in modo semplice, senza renderle artificialmente incomprensibili. Semplicità, quindi. Ciò non equivale a banalizzazione, ma, anzi, a perfezione. Omero era comprensibile a tutti coloro che lo ascoltavano nelle piazze. Shakespeare altrettanto. Uno dei più grandi poeti del Novecento, Ghiannis Ritsos, non ha scritto un solo verso che non fosse comprensibile anche per un club di pensionati. Venendo ai nostri giorni, due poeti giovani di cui avete parlato anche voi nel blog, Damiano Sinfonico e Daniele Piccini, scrivono in modo chiaro, comprensibile, non si applicano a shakerare un verso in modo da renderlo poetico.
A mio avviso, si può fare buona poesia proprio restituendo un pezzo di realtà vera, ed essendo semplicemente comprensibili. Questo presuppone che si abbia qualcosa da dire, ovvero che si scriva o si parli (o si fotografi o di dipinga) solo quando si sia presi da un’emozione autentica. Non credo interessi a qualcuno una poesia scritta mettendosi di fronte a un foglio bianco e sforzandosi di trovare parole “poetiche”. Quanti adolescenti proveranno un brivido a rileggere queste poesie? È una buona domanda. Come mai, a un secolo di distanza, Kavafis e Baudelaire sanno ancora emozionare?
Continuo a pensare, quindi, che la poesia debba richiedere al poeta una disciplina, un sacrificio umano e morale, che è quello di rinunciare alla celebrità, alla ricchezza, alla felicità, in direzione del senso. Trovare luoghi da “fotografare”, stagioni, teatri di guerra, di emarginazione, di umanità che siano di utilità umana e sociale.

Avere qualcosa da dire e da esprimere.
Scrivere riproducendo fedelmente la realtà.
Scrivere in modo semplice e comprensibile.
___

ESTRATTI

Non ho più voglia di vivere così.
Non posso più restare, di sera,
col letto disfatto che puzza di chiuso,
il frigo vuoto, il bagno arrugginito;
non posso più restare tutto il giorno alla finestra
mentre il mondo, per strada, mi parla di te.

**

Il vero diamante è quello nero della notte,
quando il resto scompare e ci restano le cose,
le statue ormai vuote di noi che non parliamo,
tutto fissato, immobile, dita, labbra, lenzuola,
forse anche una farfalla, rimasta sulla bocca
come una domanda.

**

Ci sono momenti della vita in cui ti ritrovi da solo, incurabile e solo.
Nessuno che ti veda o che ti cerca; anche questa è solitudine.
Non c’è modo di parlare delle perdite, del vuoto, dell’angoscia.
Gli operai entrano ed escono, tua moglie, tua figlia. Non importi, non importa.
Se ne stanno in disparte, impegnati, in altre stanze.

Ci sono giornate furibonde in cui perfino il cielo si accanisce,
gli avvoltoi ti piovono addosso mentre tenti di rialzarti; un abbandono,
dei rancori coniugali, insistenti, come temporali.

Ci sono stagioni in cui ti stai perdendo di nuovo, o ritrovando.
Vai avanti e vai indietro, nel giardino, a occhi bassi,
contando i passi che ti legano a quel mondo in cui avanzano il tempo
gli amici e il desiderio,
per promettersi un viaggio, fare esperienza, parlare d’impegno.

Ci sono intere vite in cui non ti àuguri più niente di tutto questo.
Rimani immobile ormai, immobile e inerte, a scrutare i paesaggi, i passaggi del tempo.
A passare nel tempo.

**

Ho incontrato un uomo per strada.
Era una di quelle giornate in cui la terra ti impaurisce, nuvole nere,
foriere di pioggia cattiva, un vento basso, freddo, che spezza i virgulti.
Era solo, ero solo anch’io.
Cosa abbiamo appreso oggi – gli ho chiesto -?
E cosa abbiamo disperso invece?
Mi sembra di essere rimasto solo – ha biascicato -.
Gli uomini, in masse, hanno lasciato i villaggi, portandosi appresso i beni,
tralasciando i mali. Sono andati altrove, per costruire una Babele
e finirla con la follia.
Qui c’è rimasta soltanto l’ombra, che è ricordo, poesia, malinconia,
la dimensione di una perdita totale.
Io sono rimasto a completare l’opera, affinché non rimangano tracce.
Ho seppellito mia moglie, bruciato la casa; ho tagliato anche le piante,
tutte, per non avere rimpianti.
Ho lasciato in piedi il vecchio ulivo, per impiccarci i cani.

**

Si lava i denti, nel buio della notte. Tutto in silenzio.
Fa la madre, rimpiange il passato, tira a campare.
Tiriamo a campare.
Quel ch’è certo è quest’insonnia, quest’attendere per nulla,
questa abisso tra di noi. D’altronde, cos’altro fare.
Forse l’amore è finito, quand’è solo impapocchiato
sui biglietti di Natale, quando la sola occupazione interessante,
nel buio della notte, sono i denti da lavare.

**

L’inverno che verrà. Sembra un compito in classe,
di quelli che assegnavano una volta, quando c’erano parole
da sprecare. E invece è adesso, e abbiamo poco tempo per parlarne.
Avrà tempi lunghi e pochi altri cambiamenti, sagomato sulla vecchiaia,
direi. Dovremo restare a guardare qualcun altro vivere
– figli, nipoti, celebrità -, e noi fermi nel vuoto umido e asfissiante
della sopportazione. D’altro canto, è facile prevederlo, se mai prima d’ora
abbiamo vissuto. Ci siamo preparati per bene però, ci abbiamo messo anni
a sprecar fiato, a sperdere l’amore e le occasioni, a convincerci
che siamo normali, perché è più facile vivere e perdersi di norma,
e alla fine ci siamo riusciti. Abbiamo compiuto il capolavoro
di augurarci un vero inverno purché non accada più nulla che ci renda vivi.

**

Non rammaricarti amore mio. Vedrai.
Ci sarà un luogo in cui in cui vivremo lontani
dai comitati, dai commerci, dagli affari;
un tempo remoto ma certo, nel quale ci culleremo
su qualcosa di sognante, un pianoforte per esempio,
qualcosa che la mano di un bambino fa vibrare,
che pure la morte – così prosaica, concreta, burocratica –
fa vergognare.

**

Caro amore,
la vita è fatta per quelli capaci di sentire la propria melodia
anche nella noia di un pomeriggio invernale,
di estrarre l’acqua anche nel tempo desertico della vecchiaia,
della perdita, del disincanto.
Per quelli capaci di illudersi, almeno, di tutto questo.
Non sono io, lo sai bene, non siamo noi.
Ci siamo promessi la serietà, quando altri ciangottavano ridendo;
ci siamo riconosciuti ed amati per le rughe sulla faccia,
quando la convenienza reclamava ben altra morbidezza.
Ci siamo incontrati nel cercare le cose più nascoste degli ultimi,
degli uomini, di noi, non certo a trascinarci.
La vita richiede il riflesso del sorriso ad ogni piè sospinto,
la negazione dell’ombra, dell’odio, della difficoltà.
Magari potremmo cambiare indirizzo, provare a constatare se si riesce
a cominciare un nuovo libro della nostra vita.
Ma chissà se era questo il disegno di noi due che sognavi da bambina,
e se ci troveremmo. La coerenza, per noi, sta tutta nella coscienza
della fine raggiunta, senza altro traccheggiare inutilmente.
Se la luce del sole s’è già spenta, conviene chiudere le tende
e provare a dirsi addio.

 

foto2Enzo Lamartora è nato a Napoli nel 1965. È laureato in Medicina e specializzato in Psichiatria e Psicoanalisi. Ha studiato Teatro a Roma e ha collaborato con Alfonso Liguori e Renato Carpentieri. Ha vissuto e lavorato per diverso tempo a Rabat, Grenoble e Parigi. È autore di una ventina di scritti, tra poesie, opere poetiche per il teatro, traduzioni, fotografie e saggi letterari. Dal 2002 al 2007 ha diretto la rivista di Arti, Culture e Riflessioni “Passages”. Ha pubblicato i volumi di versi Nel corpo tuo rimorso (Crocetti 2002) e La dimensione della perdita (Crocetti, 2016). Di prossima pubblicazione è il volume Opere poetiche per il teatro, 2017.

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