Dalla quarta di copertina
La prima poesia della nuova raccolta di Strumia è una precisa dichiarazione d’intenti: «Flesso appena in un inchino | si congeda dai lampioni | anche l’ultimo passante. | E là dove non siamo | la parola cede al sasso, | il luogo torna ciò che è». L’intento di Strumia è proprio quello di raccontare quel sasso quando l’uomo non lo guarda piú, quando le categorie umane per percepirlo si sono dissolte. È un paradosso, perché ovviamente – Kant insegna – la realtà che possiamo descrivere è conformata alle nostre categorie di pensiero, ma alla poesia si chiede proprio, attraverso paradossi e metafore, di operare qualche miracolo, se no a che cosa serve? E dunque i versi di Strumia si aggirano nelle varie sezioni come in uno scenario homeless (Cartacce, Gatti, Panchine…). Una vista rasoterra, piú bassa di una testa umana, per immaginare una realtà diversa, forse piú vera. Strettamente intrecciato a questo percorso e incredibilmente non in contraddizione con esso, il libro è anche un resoconto esistenziale e si conclude con la sezione Tombini (che evoca tombe) in un dialogo con i propri morti e in diverse immagini di fine corsa. Il tutto versificato in un ritmo incalzante, prevalentemente ottonario, spezzato ogni tanto da un improvviso cambio di metro, da una dissonanza, da un’aritmia, forse da una sincope, un’assenza temporanea, ed è spesso lí, proprio in questa pausa di coscienza, che si concentra lo scavo di Strumia, il suo sguardo alternativo sul mondo.
ESTRATTI
Girare per le strade
senza meta
fino al volto dell’osso.
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L’unico squarcio sta nel rinunciare
alla trama che riannodi tutto.
Al bicchiere che da solo è enigma
offri le nuvole della tua fronte,
per l’istante che si fa uccello
stacca briciole dal pane.
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Non trascurare l’osso storto,
il cucchiaio di miseria
nella tua minestra.
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Resta quello
che non conta,
che rimonta
quando l’occhio
volge altrove.
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Siamo carne per capriccio
nelle mani d’un diverso
uso delle stelle,
così la banconota
nelle mani di tuo figlio
si converte in caramelle.
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Tutto finisce. L’ho gustato,
digrignato,
ora cerco un altro osso.
Una luna da abbaiare.
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Filippo Strumia è nato nel 1962 a Roma, dove vive. Lavora come psichiatra e psicoanalista di orientamento junghiano. Per Einaudi ha pubblicato Pozzanghere (Collezione di poesia, 2011).
Sembra, dagli estratti riportati, una poesia d’intento filosofico, un pensare le cose per chiedere per sé una parola che possa condensare un significato, un verso-parola che chiede al sentimento se ancora esso possa esistere, nel Nulla del Presente, un versificare oggetti visibili di un correlativo esistere interiore ancora da interrogare…La realtà, poi, nella sua evidenza materiale, allude a quanto di noi sentiamo vivere o morire: è l’attimo che decide un’intuizione, uno slancio, una sconfitta: tra l’osso e la luna. Il verso si compie come composizione chiusa, che finisce anch’esso in curva, in velocità, evitando gli orpelli, dritto all’essenziale, fino all’unico punto che la domanda sottesa rincorre.