di Tommaso Di Dio
Entrare in un esordio significa avvertirne dapprima l’atmosfera; respirare, libro fra le mani, quel gelo che percorse la colonna vertebrale di chi lo scrisse e ripercorrere il tremito di chi vide quei segni, cui affidava tutto, miracolosamente pubblicati, editi, restituiti in forma tangibile. L’esordio è un atto ambiguo, contro il pudore: lo si desidera e subito ci si vergogna. Quei versi sono stati compagni di ere geologiche di noi e ora sulla pagina ci sembrano così poco, così tremendamente incapaci di essere all’altezza del compito cui erano destinati. Eppure l’opera c’è, ormai nuda, in qualche modo agibile, percorribile. Niente come un primo libro di poesia sembra dirci qualcosa su cosa sia la poesia.
Inizia con un volo il libro d’esordio Opera in terra di Alessandro Grippa; e con le grida nel vento. Buffa contraddizione, quella fra titolo e primi versi, ma solo apparente: se la prima poesia descrive l’approdo di alcuni volatili sugli alberi, essa si premura di dirci che «sembrava soltanto»; e aggiunge: «Ho scritto una parola\ per ogni ala aperta nella stanza\ dello stormo» (p. 17). Si entra fin da subito nel regime della somiglianza, della similitudine e della metafora, nella pagine di Grippa, come si entra subito in una strana densità. È un’opera vischiosa, questa, dove il dato reale permea le parole e subito si disarticola e si trasfigura solo per avverarsi. Le parole di Grippa sono estremamente nitide, ma al contempo inafferrabili, giustapposte per smottamenti percettibili. Il lettore si confronta con le figure che sorgono dalla pagina, ma sono invece azioni o addirittura qualcosa di meno: atmosfere straniate e vive reminiscenze di un’intensità. In esse, ci muoviamo lenti, come in una pasta cromatica, scura come sono scuri i fondi terrosi dei quadri di Michelangelo Merisi: accesi per una vocazione al nitore. E c’è la donna che, al mattino, «pensa ai figli», immersa in una casa dove «il latte si è allargato in ogni stanza\ posato sulla mandorla del gas» (p. 21): qui i mozziconi delle sigarette spente sono «fiochi come stelle alpine»; e c’è il pomeriggio, invece, così fuso all’orto che sembra «un corpo solo, ingrommato al badile» (p. 22). Una vita di scorci, staccati lembi riuniti qui, come a ricostruire il tracciato deciso e incomprensibile di un sonnambulo che abbia varcato la soglia di una cascina nella campagna lombarda e stia per immergersi nella nebbia, nella alta borda come la chiama Grippa, con un termine che non può che essere dialettale.
Di fronte al fantasma di un albicocco, ci si chiede sgomenti, come per un sussulto di veglia: «Era questo il progetto?»
Chi parla qui è «ombra sul muro», «qualcosa che esiste e che trema» (p. 24). Il soggetto di queste poesie si lascia confondere ai suoi oggetti, si immischia, si lascia attraversare. I versi procedono, indagando questa identità che siamo, fragile e plurale, chiamandola «animale scampato\ non ferito del tutto». Inoltrati in una notte, vediamo con la coda dell’occhio l’esordio della scrittura, la sua fatica, il suo tormento, il suo lavoro con l’invisibile: «Con nulla. Fallire,\ fallire, increspare carta, scartarla». Eppure, in questo spazio lattiginoso e aperto, siamo inesorabilmente nello stormo, nelle «parole affollate di esseri e di risvegli» (p. 25), dove vivi e morti sorgono finalmente per incontrarsi affinché il poeta registri la loro voce. E c’è Pino di cui si dice «che dorma con una chiave in bocca» (p. 26) e – in una delle più belle poesie del libro – c’è una folla indistinta che dal buio chiede, insistendo: «Dicci a chi dovrai rendere conto?\ con quanta voce\ e quali versi parlerai per noi?» (p. 32). A questa ingiunzione, che è centrale nel testo, fulcro poematico dell’intera raccolta, la poesia di Grippa non sa che rispondere con la voce della vita, come se la vita e la morte non fossero che l’una il punto più alto dell’altra e questa unità infine non fosse che amore anonimo, conscio della sua fine, della sua sparizione, della sua continua migrazione, colto all’improvviso nel volo degli aironi a bordo di una strada: «proprio dove\ posteggiati qualche volta nell’amore\ anche noi li raggiungiamo in volo».
La poesia di Grippa riesce in questo bilico a sposare nello stesso testo l’affermazione perentoria e struggente «Dev’esserci, per ognuno\ di noi un amore», con l’altrettanto perentoria «con fame di madreperla\ l’universo ci sta deponendo» (p. 41). L’universo non ci abbandona, ci «depone»: un gesto lento, sacro, quasi conscio che il frutto di quel gesto è un rilucere stupendo, ma basso, umile, organico. Il testo per questo poeta è sede di contrasti, una zona d’urto, l’eco larga di un boato che continua da millenni, in ogni dove; nelle sue parole, dove la dizione è ridotta a perlopiù attento e costante ascolto, Grippa tiene insieme la polvere caotica della frana («Ora scrivi delle ragnatele, della polvere,\ scrivi, fanne grigio») e il canto albale di chi nasce: «è quello che puoi dire. Dillo.\ La morte è il balbettio,\ il serpente che ti frana\ a capo, il sasso dell’inciampo. Il gallo che conduce all’alba\ luminosa del senso\ quando ne segui il verso» (p. 54). E questi versi si impongono come se non fossero di nessuno, o meglio: di qualcuno che solamente li ha raccolti e trascritti come poteva dal dettato muto dell’operare stesso della terra.
Sembra che per questo autore scrivere sia un peculiare artigianato, opera di travaso fra due mondi («L’esercizio più difficile è trasportare l’acqua da una stanza\ all’altra, quest’acqua tutta\ a mani nude», p. 59). Le parole del poeta – sembra dirci Grippa – devono stare all’interno di questo circolo, in questo sforzo fra il mondo del visibile e quello dell’invisibile, all’interno di questa economia, di questo commercio non pacificato fra vivi e morti: «I fantasmi danno ai vivi le parole\ dei vivi. Con le facce incamminate bianche\ come il seme, raccolti nella voce\ che è già seme» (p. 67). E se il seme e il fantasma sono gli estremi di questo arco, la parola poetica è quella che sa cogliere la vibrazione del loro trasmigrare, ciò che conduce e accompagna da un punto all’altro e sta «tra le forme di vita in carica», avanza verso le «sacche di sfocatura livida» ai bordi dei laghi, coglie «l’onda che fonda immobile il centro del prato» (p. 73).
Una poesia che non vuole essere sapienziale, ma che, per lento ascolto, infine approda ad una sapienza e dice con candore che il più del mondo è perduto, è sempre inafferrabile e inafferrato; ma tuttavia urge, spinge dalle superfici più viete, parla, dice, costringe a contemplare il continuo operare di qualcosa nella materia greggia ai bordi dei laghi fango. Infine, con i versi di questo poeta, ci fermiamo tremanti e infreddoliti in una piccola chiesa sperduta, incantati nel guardare le immagini fragili di alcuni volti dipinti sui muri, «già quasi tornati sinopie»; ci fermiamo e facciamo nostri quegli occhi dipinti, quegli occhi che vedono da centinaia di anni e sono prossimi, sempre più prossimi a svanire, eppure ancora restano: «Vedo da occhi simili, se vedo,\ credo con la stessa ingenuità» (p. 76). Oppure, alle ultime tappe di questo libro, agli «ultimi posti» (p. 83), ci inoltriamo in uno spazio incerto, un «solaio» fra «vetri chiusi», lì dove «muoiono gli uccelli», dove il volo che ci spinse all’inizio è soltanto un «telaio delle ali» «deposto a terra»; dove infine i volatili «si scordano del volo\ sfiniti dalla ronda». Qui incontriamo l’ultima figura possibile del poeta: «un cane, ignaro\ di guardia sul balcone» che «fiuta\ dentro l’alba un odore nuovo»; e ci fermiamo ad ascoltarne il latrato che «ciecamente\ per fiducia» indica qualcosa in lontananza. Forse ha visto, forse no; forse in quel abbaiare stonato ha dentro di sé l’intuizione di un’unità più grande, un mondo abitato in coesione fra chi c’è e chi è, pur abitando l’invisibile: «il branco\ un progetto dentro l’ugola».
ESTRATTI
da: Opera in terra, di Alessandro Grippa, Pordenonelegge-Lietocolle, 2016
Mattino
a mia madre
È passata per la casa
la luce del mattino; ha scritto diurna,
spalancata, il pane aperto, le tazze
nel bianco di servirle. Dove guardo è una casa di anni fa
i termosifoni, le stoviglie; i mozziconi spenti della sera
fiochi come stelle alpine. Rientra il cane
dal balcone alle parole di una donna.
La casa non è piccola né grande.
Il latte si è allargato in ogni stanza,
posato sulla mandorla del gas.
La donna pensa ai figli (il primo amore,
il secondo sopravvivere); al loro risvegliarsi
entrando nel pallore che da sopra le coperte
fonda i letti, sfiorando i globi freddi, indelicati,
i silenzi dietro al fiato che una volta giorno
non si possono raggiungere, o recuperare.
Gli aironi
– Dicci a chi dovrai rendere conto?
con quanta voce
e quali versi parlerai per noi? –
Non rispondo. Non so di che rispondere.
Forse dirò solo che ho intravisto all’alba
i casermoni, i camion, la zona industriale;
quando lentissimamente si spalancano
gli aironi a bordo strada, proprio dove
posteggiati qualche volta nell’amore
anche noi li raggiungiamo in volo.
Via San Pietro
a N. G.
Dev’esserci, per ognuno
di noi un amore.
Non sapremo da dove
ci protegge;
sui moli al tramonto,
nella chiusa arrugginita
che governa i fossi,
dalla carne degli incidenti,
ma deve essere.
Forse in una tregua di acque
o nel silenzio dei mobili,
sul confine intimo
di un arrivederci,
e ci chiederà un pegno.
Noi, figli di luce statica
non saremo mossi per certo.
Ma sicuramente,
con fame di madreperla,
l’universo ci sta deponendo.
Ultimo posto (Non indovineresti mai)
a G. F.
Non indovineresti mai, non puoi,
dove muoiono gli uccelli
che affrontano l’inverno qui
da noi. Deposto a terra
il telaio delle ali, come
sbattono battuti dalla fame
nei solai, pazzi come angeli,
contro i vetri chiusi e le pareti
di cui un dio è la mira esatta
e la condanna. E quando,
arresi, un’ombra li attorciglia
si scordano del volo, sfiniti
nella ronda, finché le zampe grigie
non perdono le orme.
Qualche gatto li ha seguiti
e ora, intrappolato
regredisce a cuoio, a sindone
di crampi. Mentre un cane, ignaro,
di guardia sul balcone, fiuta
dentro l’alba un odore nuovo
più intenso del mattino;
così abbaia ciecamente,
per fiducia; il branco
un progetto dentro l’ugola.
Alessandro Grippa (Treviglio, 1988) vive a Caravaggio, in provincia di Bergamo. Diplomato al biennio di Arti Visive all’Accademia di Belle Arti di Brera, nel 2009 è tra i fondatori di Caravaggio Contemporanea, collettivo di artisti e curatori. È inoltre vicepresidente dell’Associazione GSI Lombardia Onlus, per la quale dal 2010 collabora come volontario a progetti di cooperazione tra Italia e Africa occidentale.