È un piccolo libretto ma denso di interessanti considerazioni questo breve saggio di Antonio D’Alfonso sul “plurilinguismo”. Lo scrittore e saggista canadese di origine italiana descrive bene come nel continente americano si traduca poco delle letterature di altri paesi e quando si traduce non si dà importanza a quei prodotti (a meno che non siano prodotti che l’industria culturale vuole/deve promuovere). Mentre la traduzione è veicolo di conoscenza sostanziale delle letterature altre ed è un imperativo fondamentale alla crescita anche della propria lingua. A maggior ragione il plurilinguismo sarebbe da praticare per un mondo più aperto e meno identitario e perché la conoscenza di più lingue per uno scrittore e per un lettore sono anche sinonimo di crescita lessicale e scambio di processi linguistici da una lingua all’altra con beneficio di creatività nella stesura di testi di prosa o poesia.
C’è in questo libro una complessità di temi che spiega come mai il “multiculturalismo” abbia un suo lato oscuro che nel momento in cui loda le differenze in realtà le ghettizza nei rispettivi dialetti, nelle rispettive lingue minori, nei rispettivi linguaggi chiusi, insomma rende comunque schiave le forme e gli usi linguistici (e non solo) delle varie piccole identità chiuse. E ciò rende ancora più chiuso il mondo che viviamo e che abitiamo. Un’identità forte mina le basi della convivenza civile. Come scrive l’autore: “Ciò a cui assistiamo non è, come alcuni credono, una torre di Babele ultra-moderna: ciò che vediamo è piuttosto la frammentazione dei paesi in combriccole linguistiche, ciascuna delle quali si crede l’ombelico del mondo […] ciò che ne deriva è peggiore del campanilismo”.
Perciò D’Alfonso spiega che serve tradurre di più, scambiare di più esperienze letterarie e conoscere più lingue per scegliere di scrivere in quella che al momento serve maggiormente ad arrivare a più persone possibili. Come racconta nell’esempio dello scrittore ebraico Sholem Shtern che per non far torto a nessuno scrisse una storia di Montreal in yiddish, in modo che i francofoni non potessero dire che aveva scritto in inglese e ignorarlo, e gli anglofoni non dicessero che aveva scritto in francese e ignorarlo. Tutti apprezzarono, ma non conoscendo l’yiddish tradussero in francese e in inglese. Dice D’Alfonso: “In passato una lingua sembrava emergere dal suolo sul quale camminava un popolo, oggi invece abbiamo di fronte una massa di gente senza residenza sulla terra. Questi apolidi tendono a crescere con la tecnologia che sembra rendere sempre più bastardi i figli del futuro”.
Un libro intelligente e che invita ad aprirsi al mondo; idee nuove e descritte in maniera semplice e chiara; un testo mai banale e utilissimo a chi scrive e a tutti coloro che hanno a cuore la letteratura.