di Paolo Senna
13. Poesie di Francesco Guazzo, [s.l.], Edizioni Corte Micina, 2016, “Premio Poesia Città di Fiumicino” (edizione di 150 esemplari)
Avvicinarsi con spirito critico all’opera di un poeta giovane, anzi, giovanissimo, può rappresentare un azzardo: tanto per il critico che potrebbe svicolare in generici quanto lambiccati ragionamenti e ricalchi di dizioni già proposte; quanto per l’autore sul quale potrebbe gravare un giudizio o un’opinione favorevole oppure malevola. Ebbene, il caso che si dà per le poesie di Francesco Guazzo è anzitutto che la questione anagrafica – il fatto che egli sia appunto giovanissimo – è mero accidente; sostanza è invece che Guazzo è poeta di lucida introspezione e di perfetta leggibilità: due doti già di per se stesse preziose e non abbondanti non diremmo ai poeti, ma alla comunità degli scriventi, giacché scrivere per capire e per farsi capire è forse la regula aurea di chi mira a istituire una qualche forma di comunicazione.
Le tredici poesie di Guazzo si legano a una forma di poesia in re, che nasce dunque dal vissuto, su sollecitazione degli oggetti e da un reame di immagini quotidiane e fedeli (per prendere in prestito due sintagmi di Anceschi), sulle quali il poeta si interroga senza però la pretesa di voler dare ad esse una definizione assoluta e categorica, né definitiva. Anzi, la spinta all’interrogazione degli oggetti (dico “oggetti” ma intendo naturalmente anche “situazioni”, “persone”) rimane aperta e non tende ad una chiusura risolutiva. Si produce così un senso di sospensione quasi incantata che aleggia sulle cose, che tuttavia non scivola mai nell’incantamento vero e proprio restando ben salda al dato reale, direi quasi alla “terrestrità” delle cose. Ritengo che questa condizione che Guazzo vuole comunicare sia ben espressa da questa breve poesia che, non a caso, miscela “saldezza” e inconsistenza: “Quando l’orologio mi tiene salda / la mano, sento la compagnia del vuoto, / e il bottone sulla metà del cappotto / mi stringe all’abbraccio del vento”, dove si scontrano due momenti: l’uno di abbandono e, appunto, inconsistenza (“la compagnia del vuoto” e “l’abbraccio del vento”), l’altro di ancoraggio e legame a dati certi, quasi per non perdere coscienza o gli strumenti di conoscenza (l’orologio che “tiene salda” la mano, il “bottone” che, lui pure, è strumento di saldezza e chiusura). Che tutto questo avvenga insieme, e che l’adesione alla realtà (la concretezza) sia contemporanea all’astrazione, credo sia la cifra poetica e stilistica dei testi che Guazzo ci ha presentato in 13.
Possiamo allora domandarci da dove provenga questo senso di sospensione che pure spira in queste poesie. È, io credo, nello sguardo della poesia che interviene come un diaframma e dà un’interpretazione degli oggetti nel momento stesso in cui se ne tenta una definizione. E della tipicità di questo sguardo è spia un preciso segnale retorico – che l’autore non impiega certo in senso imposant, ma che è piuttosto una dote, se vogliamo anche un vezzo – che si incardina sulla funzione (a volte anche più precisamente sul complemento grammaticale e logico) che traduce la specificazione dei dati di realtà, costruendo immagini originalissime, che fanno urtare concretezza e astrazione: “il successo dei sorrisi”, “casa di danze”, “furto delle parole”, “novità nel marciapiede”, “la speranza del mattino”, la “noia dell’edicolante”, la “spiegazione senza congetture del ciliegio”. Dove non vi è solo l’incontro-scontro tra concreto e astratto, ma anche il conferimento di dati tipici di figure animate a oggetti inanimati (il “marciapiede”, appunto, o il “ciliegio”).
È la (ri-)nascita di una poetica della vaghezza? Si tratta però di una vaghezza che, mentre definisce, suggerisce sfumature ‘altre’ degli oggetti, che risplendono per la novità quasi stupita (stupefatta) della loro nominazione. Il ‘vago’ (ricordiamo la “poetica del vago” di Leopardi), dunque, può essere l’indizio stilistico tanto dell’impossibilità di definizione totale delle cose, quanto (è il rovescio della medaglia) della possibilità che esse abbiano – o che ad esse possano attribuirsi – altri significati.
Infine, potrei dire che anche il titolo è – se letto in quest’ottica – quanto mai significativo. “13” è proverbialmente e anche matematicamente un numero che suggerisce imperfezione: dispari (che Guazzo si voglia riconnettere all’Impair dell’Art poétique di Verlaine?), indivisibile, primo (per tacere poi dei vari significati alchemici); è anche un numero per il quale la superstizione ha pure creato una fobia tutta sua, la triscaidecafobia. Insomma, un titolo e un numero che si fa programma di un’imperfezione messa per così dire a tema del giorno: imperfezione però nell’atto conoscitivo, nella definizione, dunque; non nella pronuncia, che anzi ci sembra di alta e sorprendente qualità.
Con 13 Guazzo ci ha dato la sua prima raccolta: aspettiamo dunque il Libro, nella certezza che l’autore, come il buon vinattiere, sappia continuare ad affinare la propria arte al fuoco della poesia.