di Eleonora Rimolo
Come i rami invincibili di una quercia secolare, gli eteronimi di Fernando Pessoa, sue voci di dentro, si collocano al di sopra di un tronco imponente, che è la coscienza infinita del più grande poeta dell’area lusofona ̶ e non solo ̶ del Novecento. I suggestivi intrecci di queste propaggini, sotto la cui ombra cerca riparo il lettore (trovando però soltanto una piacevole inquietudine, una struggente ma salvifica saudade) si rinnovano continuamente, grazie agli inarrestabili studi sui testi del poeta portoghese, che il suo gigantesco baule contiene e custodisce come una delle eredità letterarie più ingenti e onerose del secolo scorso. Tra le più recenti scoperte ci sono i tredici testi di Fernando Pessoa e dei suoi eteronimi pubblicati da Edb e tradotti da Antonio Cardiello, ricercatore dell’Università Nuova di Lisbona, se, come sostengono Proust, Bergson e Pessoa stesso, bisogna riappropriarsi del Passato attraverso la scrittura. Una stirpe incognita dimostra, ancora una volta, come per il poeta portoghese tutto sia scrittura, perché è quello il solo modo possibile per sentire tutto in tutte le maniere: da qui la moltiplicazione della propria esistenza, da qui gli eteronimi, vere e proprie sostanze autonome, che forniscono la soluzione pessoana al grande problema novecentesco, cioè la scoperta dell’Altro, dell’abisso plurale dell’Io, della psicoanalisi come strumento comunque inadeguato e incompleto di indagine della coscienza. Alcuni degli scritti contenuti all’interno del piccolo volume sono prose di argomento spirituale (ricordiamo l’interesse di Pessoa per le discipline esoteriche e per il neopaganesimo, attraverso il quale condanna aspramente la religione di Cristo), contengono critiche alla civilizzazione materiale (Migliorare le condizioni in cui gli uomini vivono; gli uomini possono o meno migliorare. […] Uccidere, torturare e ingiuriare non sono fenomeni necessariamente coinvolti nella produzione del buon funzionamento dei treni) e si interrogano sulla natura del popolo portoghese, che per Pessoa è un popolo privo di temperamento, plastico, amorfo, indefinito, incerto. Sarà anche questa attitudine geografica ad aver contribuito alla creazione dell’universo-Pessoa, fatto di finzioni possibili, e di altri poeti con sentimenti e destini diversi da quelli del loro ortonimo, come Pessoa chiamava se stesso. Nella poesia Il bibliofilo, inedito particolarmente efficace, il poeta riflette sul suo desiderio d’immobilità, e s’immagina come un bibliofilo privo di ambizioni che vive senza desiderare essere nulla come la bellezza/e senza essere stato nulla come il mondo. Sembra quasi di intravedere il fantasma del semi-eteronimo Bernando Soares, autore de Il libro dell’inquietudine, a cui Pessoa diede il compito di vivere in modo vicario la sua disforia. Il poeta osserva, scruta la realtà esterna e cerca disperatamente di compararla a quella interna per riconoscerne dei tratti estremi, definiti, compatibili. Ma ciò che trova è solo caduta senza direzione, infinitupla e vuota, e inesauribili visioni che si sovrappongono, come i volti di Caeiro, Reis, de Campos, Soares, Mora si accavallano sul suo volto, rendendolo così evanescente al punto che lo stesso Pessoa in punto di morte chiese di avere i suoi occhiali per potersi guardare meglio, in un ultimo, estremo tentativo di riconoscersi. Il 16 ottobre 1929 Pessoa ribadisce di non essere in grado di scoprire la visione del suo consistere attraverso un testo decisamente evocativo, che termina con un’immagine ben resa dalla traduzione di Cardiello: e tra visioni, per l’appunto, la gloria sfila/come l’ultima nostalgia del giorno/e come l’ultimo sogno, l’ultima disgrazia. Il poeta pensa in continuazione, ma l’unica sensazione che riesce a permanere costantemente all’interno della vastità corrotta del suo Io è la malinconia dell’Indefinito: nulla è reale, tutto è possibile, come Dio che se non esiste, non mi ha ascoltato/se esiste, è lui l’autore del peccato.
La breve sezione finale di Una stirpe incognita è dedicata ai tre eteronimi principali di Pessoa: il futurista Álvaro de Campos, il medico neo-pagano Ricardo Reis e il poeta-filosofo irritato dalla metafisica Alberto Caeiro. L’inedito di Álvaro de Campos è una riflessione in prosa sulla differenza tra intelligenza e sensibilità, e sull’assoluta convergenza di vita e morte, dimensioni che, dal di fuori e dal di dentro, ci fanno pur sempre appartenere a qualcun altro e mai a noi stessi (Vivere è appartenere a qualcun altro. Morire è appartenere a qualcun altro. Vivere e morire sono la stessa cosa. Ma vivere è appartenere a qualcun altro dal di fuori, e morire è appartenere a qualcun altro dal di dentro). Lo scritto probabilmente risale al periodo in cui de Campos si era auto-disintegrato come poeta avanguardista, attraverso un sistematico piano di distruzione della scenografia estetica futurista, che si servì dell’uso di quell’ironia che Jankékévitch definisce annichilente. Di Ricardo Reis, invece, viene proposta una breve riflessione sull’importanza in poesia di ancorare la novità a ciò che l’ha preceduta: da buon classicista Reis invita i lettori a saper distinguere gli scrittori che discendono con innovazione dalla vecchia stirpe da quelli che sembrano nuovi per la loro appartenenza a una stirpe incognita. Certo è che di incognite lo spazio interiore di Pessoa ne contiene molte, né si conosce la stirpe dei suoi eteronimi se, come egli stesso dichiara: mi sovveniva un motto di spirito, assolutamente estraneo, per un motivo o per l’altro, a quello che io sono o a quello che suppongo di essere […] E così mi sono fatto, e ho propagato, vari amici e conoscenti che non sono mai esistiti, ma che ancora oggi, a quasi trent’anni di distanza, io ascolto, sento, vedo. Per tale ragione il titolo di questa preziosa raccolta di inediti non poteva essere più appropriato e non poteva che giungere dalla stessa penna di Pessoa. L’ultimo testo contenuto in Una stirpe incognita è una poesia del Maestro Alberto Caeiro. La sua radicata avversità nei confronti della metafisica conclude, per non dire stronca, un frustrante tentativo di figurazione dell’infinito da parte della mente umana: Non credo all’infinito, non credo all’eternità./Credo che lo spazio inizi e finisca da qualche parte e da qualche parte finisca/e che dietro e davanti non ci sia assolutamente nulla. Ed è proprio qui, nel testo conclusivo, che si chiarisce il primitivo innesco della nevrosi di Pessoa: tentare di essere tutto e di conoscere tutto, essere ossessivamente tentato dalla ricerca della conoscenza in tutte le sue declinazioni possibili, giungere alla propria frammentazione, al proprio dissolvimento, pur di afferrare, anche solo per un momento, il mistero del fondo.
Una stirpe incognita, a cura di Antonio Cardiello, disegni di Fernando Pessoa e Massimo Dagnino, Edb, Milano 2016.