di Giovanni Ibello
“Ricostituiscimi (…) a me restituiscimi”, scrive Laura Liberale in un testo, davvero struggente, tratto da “La disponibilità della nostra carne” (Oèdipus, 2017). Quest’opera si snoda intorno a un grande paradosso: è solo parzialmente imperniata sul “vissuto” dell’autrice. Difatti, l’elemento autobiografico ricostruisce più che rievocare. In realtà, sarebbe più opportuno parlare di “un futuro simulato”, di un non voluto. Di un involuto. In quest’opera, il magma-verso è sì incandescente, ma potenziale. La poesia della Liberale invoca qualcosa che non è destinato a trovare compimento. Il corpo dell’innocente si disincarna dall’alea della madre, e richiama il tradimento dell’acqua, l’ultima misura del danno. L’opera costituisce un unicum nel panorama letterario contemporaneo, spesso ingolfato da una poesia eccessivamente diaristica e autoreferenziale. Qui, invece, il dettato poetico dell’autrice è scarnificante, e procede per coppie oppositive, dove la “dialettica della colpa” (schermarsi dietro una sineddoche: la parte per la vergogna del tutto), la viltà dell’ingenerato… invoca una parziale (mai piena) redenzione (pensavi forse non avesse un prezzo?). Eccola, la parabola dell’inizio e della fine, il testamento spirituale che si annuncia sin dal primo verso in esergo: Foste un dilapidato tutto. Siete. La parola poetica è sempre vittima di un processo di sussunzione che riconduce all’amore e alla morte. Non c’è pace, c’è solo la lingua, l’odore della carne portato nell’abbraccio e lo strumento-parola che contestualmente individua una “dipartita della parola”. Il verso si fa reticente perché sfida la sacralità del silenzio. A ben vedere, lo scopo della Liberale è quello di invertire un destino, ascrivendo alla poesia una funzione alchemica: insomma, qui il poeta si fa demiurgo e s’impone sull’accadere. Nel processo di rastremazione dei suoi versi (non ti voltare finché le parole non siano assolute come ossa), l’autrice intraprende un dialogo, una lunga trattativa con l’assoluto: contempla nella medesima misura, il tremendo-oggetto come il tremendo-forma. Questo è il sadismo della parola, il disarmo dell’umano, il fallimento di un’ordalia… Laura Liberale, dunque, restituisce la “verità della carne” e apre una finestra di dialogo con l’oriente. Esorcizza il dramma, decifrando il transeunte con una piena e voluta recessione della mente. Questa è poesia di tutti. Abbiatene cura.
Quando ti attornieranno i vivi
chiedendoti: Mi riconosci?
non sentirai che la membrana
di due bocche a sfiorarti
il pochissimo dei pugni nelle orbite
a strappare lo sguardo che negasti.
Vedranno sé stessi una volta sola
attraverso i tuoi occhi liminari:
Non ci riconosciamo, ti diranno
non crescono specchi nel nostro prato.
I parenti circondano il moribondo e dicono: “Mi riconosci? Mi riconosci?”.
Chāndogya-upaniṣad, VI, 15, 1
*
E dunque lei muore.
Un altro mistero s’ingrotta
di donna consanguinea
di stele che non aprì alfabeti.
Finisce in piaga la carne:
la consunzione come punta
di un iceberg familiare.
*
Ricostituiscimi
ripete chi fu fatto a pezzi
al fuoco volto a mezzogiorno
che diede al sangue un battito marziale.
A me restituiscimi.
E il sangue si abbandona al proprio sperpero
si dissipa, impotente.
Certe donne credono che solidificandosi
il sangue possa generare un figlio.
Quando smembrarono Puruṣa, in quante parti lo divisero?
Ṛgveda, X, 90, 11
*
La madre è il leone nero
che infrange a unghiate
la cupola dell’infanzia.
Sapere è bucare la luce
aprire varchi d’ombra.
Questi pezzi disseminati
sono l’ultima misura del danno.