In occasione della recente uscita del libro MILO DE ANGELIS “TUTTE LE POESIE” (1969-2015), Prefazione e Nota biobibliografica di Stefano Verdino, (Mondadori, 2017) pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, l’introduzione alle poesie giovanili scritta da Milo De Angelis, contenuta nel volume e una sua nota inedita scritta per Luigia Sorrentino.
NOTA INEDITA
DI MILO DE ANGELIS
(Milano, 27 giugno 2017)
Sono stati anni fecondi, quelli che hanno dato vita a “Somiglianze”. Dalla fine del 1968 al 1975 c’è stata come una furia espressiva, un’ispirazione permanente che quasi ogni giorno generava dei versi, mentre nel mondo fuori di noi fervevano utopie e ansie di rivoluzione. Tutto questo ha fatto nascere il mio primo libro, nel 1976, ma anche molti testi che ho deciso all’ultimo momento di escludere e che pure facevano intravedere alcuni temi ossessivi (l’adolescenza, il suicidio, la ragazza spartana, la solitudine testarda, il gesto atletico) che percorrono “Somiglianze”. Li ripropongo ora. I migliori sono forse quelli scritti dopo il 1971, ossia dopo l’incontro con tre poeti importanti della mia formazione: Franco Buffoni, Michelangelo Coviello e Angelo Lumelli, con cui c’è stata una discussione estenuante e feconda su ogni riga di ogni poesia. Ad Angelo poi come ho scritto nella nota introduttiva – devo il ritrovamento miracoloso di queste poesie, da lui custodite per più di quarant’anni con una cura e una fedeltà ammirevoli e commoventi.
Da “SOMIGLIANZE” (1976)
T.S.
I
Ognuno di voi avrà sentito
il morbido sonno, il vortice dolcissimo
che si adagia sul letto
e poi l’albero, la scorza, l’alga
gli occhi non resistono
e i flaconi non sono più minacciosi
nella luce chiaroscura del pomeriggio
mentre mille animali
circondano la lettiga, frenano gli infermieri
il disastro del respiro sempre più assopito
nei vetri zigrinati
dell’autombulanza, appare
il davanzale di un piano, il tempo
che sprigiona i vivi
e li fa correre con la corrente nelle pupille,
l’attimo dell’offerta, per scintillarle.
E improvvisa, la quiete
della vigna e del pozzo, con la pietra levigata
dividendo la carne
una calma sprofondata dentro il grano
mentre la donna sul prato partorisce
sempre più lentamente,
finché il figlio ritorna nella fecondazione
e prima ancora, nel bacio e nel chiarore
di una camera, il grande specchio,
il desiderio che nasce, il gesto.
II
E poi avrete sentito, almeno una volta
quando il liquido, delicatissimo,
esce dalla bocca, scorre giallo nel lavandino
e la sonda e le sirene sempre più lontane.
Il respiro si affanna, finisce, riprende
quanta pace nella spiaggia gelata dal temporale:
una canoa va verso l’isola corallina
e sotto l’oceano si accoppiano le cellule sessuali
non ci sono eventi irreparabili
ma solo le spugne cicliche,
gli insetti che hanno coperto l’aria:
ecco un colore di madreperla, una roccia nella sabbia,
l’accappatoio che toglie con un solo gesto
solennità della luce, la meraviglia, la prima
e la femmina del pellicano
chiama la nidiata sparsa nella tempesta
e forse vede qualcosa, tra gli scogli,
qualcosa che si muove
domani correrà con i suoi bambini
mescolata, per respirare
nel turchese profondo della marea
che sale in superficie, sta rinascendo adesso
e trova una terra diversa, un’altra voce.
INTRODUZIONE DI MILO DE ANGELIS ALLE POESIE GIOVANILI
(In Appendice pag. 377, “TUTTE LE POESIE” 1969-2015, Mondadori, Lo Specchio, 2017
Prima Edizione giugno, 2017)
Giovedì 10 novembre 2016 abbiamo festeggiato alla Casa della Poesia di Milano il quarantesimo compleanno di Somiglianze e l’amico Angelo Lumelli ha voluto farmi un dono, un grande dono. Mi ha consegnato in pubblico una cartella di fogli ingialliti dal tempo: erano le poesie giovanili che credevo smarrite e che per anni avevo inutilmente cercato! Alcune sono precedenti a Somiglianze, altre sono state escluse per intero e altre ancora sono versioni provvisorie di testi che troveranno nel libro la loro forma compiuta. In tutto sono più di cento pagine, che un appassionato di varianti potrà un giorno studiare e rendere pubbliche. Qui mi limito a proporre un gruppo di poesie che alla fine del 1975, consegnando a Giovanni Raboni il dattiloscritto, avevo deciso di non pubblicare, in alcuni casi a malincuore. Le pubblico ora, in ordine più o meno cronologico, anche se la ricostruzione esatta delle date è difficile, dopo decenni. Ma ricordo bene che nell’ottobre del 1970, appena conobbi Angelo Lumelli, sentii che di lui mi potevo fidare interamente e che da lui avrei imparato cose importanti, come in effetti è avvenuto, perché Angelo fu davvero un maestro, capace di ampie visioni filosofiche ma anche di letture millimetriche del singolo verso. Così gli diedi quello che avevo scritto negli anni precedenti (fine 1968 e 1969) e continuai ad affidargli i lavori in corso, discutendo con lui ogni dettaglio e ricevendo consigli preziosi. Angelo ha avuto la pazienza di leggere tutto e la saggezza di conservarlo, mentre io disperdevo i miei versi nei traslochi e nelle furie di cancellazione. Così il 10 novembre del 2016 mi sono trovato tra le mani una grande busta chiusa da uno spago e tutti i fogli che avevo disseminato nel vento delle stagioni ritornarono a esistere.
Ho cercato di rintracciare un possibile ordine temporale, basandomi sulla memoria ma anche su elementi esteriori, come l’uso della carta carbone (sostituita dalle fotocopie dopo il 1970) e della macchina da scrivere manuale, la classica Olivetti lettera 32, che ha poi lasciato il posto alla macchina elettrica. Ho rispettato per filo e per segno il testo originale senza cambiare una virgola – in certi casi con qualche sforzo – ed ecco qui il risultato del mio lavoro, ossia venticinque poesie indubbiamente acerbe ma forse utili per comprendere meglio quello che ho scritto.
POESIE GIOVANILI
(1969-1973)
SCRIVEVA: “ SEI SOLO: E’ UN CERCHIO CHIUSO.
MA UNA VOLTA PUOI APRIRLO,
MAGARI CON LA CHIAVE PIU’ FALSA”
a Piero
Così ritornavano
gli errori penosi perché piccoli
ed era vero: moriva gente
che non è mai stata difesa e talvolta
anche la mitezza è un’ oppressione
(e intanto, tutte queste corse
in mezzo al finito, le decomposizioni. )
Ma era lì, proprio dietro la parrocchia
e un corpo può squassare
mezza metafisica: la sua spallina forse
è già un seno che si apre
e chiamarla Deliriana sii esistente
come nell’ ora del tuo nome e dell’istante
prima dei semafori che ci distraggono
avvenga una gioia, prima di questa coscienza
infelice per distacco, ridammi l’essere vicino
prima, prima…
*
Starò con te.
In questa povertà
devi cogliere
movimenti sicuri di sagome terrestri
nate e vissute in armonia con la terra:
andremo a snidarle
e riceverai.
Lì dove sei
tutto è comprensibile e ricorrente
e la finzione non ha spazio.
Nessuno può attraversarsi da solo
nel suo ordine decifrabile.
Non devi essere vittima di quest’ agonia razionale:
cercherò frasi che ti salvano
dirò che ti amo.
*
Eppure ci proibivamo
l’ aria degli altri: anche tu
che ti dai in favore di esseri
e la tua tentazione è parola
tra le classi.
Dovevamo pagare
ancora, in cantina.
Mettere il cavo alle mani e uccidere
con la corrente nelle pupille:
l’attimo dell’ offerta, se volevi, per scintillarle.
Senza imparare il presagio, affrontandoci,
il gesto meno certo. Niente
andava aggiunto
perché nemmeno un’opera
è già espiata
e le nostre mutilazioni
erano solo un inizio.
Ti sei fatto vedere, lasci
tracce, tu che rinneghi
le mostre massacrate nell’olio
per un dolore pubblico, nell’azione.
E sei lontano, ami tra i denti
una donna
che non cederà la sua salvezza.
Noi siamo la famiglia ferma
nella nascita. Noi ti chiediamo.
*
E’ anche tra le cabine vecchie
la paura, dovunque
quando vedere le boe abbandonate
è ripetersi, al mattino, l’idea della fine:
ma è deserta, vedi, ed è solo
una spiaggia gelata dal temporale, col sesso
che ci daremo perché sei qui
nell’ accappatoio che togli. Ma soprattutto
pietà di adesso, le parole che ci aiutino,
perché c’è paura, se finisce
e non lo dicono. Non è
che un’azione, ma è ora, per tenerci occupati
prima che questa sabbia scura
venga pensata.
*
Ancora un passo e sai che nemmeno
una tua azione sopravvive
come in questo bar umido
cinquanta lire prestate
un gennaio: ma per essere qualcosa
dovrai fare, anche qui vicino al casello
con la nebbia di Alessandria
ancora, nei momenti in cui avere
o non avere tentato si appaiano.
Restano
le cose che vuoi finire, il sogno puerile
e profondo di prepararti la salvezza:
non vuoi scomparire
nemmeno dopo, nell’ordine di una camera
che hai scelto. Sapersi progetto
interminabile
è avere paura del tempo fermo
in cui entrerai. Rimanere vivente
questo solo conta, anche perdendo posizioni
che non saranno riguadagnate.
E se tocchi un corpo
è per la tua voglia tremenda di esserci:
ascoltare l’esistenza
dal tuo ventre, le generazioni a cui rimanda
in tua madre, nel tempo, e oltre: poi accetterai
la tua falsità, una camicia da abbottonare,
il tuo corpo: accetti qualche gesto
i movimenti del volante: diminuisce
la paura di non esserci.
Ormai il mondo è vicino: nessuno, nemmeno con la sua
vita rimasta nella terra
ti può smentire.
*
In questa calma di piena luce
che si allarga
così compatta che cederle quietamente
è forse necessario,
come indugiare senza significato
a fissare il catrame bollente
o intontirsi di giallo
con l’occhio immobile al sole sulle rotaie.
E’ ancora possibile
smorzarsi senza strappi
fino al margine della coscienza.
Legare il cervello alle vene nei polsi
e sfaldare il pensiero:
sfaldarlo prima del pomeriggio
ma con la pazienza orizzontale
delle strade sdraiate senza respiro
nella piana di sole
che scende su questa curva di piazza
e investe i tetti delle macchine
trovare il secondo.
DIPENDEVI DA QUELLO A CUI NON SERVI
Subendo questa fine
senza capire
per i morti ingiustificati, le tue
domande irrilevanti
in questi luoghi di pioppeti
dove non s’incontrano il vuoto o l’ essere
a cui ti volevi fedele. Solo una storia
già decisa:
finirai e nemmeno morire
sarà un gesto personale.
Nemmeno urlare dietro un albero
che non ti salvi. Qui tutto è semplice:
percorrendo questa campagna
si fa inverno: un novecento impietoso
ha definito il suo tempo
non chiesto e ti consuma. O ti coglie preoccupato
di lasciare giustificazione:
ma senza punti d’ appoggio.
Per le gerarchie fortunose di un mattino
al liceo, la decisione
di studiare la morte. Ma sai
che è per caso, ora,
con il sasso che tiri: ti scopri nell’ azione
e non è possibile
legarla col resto, con la vita devastata
a cui rifiutavi un senso: e lo rifiuti
ma per farlo tu affermi
e non ti dà tregua
in mezzo a piccole foglie, materia
che dopo la negazione
è la stessa.
Tra le file dei tronchi
sei dipendenza
da ogni forma, che vedi durare
vicina. Solo resti a rodere l’ avvenimento,
il rancore che una negazione completa
lasci immutato
tutto.
Tu hai capito
che la tua vita è inutile.
*
Dimenticateci se viviamo
senza forza
dietro al cavalcavia. Questo rumore
di ruote era di una notte negli anni
e la fedeltà ci congiunge: immobili, annullando
il nostro peso
nel mondo
negato. Ogni rapporto
era accertarsi in qualcuno, e lo rifiutammo, qui
dove la ruggine segna le stagioni
verso la morte e resta quest’odio
al fratello fuggito nell’azione
per distribuire salvezza: noi, che non possiamo
nemmeno riceverla.
Ogni azione è goliardia
e queste parole lo sono: di vero
c’è solo la paralisi spenta, al buio,
quando i fari ci schiacciano
e negli sguardi il dubbio
di una scelta indimostrabile.
Ma voi non saprete.
Era vietare a ogni gesto
significato: superflui, tra queste lamine
contare nel corpo
i desideri ricacciati. Bisognava
decidere
tra ciò che è dato e la sua fine.
Dolori senza uso circondano i cespugli
e più in là, nelle case, sprecate
avventure terrestri finiscono
irripetibili: erano apparse. E anche
una fedeltà, qui, implacabile
è nulla.
*
C’è solo questo buio
di collina corrosa dalla lucidità
e non sarà più estate, in cerchio,
ad applaudire la gara vicino al pozzo:
questa calma
imposta ai luoghi, all’ abbandono
che non scatta: è il tempo che viene accertato,
la distanza, dal corpo
teso verso gli anni
a capire come è giusto
mescolarli alla rabbia, sporcare quest’erba
marginale perché bella
dove nemmeno uccidersi
sarebbe dentro il suo ritmo, mentre l’ esistenza
è già stata fatta
altrove: e ancora qui la fatica
di schierarsi contro la sua corsa
di ragazza, dove aveva senso
amare i sassi e la polvere, e la cortesia strana
di non dire il dolore: ma oggi è il rispetto
aperto a chi non resta
in compagnia, nel sole,
un fuggitivo a capofitto: “capire
è anche quest’insolenza
contro il cuore, è la giustizia dei fatti,
lasciarli prevalere, contro sé”.