di Andrea Galgano
La poesia di Sylvia Plath (1932-1963) è abitata da un grido[1] di stanze sfumate che inseguono la traccia intrisa e bruciante di una gemma interiore in cui consistere, nata nella sopravvivente cicatrice di segno doloroso che si sacrifica nella sua anarchia depositata che sconvolge le linee e si appropria del mistero della realtà e acuisce la dinamica sospesa dell’esistere:
Non vedo semplicemente alberi quando pedalo per il campus. Vedo la forma e il colore all’esterno, e poi le cellule e i meccanismi microscopici sempre in funzione all’interno. Senza dubbio questo suona un po’ caotico, ma è quell’euforia particolare che ti viene quando ti accorgi sempre di più delle infinite possibilità e suggerimenti che ti offre il mondo intorno.[2]
Tali linee oscillano in un bisogno estremo, si muovono nella propria peculiarità caotica, sospingono la scrittura in una dimensione di rivelazione e pelle di specchio che coglie percezioni e vibra in ogni angolo: «A volte mi prende un senso di attesa come se sotto la superficie della mia capacità di comprensione ci fosse qualcosa in attesa che io lo afferri. È la stessa sensazione tormentosa di quando si ha il nome sulla punta della lingua e non si riesce a ricordarlo»[3].
Nata in un distretto di Boston da genitori immigrati tedeschi, perse il padre, un professore di biologia e entomologo, per embolia a soli otto anni e già nel 1953, prima di laurearsi brillantemente con una tesi su Dostoevskij e dopo una eccezionale carriera scolastica, era stata sottoposta a un ciclo di elettroshock dopo aver tentato il suicidio in un’orbita senz’ombra che offre tutta la sua imponente redenzione di un amore personale e privato che offre se stesso in tutta la sostanza del mondo: «Per le radici dei capelli mi afferrò un qualche dio. / Sfrigolai nei suoi volt azzurrini come un profeta nel deserto. / Le notti sparirono di scatto come palpebra di lucertola: / un mondo di giorni bianchi e nudi in un’orbita senz’ombra».
In seguito descrisse questa crisi nel romanzo La campana di vetro (1953) sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas, la cui protagonista, Ester Greenwood, straordinaria studentessa, non ancora ventenne, dello Smith College fa praticantato, a New York[1], presso una rivista di moda femminile. Nel corso della narrazione si scopre che Esther ha una madre vedova e una storia d’amore agli sgoccioli con Buddy, diplomato a Yale e futuro medico.
Lo scontro tra l’afa newyorkese, nonostante la scintillante promessa di vita e la convenzione sociale, rivela il dramma di una mancata integrazione sociale e di un margine di esistenza.
Scrive Elisabetta Rasy:
E Sylvia, come se la cavava Sylvia in quella euforica estate? Malgrado la passione per lo shopping e per i rossetti scarlatti non troppo bene, si direbbe proprio a leggere il libro di Winder, e non solo perché poco tempo dopo il ritorno a casa da New York, il 24 agosto di quello stesso 1953, tentò il suicidio. In quel giugno lei, che fin da piccola non aveva mai tralasciato di tenere un accurato diario, scrisse solo una nota, e la dedicò non alla vivace vita sociale della città ma alla esecuzione dei coniugi Rosenberg considerati spie comuniste: «Nessun grido, nessun orrore, nessuna grande rivolta. […] Il massimo di reazione emotiva degli Stati Uniti sarà un ampio sbadiglio democratico, superannoiato, noncurante e soddisfatto». Le sue colleghe di «Mademoiselle» hanno confessato a Winder che all’epoca non sapevano neppure chi fossero i Rosenberg. A sua madre Plath aveva scritto: «La vita si svolge così intensamente e in fretta che qualche volta mi domando chi sono io». Ma lo sapeva benissimo: lei era una poetessa, e benché fosse giovane e seducente e amasse le gonne aderenti e i tacchi a spillo, i parties e tutto il glamour di New York non potevano allontanarla dalla sua strada, con tutto il suo fulgore e il suo dolore.[1]
Dopo la laurea, Sylvia ottenne una borsa di studio Fulbright per l’Università di Cambridge, continuando a scrivere poesia e a pubblicare presso giornali e riviste. La sua solleticante attesa diviene l’esito di uno sguardo di vetro che descrive e conosce, sosta nei cunicoli colorati e sofferenti dove avverte il tremore delle nascite e l’infantile aspettativa stuporosa.
A Cambridge conobbe il poeta Ted Hughes, che sposò nel 1956 e così lo descrive alla madre: «squadrato, massiccio, robusto, Adamo, metà francese, metà irlandese, dalla voce tonante come un dio – un cantante, un narratore e un giramondo, un vagabondo che non si fermerà mai»[1]:
C’è una pantera che m’incalza:/ un giorno me ne verrà morte; / la sua voracità ha incendiato le foreste, / s’aggira più superba del sole. / Malioso e tacito scivola quel passo, / sempre avanzando alle mie spalle; / dallo sparuto abete gracchiano strage i corvi: / la caccia è aperta, la trappola è scattata. / Scorticata dai rovi mi trascino sulle rocce, / spossata nella calura del meriggio. / Lungo la rossa rete delle sue vene / qual fuoco corre, quale brama è desta? (Inseguimento).
È una vita rinnovata, sebbene sconquassata nelle fondamenta e protesa a una sorta di
sacrificio aurorale, di vasta ferita fustigata che non si rimargina. Vita che offre pienezza, in tutta la sua risorta profanazione di sponda, scoperta e creazione, che sporge il suo dolore scavato e sferzato, provato dalle vicissitudini come lande tremende e fedeli. Rimane guardinga aspettando che qualsivoglia angelo possa scegliere di avvampare mentre un corvo «può brillare a tal punto / da afferrare i miei sensi, issare a forza / le palpebre, e accordare / una breve tregua alla paura / della neutralità assoluta»:
Non mi aspetto un miracolo / o un evento / che dia fuoco alla vista / nel mio occhio, e nemmeno più cerco / nella stagione mutevole un disegno, / Ma lascio che le foglie maculate cadano come capita, / senza cerimonia o presagio. / benché, lo ammetto, io desideri / ogni tanto qualche risposta / dal cielo muto, in verità non posso lamentarmi: / una luce modesta può sempre / balzare incandescente / dal tavolo della cucina o da una sedia / come se un ardore celestiale / si impadronisse a tratti degli oggetti più ottusi – / consacrando così un intervello / altrimenti irrilevante / con l’elargizione di doni, di onore, / di amore, si potrebbe forse dire (Corvo nero in tempo piovoso).
Sylvia vuole impastare la sua esistenza con una lucente fertilità, con un atto di fede che vive la profondità dei riflessi e delle sensazioni che il reale, avverte il pericolo dell’immaginazione bruciata e spenta, teme di non essere più plasmata e senza sogni, la sua argilla perdura in un atto di illuminazione sorgiva e «in un atto gratuito e indeducibile che viene non da idee astratte o da rivelazioni globali e totali […] ma dai lampi occasionali delle cose, cioè dalle cose stesse»[1].
La spasmodica ricerca di un amore protettivo e senza limiti, di un’accettazione e di un abbraccio sempiterni, quando si interrompono e terminano il dialogo, lasciano serpeggiare la consueta e intima necessità di morte.
La scrittura rieduca e riforma il mondo, perlustrando le feritoie dell’esistenza, scoprendo i clangori lontani che accudiscono «senza sosta, il nudo / instancabile dato reale» (Turno di notte), l’esplorazione protetta delle cose e le radici annunciate di una gemma «spesso mostrata, / mai data: celata, eppure / vista contemporaneamente / in cima alla brughiera, in fondo al mare, / conoscibile solo per la luce / che non è di meriggio, di luna o stelle» (Il gran carbonchio), che risponde al trasparente intervallo di se stessi: «Ricomincia l’attesa, / la lunga attesa dell’angelo, / di quella rara, aleatoria discesa».
Andando a vivere successivamente negli Stati Uniti, dove insegna allo Smith College e poi conosce Robert Lowell, Sylvia Plath sperimenta il doppio movimento di una umbratile sospensione alternata, dove esperisce le correnti d’aria di Dio, l’energia disperata e gioiosa di una tensione che cresce sotterranea, il respiro delle nascite (Frieda Rebecca, nata dopo il ritorno in Gran Bretagna) e la vitale difficoltà dell’esserci che si mette in ascolto di un mare lontano, di una regola unita di fiato e petto fiorito:
Queste poesie non vivono: è una triste diagnosi, / mani e piedi sono cresciuti abbastanza, / e le loro piccole fronti si sono incurvate nella concentrazione. / Se si son perse la possibilità di camminare / non è stato per mancanza di amor materno. / Oh, proprio non capisco cosa gli sia successo! / Hanno quel che ci vuole: forma, numeri, tutto. / Stanno così bene nella loro salamoia! / Mi sorridono, e sorridono, sorridono, sorridono. / Ma i loro polmoni / non vogliono saperne di riempirsi e il cuore non parte» (Nate morte).
Dopo la nascita del secondo figlio, Nicholas Farrar, la vita di Sylvia raggiunge una sottile ma serena tranquillità. Ma quando viene a sapere che Ted si era innamorato di un’amica comune, Assia Wevill, decide di separarsi e ritorna a Londra con i suoi due figli, affittando lì un appartamento.
Sylvia canta lo strazio di un abbandono che somma ferite e apre cicatrici mai risposte, toccando la verità dell’esistere, il limite e il conflitto: «Il significato cola dalle molecole / I camini della città respirano, la finestra suda, / i bambini saltano nei loro lettini. / Il sole fiorisce, è un geranio. / Il cuore non si è arrestato». Il significato deve colare dalle molecole, solo così anche il sole può fiorire. Analizzando questa complessa frattura che sgretola il “colosso”, Marina Di Pasquale così scrive:
La produzione poetica che la Plath scrisse dopo l’abbandono del marito Ted Hughes, e che disgraziatamente coincide con la sua notorietà, nasce infatti da un bisogno di sublimazione della perdita trasformandola in atto creativo. La poesia è a tutti gli effetti una revérie, un modo per trasmutare le emozioni dolorose in occasione letteraria, una straordinaria possibilità creativa per cercare di tenere a bada la voce primitiva di Thanatos che la conquistò per tre volte. La metafora poetica, figura retorica assai presente nella produzione lirica di Sylvia Plath, può essere per altro paragonata ad una sorta di simbolo primitivo utilizzato per dare senso a un’esperienza non mentalizzata. […] Particolare è inoltre la sensorialità che scivola, verso dopo verso, all’interno della sua metrica poetica, come se questa fosse un tentativo di far dire ai sensi quello che le parole non riescono a comunicare: il bisogno di recuperare sensazioni perdute che hanno lasciato segni confusi nel registro della memoria epidermica. La scelta della metafora sembra inoltre il risultato di un lavoro artigianale scelto con cura e dedizione: il prodotto di una tensione psichica evacuata di getto in un torrente lirico mostruoso.[2]
Il vortice fisso del suo grido, il suo bruciante percorso interiore, la frattura con la realtà, affermata, negata e colta appieno, con la sua sanguinante frattura e lacerata suggestione, avverte il dramma e lo spaesamento di un’autonomia, senza cercare riferimenti, seppur presenti e accesi, alla sua vita privata, inseguendo il volo della feconda resurrezione dopo il sacrificio sull’altare, nonostante la vastità vuota del cielo:
Amare, essere amata. Da una persona; dal genere umano. Ho paura dell’amore, del sacrificio sull’altare. Voglio pensare, crescere, spiccare il volo senza paura: per favore, per favore. Oggi, tornando a casa in bicicletta verso mezzanotte, parlando con me stessa, il senso della trappola, del tempo, ha fatto rotolare dal sepolcro la pietra dell’inerzia. […] ora, simile a un embrione, si è formato in me un amore, una fede, una conferma. Forse perché la gestazione si compia ci vorrà del tempo, ma la fecondazione è riuscita.[3]
Il puro taglio che intaglia il sangue della poesia è l’evento che incide le crepe del buio disciolto, svelato in un orlo di ombre sconosciute e storpie: «L’amore non può arrivare qui. / Si svela un crepaccio nero. / Sull’orlo opposto / una piccola anima bianca ondeggia, piccola bianca larva. / Braccia e gambe mi hanno abbandonato anch’esse. / Chi ci ha smembrati? / Il buio si sta sciogliendo. Ci tocchiamo come storpi» (Avvenimento).
La sferzata febbrile nasconde margini di cicatrice. Una poesia data, rapida, fulminea. Essa colora lo sfondo di un’immagine metamorfica ed estrema, con la potenza associativa di elementi vicini, stridenti, persino estremi:
Ho paura. Non ho consistenza, sono vuota. […] La mia vita fino ad ora sembra pasticciata, inconcludente, disordinata. […] Tempo, esperienza: un’ondata gigantesca che s’abbatte su di me con la forza di una marea e che mi affoga, mi affoga. Come riuscirò mai a trovare la stabilità, il legame tra passato e futuro, il contatto con gli altri esseri umani che tanto desidero? Potrò mai accettare in tutta onestà una soluzione imposta a artificialmente? Come faccio a dare un senso, come faccio a razionalizzare quello che resta della mia vita?.[4]
L’impulso poetico di Sylvia Plath è una rabbiosa consapevolezza di tenebra, una confidenza di euforia che soffre e che tenta, senza esitazione, di mettersi in ascolto del mondo, percependolo fisicamente e coniugando la versatile potenza espressiva con la realizzazione, estrema, beffarda e sognante di sé. Il sé che può divenire clausura, come cifra personale e tremore nascosto, espresso in un trasloco aggressivo, come annota Joyce Carol Oates:
A Sylvia Plath non piacevano gli altri; come molti perseguitati, si identificava in modo perverso con i suoi persecutori, anziché con loro che, al pari di lei, erano vittime. Ma non le piacevano gli altri perché fondamentalmente non credeva che esistessero; era razionalmente consapevole della loro esistenza, è ovvio, in quanto avevano il potere di farle del male, ma non credeva che esistessero nella stessa forma in cui esisteva lei, ovvero come individui in carne e ossa, capaci di soffrire.[5]
Nelle sue apprensioni dissolte nelle bianche mura che la attorniano e la seguono, il cuore si serra a pugno davanti al muro artigliato e insanguinato, i polmoni diventano due sacchetti grigi di carta, sembrano comporla in una distesa di croci e in una pioggia di pietà. L’abbandono, cadenzato in un sacrificio inesauribile e risorgente (Lady Lazarus), diventa la regola del sangue fiorito che si frantuma solo dinanzi al figlio, giunto come una redenzione invincibile: «Questo muro rosso sussulta in continuazione: / un pugno rosso, che si apre e si chiude, / due grigi sacchetti di carta – / è di questo che son fatta, di questo e del terrore / di essere portata via distesa sotto croci e una pioggia di pietà» (Apprensioni):
Le sue ansie di solitudine, provocate da episodi arcaici di abbandono (maternage carente e perdita del padre in tenera età), si riattivavano ogni qual volta la lontananza dall’oggetto d’amore risvegliava i suoi fantasmi infantili fortificando i lutti primari; e quando l’immaginario prendeva il sopravvento, facendole perdere il suo contatto con la realtà, le angosce reali iniziavano a confondersi con quelle fantasmatiche. Un altro aspetto interessante della scrittura di questa autrice si può notare da un attenta analisi delle lettere che la Plath scrisse per più di vent’anni alla madre Aurelia Shoeber. Se nelle pagine del diario la parola scritta assume una tonalità prevalentemente di tipo speculare, che invece nella poesia si trasforma nel bisogno di un contenitore psichico per dare stabilità al Sè, la tipologia di scrittura utilizzata nelle lettere alla madre sembra generata dalla necessità di un oggetto transizionale che madre e figlia si scambiano all’interno delle lettere. La parola utilizzata nell’epistolario sembra rimandare a quei fenomeni transizionali che sopraggiungono in un area del gioco dove la relazione tra la madre e il suo bambino viene mediata da sostituti morbidi e calorosi che rappresentano dei surrogati materni in un periodo particolare della crescita del bambino. In questo spazio psichico, animato dall’illusione di una indipendenza, che in realtà ha più il sapore di una forte dipendenza dall’oggetto supporto materno, il bambino inizia a interiorizzare un oggetto costante, capace di addolcire i momenti dolorosi della sua vita.[6]
L’intonazione, come sibilo di stanze, «litania di sogni, di indicazioni e imperativi», presente in The Colossus, accenna il fervido immaginale di un antico suono lucido di ordine, come annota nei suoi Diari:
La scrittura è un rito religioso: è un ordine, una riforma, una rieducazione al riamore per gli altri e per il mondo come sono e come potrebbero essere. Una creazione che non svanisce come una giornata alla macchina da scrivere o in cattedra. La scrittura resta: va sola per il mondo. Tutti la leggono, vi reagiscono come si reagisce a una persona, a una filosofia, a una religione, a un fiore: può piacergli o meno. Può aiutarli o meno. La scrittura prova delle emozioni per dare intensità alla vita: offri di più, indaghi, chiedi, guardi, impari e modelli: ottieni di più: mostri, risposte, colore, forma e sapere. All’inizio è un atto gratuito. Se ti fa guadagnare tanto meglio. […] La cosa peggiore, peggiore di tutte, sarebbe vivere senza scrittura. E allora, come vivere con i mali minori e sminuirli ancora?.[7]
Esiste sempre un orlo di chiusure al suo passaggio, a quel diluvio ondivago di parole che toccano, febbrilmente, il piano poetico, abitato da un grido e da un bisogno forte di amore, di salvezza che raccolga il pulsare ondoso e ventoso della risacca: «Oh Dio, io non sono come te / nel tuo nero vacuo, / pieno zeppo di stelle, sciocchi coriandoli di luce» (Anni).
L’accesso ai suoi luoghi rappresentano il battito e il respiro di un movimento libero e intenso, di una voce di ombra che interviene, raccoglie i vetri, racchiude la più profonda sofferenza, per tramutarla nell’ascolto di un esilio estraneo: «è il mare che senti in me, / le sue insoddisfazioni? / o la voce del nulla, che era la tua pazzia? / L’amore è un’ombra. / Come lo insegui con menzogne e pianti. / Ascolta: ecco i suoi zoccoli: se n’è andato, come un cavallo».
L’intreccio fantastico si accompagna alla coscienza che si esprime, alla voce che si trasforma, all’intensificarsi di una vertigine di tramonti: «Ho patito l’atrocità dei tramonti. / Bruciati fino alla radice / i miei filamenti rossi ardono ritti, una mano di fili di ferro».
I suoi passaggi non temono cambiamenti di rotta dalla viscosità fangosa e torbida, il suo cielo si apre a un disperato tentativo di muoversi dal limbo escluso e staccato, al tempo dell’attesa, all’esplorazione di una identità vitale che distolga l’io dalla confusione scivolosa della distruzione e della morte, e nel colmo della disperazione, pedini un istante risorto che la raccolga e, forse, possa innalzarla nel mulinio di uncini: «Quando si è visto Dio, qual è il rimedio? / Quando si è stati afferrati e sollevati / senza che una sola parte sia tralasciata, / non un dito, / non un capello, e usati, / usati fino in fondo, nelle conflagrazioni del sole, nelle macchie / che si allungano da antiche cattedrali / Qual è il rimedio?» (Mistica).
O si leggano i primi versi di Olmo che delineano un destino di sogno e di visione: «Conosco il fondo, dice. Lo conosco con la mia grossa radice: / è quello di cui tu hai paura./ Io non ne ho paura: ci sono stata».
L’enigma e il naufragio colpiscono come un ricordo, «suono e senso si alzano come una marea dalla lingua per trascinare l’espressione individuale su una corrente più forte e profonda di quanto l’individuo potesse prevedere[8]», il limite di un’assolutezza che si spinge fino all’estremo per tentare l’abbandono del ritrovo, per percorrere il cuore di Dio, visto solo idealmente, per ritrovare l’impolverata figura paterna e compiere il
corpo, renderlo reliquia, traboccare in un fondale di rivelazioni: «C’è qualcosa che mi sta aspettando. Forse un giorno avrò una rivelazione improvvisa e potrò vedere l’altra faccia di questo enorme, grottesco scherzo. E allora riderò. E saprò cos’è la vita»[9].
Analizzando la lirica dislocata e oggettuale che unisce, per alcuni versanti, Sylvia Plath e Anne Sexton, Loredana Buccoliero, soffermandosi sulla trama estatica e vertiginosa dell’autrice afferma:
La domanda è se dopo l’estasi si possa solo ricorrere a deboli rituali, incapaci di ricrearla, o alla memoria incapace di rievocarla: in ogni caso l’immediatezza dell’esperienza e la sua verità svaniscono e l’unione statica con Dio scema nella tenerezza. Negli ultimi mesi della sua vita Sylvia è completamente sola, abbandonata, costretta alla vita domestica, «gli dei», bestemmia, «conoscono soltanto destinazioni». […] Ted Hughes racconta che diverse volte nelle ultime due o tre settimane di vita dice cose come: «Ho visto Dio che continua a raccogliermi da terra» e «Sono piena di Dio»[10].
Il fondo di Sylvia Plath è un intaglio di ombre, come l’eco nero finale e profondo di un passaggio da combattere, ed è respiro di una preveggenza libera: «Ho un buon io, che ama i cieli, le colline, le idee, i piatti saporiti, i colori brillanti. Il mio demone vorrebbe ucciderlo», perché «E io / sono la freccia, / la rugiada che vola / suicida, fatta una con lo slancio / dentro l’occhio/ scarlatto, il crogiolo del mattino».
Robert Lowell, nella prefazione ad Ariel, una breve linea di sistole e tulipani come simbolo misterioso e fascinoso dell’esistenza, scrive:
è straziante, riandando al passato, capire che il segreto dell’ultima irresistibile fiammata di Sylvia Plath è nascosto nella discrezione, nel garbo estremo della sua penosa timidezza. Non è mai stata una mia allieva, ma per due mesi circa, sette anni fa, seguì il mio corso di poesia alla Boston University. La rivedo, opaca contro il cielo luminoso di una finestra priva di qualsiasi panorama […] In queste poesie, scritte negli ultimi mesi della sua vita e spesso tumultuosamente composte in ragione di due o tre al giorno, Sylvia Plath diviene se stessa, diviene un’entità immaginaria, appena creata, non un individuo, nè una donna, nè certo un’altra ‘poetessa’, ma una di quelle grandi eroine classiche, più che reali, ipnotiche. […] Tutto in queste poesie è personale, una confessione profondamente sentita, ma in lei il modo di sentire è una controllata allucinazione, l’autobiografia di una febbre. Brucia dall’ansia di muoversi, per una passeggiata, una cavalcata, un viaggio, il volo dell’ape regina, costretta ad avanzare dal battito ansante del suo cuore. Il titolo Ariel evoca il personaggio shakespeariano, lo spiritello adorabile ma curiosamente agghiacciante nella sua ambiguità virile, ma per la verità Ariel è qui il cavallo dell’autrice. Pericolosa, più potente dell’uomo, efficiente come una macchina grazie ad un duro allenamento, lei stessa ricorda un cavallo da corsa, che galoppa senza sosta tendendo spasmodicamente il collo, superando uno dopo l’altro ostacoli di morte. [….] Ma quanto vi è in lei di più eroico non è la sua forza, piuttosto la disperata semplicità del suo controllo, la sua mano d’acciaio dal tocco modesto, femminile.[11]
Nel tentativo beffardo e consolatorio, il tocco del dono e della mediazione con la realtà risulta mancante. Intravvede solo squarci di divino nella quotidianità come un attracco forte e sicuro, che però la uccide e la soffoca.
La radice di questa assenza si rintraccia nell’infanzia, Sylvia sente il richiamo fragile della vita, ma non ha l’equilibrio per poterla affrontare adeguatamente.
L’intensità del rapporto con la figura paterna, morta quando lei aveva otto anni, ha significato il bisogno inesausto di avere un “porto” di riferimento grande, forte e capace di salvarla.
I sentimenti che oscillano da una frustrazione, alla sottomissione filiale fino a una nostalgica contemplazione, lasciano lo spazio al disincanto rassegnato:
Di notte mi accoccolo nella cornucopia / del tuo orecchio sinistro, al riparo dal vento, / e conto le stelle rosse e quelle color prugna. / Il sole sorge da sotto la colonna della tua lingua. / Le mie ore sono sposate all’ombra./ Non tendo più l’orecchio per sentire il raschio di una chiglia/ sulle pietre nude dell’approdo.
Se suo marito Ted Hughes ha sostituito la figura paterna come presenza maschile, il terrore dei suoi tradimenti rappresenta l’eco di un fratturato rapporto familiare.
La libertà e la perentorietà di questi versi permettono, come ha giustamente notato Judith Kroll[12], una totale identificazione dell’io autobiografico. Ma la rarefazione non concede l’ordine e la classificazione di maniera, restituendo allo sguardo una dilatazione e un passo, che partendo dallo spazio interiore, dilata la sua luce, il suo solco e lo sfogo crudo e febbrile, come lei stessa scrive in questa lettera: «Ogni mattina, quando il sonnifero smette di fare effetto, sono in piedi verso le 5, nello studio col caffè, e scrivo come una pazza: sono arrivata a una poesia al giorno prima di colazione. Tutte poesie da libro. Roba incredibile, come se la vita della casalinga mi avesse soffocata»[13].
L’11 febbraio del ‘63 Sylvia Plath si tolse la vita, mettendo la testa nel forno a gas di casa, dopo aver scritto la sua ultima poesia Orlo e morendo all’età di trent’anni. La tragedia e il dramma della sua esistenza, sulla quale è appena uscita un’interessante monografia, presso Castelvecchi, di Linda Wagner-Martin dal titolo Sylvia Plath[14], ha portato spesso l’attenzione della critica alla lettura della sua opera, in chiave sostanzialmente autobiografica, divenendo persino una figura di culto.
È necessario, però, leggere la sua opera, non solo come zampillio fluttuante di estasi, entusiasmo e lacerazione di vita, ma prestando attenzione alla parola scritta, alla sua imponente forza espressiva che si intesse sì di vissuto e esperienza tragica, ma che porta con sé la corrosione di una sproporzione, di una domanda, di un parto espressivo[15], come descrive bene Giovanni Giudici:
L’altro equivoco è quello indotto dalla coincidenza fra taluni aspetti della biografia plathiana (il caparbio impegno contro le difficoltà di un’affermazione prima universitaria e poi letteraria, la lucida coscienza di una distorta interpretazione della femminilità nel quadro del costume vigente e le quotidiane frustrazioni della donna che deve conciliare lo scriver versi con le sue incombenze domestiche e di madre) e i corrispondenti temi dei vari movimenti di liberazione femminile; equivoco che forse avrà fatto andare a ruba il disco delle poesie dette dalla voce dell’autrice, ma che nello stesso tempo ha rischiato e forse rischia tutt’ora di umiliarne la statura al livello della più scontata confessional poetry…[16]
E con lucidità Maurizio Cucchi:
E i testi di Sylvia Plath ci coinvolgono anche se, paradossalmente, ci estraniamo dalla vicenda umana da cui sono sgorgati. E per almeno due ragioni. La prima è nella grande disciplina stilistica, nel rigore della scrittura che in lei si evidenzia fin dalle prove giovanili, e che ne sorregge sempre la tenuta. La seconda è nella potente visionarietà, nella concretezza densissima della sua parola e delle immagini che sa produrre, come un vero e proprio inarrestabile gettito di figure e situazioni.[17]
Seamus Heaney scrive che Sylvia Plath è
un poeta che crebbe fino al punto di permettersi l’identificazione con l’oracolo e si concesse come veicolo di possessione; un poeta che cercò e trovò uno stile di discorso immediato, animato dai toni di una voce che parla con concitazione e spontaneità; un poeta governato dalla immaginazione auditiva al punto che il suo congedo dalla vita consistette nell’annullare il sé in parole ed echi.[18]
Dal suo trauma e dalla sua notte fiorisce ed emerge il vincolo furente della sua poesia, «una specie di miracolo ambulante». Il desiderio di rinascita afferma o meglio sembra affermare, nel suo messaggio estremo un groviglio di resurrezione e una membrana di aiuto. Quando si toglie la vita sigilla porte e si lascia morire nel forno a gas, dopo aver preparato pane e burro e due tazze di latte da lasciare sul comodino nella camera dei bambini, affermando l’infinitesimo baluginio di una continuazione e di un respiro verso un approdo che abbia il volto di pace e di guida di mani.
NOTE
[1] Spadaro A., «“La lunga attesa dell’angelo”. La poesia di Sylvia Plath», «La Civiltà Cattolica», 2005, I, p. 34.
[2] Di Pasquale M., Sylvia Plath: la scrittura-difesa di una bambina che voleva essere Dio, psychomedia.it.
[3] Plath S., Diari, cit., p. 92.
[4] Plath S., Diari, cit., p. 85 e segg.
[5] Joyce Carol Oates inedita. I diari di Sylvia Plath, traduzione di Nicola Manuppelli, satisfiction.me, 4 marzo 2013.
[6] Di Pasquale M., cit.
[7] Plath S., Diari, cit.
[8] Heaney S., cit.
[9] Plath S., Diari, cit.
[10] Buccoliero L., Sylvia Plath e Ann Sexton, ciaomondoyeswecan.myblog.it, 31 luglio 2012.
[11] Cfr. Plath S., Ariel, preface by Robert Lowell, Faber and Faber, London 1965.
[12] Cfr. Kroll J., Chapters in a Mythology, the Poetry of Sylvia Plath, Harper & Row, New York 1976.
[13] Plath S., Diari, cit.
[14] Cfr.Wagner-Martin L., Sylvia Plath, Castelvecchi, Roma 2013.
[15] Cfr. Caracci S., Sylvia. Il racconto della vita di Sylvia Plath, E/O, Roma 2003; Moses K., L’inverno di Sylvia, Rizzoli, Milano 2003; Wagner E., Sylvia e Ted: Sylvia Plath, Ted Hughes e le Lettere di compleanno, La Tartaruga, Milano 2004.
[16] Cfr. Giudici G., prefazione a Plath S., Lady Lazarus e altre poesie, Mondadori, Milano 1998.
[17] Cucchi M., Sylvia Plath, la visionarietà in poesia, in “Avvenire”, 15 marzo 2013.
[18] Heaney S., Battito di zoccoli incessante: Sylvia Plath, in Plath S., Tutte le poesie, a cura di Anna Ravano, Mondadori, Milano 2013, pp. Viii-ix.
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Il Saggio su Sylvia Plath è tratto da “FRONTIERA DI PAGINE” Andrea Galgano e Irene Battaglini, Saggi Critici di psicologia dell’arte, poesia e letteratura, volume II, Prefazione di Andrea Monda, Aracne Editrice.