Paolo Maccari, “Fermate”

di Tommaso Di Dio

Un amico caro, che conosce bene la poesia e sa le sue contemporanee e plurime direzioni, qualche mese fa mi consigliò questo libro: Paolo Maccari, “Fermate”, Elliot Edizioni. Dissi: «Non conosco l’autore, non l’ho mai letto». Mea culpa, come sempre in poesia. Eppure proprio così – ragiono e provo a discolparmi – oggi e forse da tempo, proprio così si propagano i migliori libri di poesia: per contatto, per contagio. Coloro che sono stati appestati dalla bellezza di un libro non possono che fare altro che propagare il morbo, di lettore in lettore. Chi ha incontrato un libro così non può fare a meno di dirlo, di darlo, di spartirlo. E io, giunto in una radura del tempo, in uno di quei spazi minimi e porosi che i lettori di poesia conoscono essere necessari per poter farsi intridere da un libro scritto in versi, infine apro e leggo le pagine di “Fermate” di Paolo Maccari; e spero davvero che questa peste si sparga.

Ecco, un libro di poesia, dicevamo. Per chi volesse sapere cosa sia un libro di poesia, oggi, all’altezza del 2017, questo di Paolo Maccari è un perfetto specimen. Poesia e verità, un tempo si disse. Potente, pulito, tagliente: nulla qui è lasciato alla patetica indulgenza di sé e degli altri. Con una lingua sinuosa e manierata, ma che al contempo sa trovare all’improvviso una precisione spietata, con una lingua sapientemente narrativa e cinematografica eppure con picchi di vertigine, Fermate è un libro che traccia l’affresco amaro di una vita provinciale, periferica, che «sa rendere sorprendentemente plastica una condizione esistenziale paludosa e informe», come suggestivamente scrive Matteo Marchesini in una sua recensione uscita su «Il Foglio». Lo sguardo è di chi appartiene all’«età di mezzo», di chi ha chiuso i conti con la giovinezza – e dunque sa raccontarla, magistralmente – e ancora non si è affacciato all’età della saggezza; di chi è come preso in trappola da una iper-lucidità, dalla condizione di chi sa perfettamente, vede perfettamente, eppure non aderisce alla vita, se non in una stretta mortale. È una scrittura che finalmente dubita della felicità («Mi dice che è felice, più o meno\ e io non gli credo», p. 88); che è sguardo fisso sulla cenere della propria brace, che si chiede e che, in una delle tante vertigini di questo libro, chiede che ci si chieda: «chi tra noi due per primo\ avrà il pensiero forte di morire» (p. 54). La poesia di Maccari indugia nella ferita, indugia nell’animo di chi ormai ha perduto ogni illusione dell’inizio e non sa che andare in fondo, non sa che portare all’estremo esaurimento ogni cosa che incontra. Una delle molte e stupende prose di questo libro si chiude con queste parole: «La prima boccata è amara. Lo sguardo si poserà sul pacchetto incerto se ripartire da una sigaretta nuova. Non si può, prima bisogna consumare fino in fondo la superstite o stritolarla nel posacenere. Poi, sì, alzarsi di scatto, uscire dalla stanza, provocare un’altra brace» (p. 62).
In queste pagine siamo messi nella possibilità di entrare nei mondi umani con un realismo e una ricchezza di dettagli che molto raramente troviamo nella poesia contemporanea. In questo, la scrittura di Paolo Maccari mi sembra dia un altissimo contributo. È un libro dove la descrizione è sempre azione ed è sempre azione verace, anche quando si ritraggono i più immobili elementi, i più mediocri: come «i quattro o cinque piani\ dei palazzi che fiancheggiano la strada» che «sembrano attenti\ all’imbuto azzurro che li sovrasta» (p. 68). Nelle pagine di Fermate siamo seduti ai tavoli, siamo negli occhi degli avventori abituali di bar, insieme a chi passa la notte in una noia infinita fatta di neon, droga e «pance troppo gonfie di birra» (p. 19); siamo nel letto, siamo la donna di un atleta che guarda il proprio amante vestirsi e uscire dalla porta, siamo dentro di lei, precisamente, siamo una sensazione muta, senza nome, ma che dilaga e si fa spazio, che è spazio: «La stanza\\ è tutta perlustrata dalla luce.\ A un tratto, con assoluto nitore,\ la donna, rivestita, si vergogna» (p. 13).
La vergogna e l’abulia, la paura e la rabbia, ma anche il disperato sopravviversi sono i protagonisti di questo libro: sono la sua verità. Paolo Maccari però non si fa catturare dalla «tiritera della memoria» (p. 53): questo non è un libro di nostalgia nel senso più trito. È un libro che, sì, è preso dal dolore di ogni ritorno («Ma io ho vissuto poche cose, molto poche», p. 84), ma mai, mai si abbandona ad una pietistica evocazione perché conosce il terrorizzante e incredulo stupore di dover «tramandare radici». In una poesia fra le più perfette e commoventi della raccolta, ci troviamo di fronte ad un padre che inventa una storia per il figlio, per farlo addormentare; dopo aver preso sonno, improvvisamente però il figlio si risveglia e chiama: «Mentre mi spavento al dovere di tramandare\ radici, di correggere gli errori e il male,\ di cantare se non c’è più niente da dire,\ succede che lui mi chiami ancora. Gli torno\ vicino ma non parlo e non canto.\ Mormoro appena, gli basta che io sia lì\ per ritrovare il sonno,\ come a me è bastato che lui fosse al mondo\ per supplicare me stesso\ di durare più a lungo» (p. 58). Parallelo a questo terrore, a mano a mano che si avanza nella lettura, si prende coscienza che i più grandi sono deboli, eroi decaduti, e hanno bisogno di noi; e così, ognuno, con la sua povera vita, è nondimeno un esempio, una possibilità, sebbene non abbia mai voluto né si sia sentito mai esemplare: «Così capita di arrossire\ se riaffiora inavvertita la coscienza\ che mentre disperavi\ di riuscire a vivere\ non meno di chiunque hai vissuto» (p. 77).
Si vive; e si sottrae «all’elemosiniere\ della vita qualche moneta\ di emozione sconosciuta» (p. 103). Si vive e «Siamo tutti un po’ diversi\ da come fummo\ e da come ognuno non riesce a evitare» (p. 85). Ma nei versi così lucidi di Paolo Maccari la vita rimane come attaccata all’ombra delle proprie rovine, all’osso che, rosicato, finanche marcio, costituisce nondimeno la nostra unica, povera struttura: quello che abbiamo da dare, da consegnare in pasto al prossimo che viene e inesorabilmente qualcosa chiede. Maccari ci avverte: «Di vero rimane quasi niente:\ il rifiuto, il sollievo, la camera\ dove i pensieri rimbalzano\ e quando si urtano provano\ per se stessi pena e rabbia» (p. 102). Eppure, non riusciamo a non lasciarle danzare, queste poche menzogne che fanno la nostra vita; e a stare lì, di notte, gonfi di sonno, spettatori di questo spettacolo insensato, amaro e stupendo: «Siamo rimasti in pochi. Li conosco e mi conoscono fino al magone, nella notte che piano piano sbianca, come stesse per rimettere. Perciò se le facciano queste ultime due risate: io mi siedo in un angolo e smetto di resistere al sonno» (p. 81).

Fiori bianchi

I fiori candidi che spande
primavera sui fianchi
morbidi delle colline

sono piantine coriacee,
aggrediscono le erbe
e le imbrattano di bianco.

Puri puliti intatti fiori
annodati in orda che sbiadisce il verde
in covata ingorda di terra.

Si distilla nell’aria tersa
il male dei teneri fiorellini
e il bianco prosegue infesto

si ramifica e dilaga nelle valli
scala a ciuffi le mura del paese
tenta i ciottoli sconnessi delle strade

Si acquartiera nelle corti, sulle terrazze,
perlustra le case, le fabbriche abbandonate,
orna ogni rifiuto e ogni relitto.

Le generose piogge di ottobre
ubriacano i fiori
che sbandano di turgore

poi svigoriscono i petali
e li dissipano mentre
i fusti scuriscono sempre

più adulati dall’ombra.
Allora è facile estirparli
e sopportarne senza apprensione

Il modo che hanno di non avere odore.

**

Le cose che non muoiono
sono ricordi di scomparse.

Così, il permanere del dolore
ricorda la gioia che oggi ci manca.

Fosse mancata quella gioia
non ci sarebbe questo dolore.

Ma cosa ci sarebbe allora?
non lo sognare e stringimi, amore.

**

Noi due vicini e la reciproca
perlustrazione degli occhi
supplicando un indizio
di peste sulle guance
dei giorni senza numero.

L’età di mezzo,
con le sue foreste rigogliose e i suoi draghi,
assottiglia le feritoie
mormora in vasti silenzi
miniature di eventi.
E noi due, signori
di terre spopolate.

Rapiti i nostri amici,
il tempo e le sue erbe volitive
hanno ingoiato le sagome delle strade.
Siamo tornati cacciatori.
Cercatori di radici.

Ogni sole muore in intense luci tremanti:
ci affacciamo sui balconi
davanti
agli umidi rossi dei tramonti.

Mi domando chi tra noi due vicini
oggi o mai
se ne andrà via
inerme leggero nel ventre della foresta.
O chi tra noi due per primo
avrà il pensiero forte di morire.

**

Racconto a mio figlio che non sa dormire
la novella di tre cani che salvano una lepre.
La invento via via che la racconto.

Si svolge a Colle, c’è di mezzo la casa dei miei,
la cava di marmo, una fuga, un cinghiale.
Entrano nella storia i miei genitori
i cinque fratelli, i luoghi
che nonostante il tempo rimangono gli unici
che mi sono intimi.

Mio figlio ogni tanto esige modifiche,
mi ricorda dettagli ricorrenti
e io lo assecondo, emendo i passi
meno felici o più paurosi.

La storia finisce con una canzone
che già mi cantava, l’unica, mio padre.
Il bimbo infine si addormenta
e torno al divano e al tremendo
dei pensieri sguinzagliati.

Mentre mi spavento al dovere di tramandare
radici, di correggere gli errori e il male,
di cantare se non c’è più niente da dire,
succede che lui mi chiami ancora. Gli torno
vicino ma non parlo e non canto.
Mormoro appena, gli basta che io sia lì
per ritrovare il sonno,
come a me è bastato che lui fosse al mondo
per supplicare me stesso
di durare un po’ più a lungo.

E non so se sia giusto
questo e tutto quanto
mi rimbalza la sera
dalla vita ai pensieri.

Paolo Maccari (Colle Val d’Elsa, 1975) vive e lavora a Firenze. Nel 2000 ha pubblicato “Ospiti” (Manni), con prefazione di Luigi Baldacci, nel 2006 la plaquette Mondanità (L’Obliquo), confluita tre anni dopo in Fuoco amico (Passigli, presentazione di Mario Specchio). Al 2013 risale “Contromosse”(Con-fine, con prefazione di Luca Lenzini e postfazione di Giuseppe Di Bella). Suoi testi sono presenti in diverse antologie italiane e straniere e tradotti in inglese, francese, tedesco e spagnolo. Sul versante critico, ha introdotto e curato opere di molti autori italiani otto-novecenteschi (ultimamente ha collaborato con Adele Dei alla curatela delle Opere di Clemente Rebora edite nei Meridiani di Mondadori) ed è autore di una monografia su Bartolo Cattafi, Spalle al muro (SEF, 2003) e di un volume su Dino Campana, Il poeta sotto esame (Passigli, 2012).
Dirige con Valerio Nardoni la collana di poesia di “Valigie Rosse” legata al Premio Ciampi.

 

 

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