I
Nel grembo
di quel che non ricordo,
adunarsi d’una mente,
quante grida. È cosí
che si viene attraversati.
Si va dietro a correnti,
si sconfina. Occidente
accompagna nel guardare.
Moltitudine
non ha rassomiglianza;
frutto dell’insieme,
un vuoto errante,
insistenza-concordanza
nel mancare (fuoco
trascurato, parola
irripetibile, stoffa
senza veste, e tutto
senza seme, nell’uguale).
Esperienza del sonno,
tirannia d’ogni svanire,
come una piega liscia
– ora – per dimenticare.
Eppure torna a volte
a un corpo solo, stretto
dentro il sonno, l’aspetto
giovanile—la risonante
impresa dei suoi passi,
il primo vuoto del vaso,
la fortuna. Sfiorire
è un atto della storia,
mentre attende la sua forma
lo sfiorare. Abbiate foglie
con voi, fatevi rami—
per aver dove andare, e non
piaghe di queste parole.
Un cielo calmo sopra le rovine
non è quel cielo gravido di sogni
– pietoso di foreste e calvo
come il tamburo delle notti –
addosso al suolo
orientato dal cammino,
enorme cavalcatura degli anni,
ma grande stoffa sospesa
sull’inerte, e lingua che
colpisce sue parole.
Cane nero adulatore
– sovvertito prologo –,
soffia via dall’uomo
i nomi che gli han dato.
Cane, esilio più vicino
vacillante nella luna
radicato negli sterpi—
porzione necessaria,
come sangue offerto
per la pioggia, o tenero
marcire disuguale
a dispetto d’essere già morti.
Aiuta però lo spigolo
nel culto del ricurvo,
aiutalo cedere orgoglio
alla sconfortata ampiezza
del suo dissolversi.
Valore, talento, sommità:
cera che deve reggere gran peso,
per il doppio ombelico dei viventi
per il rumore-spreco delle voci
per ciò che vola indietro
come vecchia sorella dell’estate.
Ogni cosa nel fuoco—
al suo confine, ancora.
Altura ove si adunano
quei volti, non lasciarmi
salire non farti calpestare,
non mandare alcuno
a salutarmi. Riponi
tua acuminata beltà
in un fodero d’ombra,
e fa’ che predatori
vincano il mio rispetto.
Diventa insignificante, 80
come ondeggiar di schiuma
al confluire, come
il terzo giorno di pioggia
e l’ira dei morenti.