di Fabrizio Fantoni
Voce tra le più rilevanti della poesia del secondo novecento, Patrizia Valduga si è caratterizzata, sin dal suo esordio poetico, per la ripresa di generi metrici tradizionali quali il sonetto, l’ottava e la terzina dantesca. Una scelta questa che lungi dall’essere frutto di classicismo o peggio di citazionismo trae origine dalla necessità, avvertita dall’autrice, di porre un argine ad un’inarrestabile energia vitale che nei versi trova concreta espressione in un Eros irrefrenabile e dilagante inteso, come scrive Recalcati, in un “erratico, eccentrico, incostante oltrepassamento di qualunque soddisfazione possibile».
Tale modalità stilistica, riprodotta anche nelle raccolte successive, trova piena compiutezza nel libro “Requiem” (1994) che può essere considerato, a pieno titolo, come il risultato più rilevante della sua produzione poetica. Qui il dolore, evocato tramite la reale esperienza della morte del padre, diviene oggetto di un canto in cui contenuto e forma metrica non sono più presupposto l’uno dell’altro ma divengono un tutt’uno, si fondono dando vita, come scrive Luigi Baldacci, ad una “cronistoria di un’agonia e di un’angoscia, del padre e della figlia: una morte riguardata dalle ultime trincee della vita” in cui “niente è lasciato alla sfera della metafisica, tutto si riporta all’immanenza, al concreto”. Sono versi di forte impatto emotivo che ci parlano della lontananza che si crea tra persone legate da vincoli di sangue e di una figlia che, nel dolore, vede dischiudersi davanti a se la vita del padre colta in tutta la sua intensità proprio nel momento del suo perdersi.
Oh padre padre che conosco ora,
soltanto ora dopo tanta vita,
ti prego parlami, parlami ancora:
io fallita come figlia, fuggita
lontano un giorno, e lontana da allora,
non so niente di te, della tua vita,
niente delle tue gioie e degli affanni,
e ho quarant’anni, padre, quarant’anni!
Per otto giorni, otto notti nere,
immobile, schiacciato sulla schiena…
Più giù, ancora più devi cadere,
non ci sono più limiti alla pena…
Tu non potevi più nemmeno bere
e chiedevi come era la mia cena,
quel po’ di vita ancora di doveri
era per noi, per noi i tuoi pensieri.
Oh quanta vita in così poca vita…,
che sono qui e ho cuore di guardare…
che ci cerchi con gli occhi… che la vita
sola si strema in spasmo a conquistare
la morte, che si vince con la vita…,
io sono qui e ascolto il tuo ansimare…
Anima sola senza più parole,
parli la luce lucida del sole.
Patrizia Valduga è nata nel 1953. Vive a Milano. Presso Einaudi sono usciti “Medicamenta e altri medicamenta” (1989); “Cento quartine e altre storie d’amore” (1997); “Prima antologia” (1998); “Quartine. Seconda centuria” (2001); “Requiem” (2002); “Lezione d’amore” (2004) e “Libro delle laudi” 2012). Ha tradotto John Donne, Molière, C.-P. J. de Crébillon, Mallarmé, Valéry, Céline, Beckett e il Riccardo III di Shakespeare (1998), recentemente riproposto negli «Einaudi Tascabili» e, nel 2011, ha curato il Breviario Proustiano.