«Con gli occhi incerti tra ‘l sorriso e il pianto»: sulla poesia di Umberto Piersanti.
di Eleonora Rimolo
Il punto nevralgico della poesia di Umberto Piersanti è, in maniera indiscutibile e come è stato più volte messo in luce, la natura. Attraversando in particolare due raccolte dell’autore, “L’albero delle nebbie” e “Nel folto dei sentieri”, la natura assume due ruoli fondamentali: da un lato è strumento di rievocazione della memoria antica (anch’io vi ricordo nella luce/stagliati tutti dentro l’aria,/Madío è sotto il ciocco/grande e guarda,/Celeste sale lento lo stradino,/alla Fenisa gli anni non hanno tolto/il chiaro dentro gli occhi/e sulla testa l’orcio non pende/o sussulta), e dall’altro è genitrice impietosa nelle sue leggi incontrovertibili (fino a dicembre/questa terra squallida/e contorta, profanata/dagli uomini e dai cani,/due fiori l’hanno scelta,/così segreti/ed appartati,/caso o necessità/non c’è risposta).
Tuttavia la visione della natura di Piersanti non è quella meccanicistica o materialistica di un Leopardi pessimista cosmico, bensì specchio limpido dell’autentica immagine tremenda dell’uomo, trasfigurato ma mai rinnegato. In questo si avvicina più ad un Carducci, o ad un Pascoli, l’uno anticipatore dell’altro nell’utilizzo dell’elemento naturale come tramite per la descrizione di un luogo o di un contesto tutto umano. Rispetto a quella di Carducci, però, la natura di Piersanti svolge un ruolo catartico e di mediazione con la realtà circostante (ma quel fiore/azzurro più dell’aria/non lo scompiglia il vento/o lo dissolve,/il suo stelo confitto/lì tra l’erbe/è memoria incarnata/nella terra): non è dunque solo cornice di un vissuto o metafora di un desiderio insoddisfatto di vissuto, ma è materia viva sulla quale l’Io si innesta proprio come un seme fecondo, in una comunanza per la prima volta possibile (sebbene inquietante) tra soggetto ed oggetto (a chi nasce spetta/spezzare la dura, gelata/crosta della terra,/sempre si viene fuori/al mondo al freddo/e al gelo,/in una primavera che tarda,/stenta e desolata,/il seme che abbandona/la sua tiepida nicchia/sotto la terra). Quindi, nonostante gli esili caratterizzanti l’esistenza, nonostante le continue sottrazioni di alleanze, di vicinanze, che il poeta ammette come necessarie (e la vita scorre tra gli esilii, /i tristi esilii, forse necessari), il contatto con la nuda terra rimane fino al termine dei nostri giorni, e assieme alle stagioni rinvigoriscono anche le illusioni, eterne consolatrici delle ferite inferte da un tempo implacabile (è il primo bacio,/dolce, sa di fico,/non toglie la paura,/ma ti consola,/ consola come la vita/che perdura).
L’uso del linguaggio tecnico degli elementi della flora e della fauna (oltre all’uso preciso dei toponomastici) fa sicuramente pensare al Pascoli studioso ossequioso del linguaggio naturale, ma la natura di Piersanti non è semplice simbolo che rivela al poeta, anima eletta, le connessioni tra Io e mondo: questi legami il poeta ama scoprirli solo in parte, così da poterli piegare alla sua personale volontà di riscrittura onirica del reale, che diviene così un dato cronachistico ed universale, probabile ma non certo (ricordo una volta ch’ero salito sul costone/ed ecco che veniva l’aquila altissima,/non la vedevo bene,/aveva qualcosa tra gli artigli?/Una lepre forse, o magari nulla,/ma io la pensavo così alta,/con la preda tra gli artigli,/i piccoli l’aspettano arruffati). Al di là dell’intuizione su base emozionale delle relazioni che la natura intreccia con i suoi visitatori, il poeta rintraccia in questi nessi una tensione tutt’altro che rassicurante, ma tutta giocata sul contrasto bene-male. La natura, infatti, sembra guardarci con un occhio solo, coperta dal suo velo, in modo spaventoso e interrogativo allo stesso tempo, ponendoci di fronte all’evidenza di alcune sue diaboliche creazioni quali la morte, il dolore, la malattia (Natura così bella e così atroce,/quell’animale soffriva sgomento/e moriva in mezzo al cielo/così azzurro, già mutato in nuvole nere,/dall’altra parte quelli in attesa del cibo,/la vita e la morte/le nuvole e l’azzurro,/l’acqua verde,/l’eterno, scontato, stupendo passo delle stagioni/della vita e della morte/del cosmo stesso).
Ed è appunto la malattia un’altra presenza tematica forte nella poesia di Piersanti: suo figlio Jacopo, a cui è dedicata un’intera sezione de “L’albero delle nebbie” è il frutto di una forza generatrice irragionevole ma sempre innamorata dei suoi figli, comunque essi siano, al punto da donargli la cosa più preziosa, cioè la vita. I versi per Jacopo ci mostrano come la malattia richieda a chi la subisce onestà e lucidità intellettuale, perché solo in questo modo è possibile cogliere le diverse epifanie dei sintomi e delle reazioni di chi la patisce e metterle in relazione con l’ambiente circostante, che è altrettanto illogico, privo di senso della misura e della giustizia (solo quando sei dentro l’acqua/e ci cammini,/giù nel fondo lento/e silenzioso,/torna il volto perfetto/senza le pieghe,/penso che tu sei nella terra/da dove vieni). Nel processo di manifestazione e di descrizione minuziosa della patologia e dei suoi effetti diventiamo parte attiva e mai passiva delle logiche perverse della natura madre-assassina (il capriolo piccolo/s’è perso,/gemono rami ed erbe/al suo gran pianto,/forse lo trova il lupo,/forse la madre). Premura infinita e accettazione ferma armonizzano questa distanza incolmabile tra padre e figlio (presto ritorneremo insieme/nelle strade, oggi/giro solo tra i campi,/a questo sole tiepido/mi piego e arrendo,/tacciono le memorie,/fisso il cielo,/la cerchia di quei monti,/blu, lontani) ed è grazie a questa sintesi che scopriamo di essere proprio come la natura che ci ingloba: nonostante tutto abbiamo sempre voglia di fluire, di amarci, di vivere. E di “dire” la crisi, che Piersanti esprime sempre attraverso l’utilizzo della scrittura come conseguenza dell’oralità. Il testo diventa così vitale, ancorandosi al mondo classico nei suoi aspetti più ancestrali e allo stesso tempo più moderni; l’oralità di Piersanti è quella primaria, non perché non si trasformi in scrittura, quanto perché risulta necessaria per un narrazione sincera e ordinata delle “cose di natura”. La sua è una narrazione demitizzata e tutta fondata sul sentimento del sublime matematico kantiano, perché Piersanti riconosce e traduce perfettamente in versi tutte le forme e le manifestazioni della potenza straordinaria degli elementi naturali, sentendosi smarrito, infelice e allo stesso tempo pago, poiché cosciente della possibilità superiore del suo agire morale.