di Tommaso di Dio
Ogni libro di poesia è uno scrigno. E certi scrigni – quelli che intendono nascondere i tesori più preziosi – si aprono soltanto se giriamo contemporaneamente due chiavi. Serve un doppio movimento, congiunto e contemporaneo, affinché la luce ritrovi lo spazio dove brillare. Fra le migliaia di parole possibili, ecco le due chiavi che ho trovato sepolte per entrare nel libro di Brancale.
La prima è un suo verso: «che tutto è infinito sul punto di finire». La seconda è una parola, che in questo libro torna spesso. Una parola che non è una parola, ma è un’azione, un verbo-parola, che richiama e rimanda all’origine stessa della poesia (che appunto è un fare, non una parola nel senso decrepito e tipografico moderno). La parola è respiro. Da qui, da questa duplice porta bisogna partire per entrare nel mondo della poesia di Brancale. Il respiro. Fermiamoci un momento per capire, cosa è il respiro. Esso è l’infinito mondo altrove altro da me, che mi nutre, nutre le mie cellule e mi attraversa; un infinito che però prende coscienza di sé soltanto nel respiro che finisce, che sfinisce, che bisogna sempre sfinire: non finire mai di finire. Soltanto chi finisce, chi ha il coraggio di sostare fra l’inspirazione e la espirazione, conosce il mistero dell’inizio. E questo alto insegnamento Brancale non lo dimentica.
Il libro è composto da tre sezioni. I titoli, messi uno dopo l’altro, sono già una poesia: Da sotto ogni respiro, per diverse ragioni, Tu è la parola. Come se la poesia non stia solamente nelle poesia ma quasi nella cornice. Come se la poesia sia quello che Agamben ha scritto della filosofia: una questione di intensità, un luogo di ipotiposi: un luogo di potenza, di poter essere. La prima sezione è ambientata nella malattia, fra i corridoi dell’ospedale. E i malati chi sono? Sono coloro che vedono, che sono «spogli di tutto». Coloro che più sentono di «essere in tanti e di essere uno solo» (p. 27), ovvero di essere singolari e plurali contemporaneamente; contemporaneamente individui e pasta di stelle, fatti di qualcosa che viene da altrove, che è altro, autre, oltranza, oltrepassamento. La malattia li spartisce, li rende frantumati, molteplici, espropriati. Allora scrivere non è altro che «leggere il proprio corpo» (p.27), perché leggere il proprio corpo è leggere la propria prima alterità, così come scrivere e rovesciarsi in altro, nel segno della scrittura, in qualcosa che non è solo tuo, ma resta a disposizione di tutti, per potenzialmente infinite resurrezioni. E infatti scrive Brancale: «tutto è aperto tutto lascia trapelare l’avvenimento» (p. 29). E la parola è qualcuno che ti viene incontro, ti cerca: «qualcuno in piena notte bussa al petto\ mi strappa un grido\\ qualcuno è la parola\\ la parola che smentisce\ la ferita\\ dice ora nel respiro\ ora non è più» (p. 30). Se è questa la malattia, questa scoperta, allora non sorprende che la malattia ci guarisce («guariremo dalla salute», p. 31), ci guarisce leopardinamente dalla malattia della non consapevolezza, dell’ignoranza miope che ci vuole «io» chiuso e monadico.
A questo punto il libro si apre a questa pluralità felice, fertile. Emerge ora il titolo della raccolta, il suo senso. Per diverse ragioni: ovvero non per LA RAGIONE. Insomma, per farla finita con la ragione unica, per dirla con Artaud, autore caro a Brancale; e infine invece aprirsi alle ragioni plurali differenti, all’erranza di una ragione nomade e selvatica. La ragione è per Brancale questo perdersi della ragione nelle ragioni altrui, diverticolanti e divertite. Tutta la poesia di questo autore lucano ha in sé una grande libertà, porta con sé e fa sì che il lettore ripeta con lui il gesto di dire addio ragione, un gesto di apertura e di accoglienza. C’è nello stile di questa poesia e finanche nella sua facies testuale un desiderio di smagliatura, di creare fori, buchi, di lasciare che il testo sia traforato e aereo: trapassato dalle ragioni altrui. Sempre la sua parola riesce a tenere viva l’attenzione su questa erranza di ragioni, riesce sempre a dire il dietro da cui prende forza e vive il davanti: «per diverse ragioni viviamo dietro le palpebre di una persona» (p. 37). Questa alterità, compressa e ritmicamente reiterato nel pronome tu, è la ragione plurale e feconda della scrittura di Brancale. Un tu sempre da cercare da concordare, sempre da inseguire, affinché nella diversità si trovino «le stesse ragioni» (p. 41). Un tu altro, un tu compagno, un tu deposito di sapere: «Tu lo sai. Nelle viscere ogni cosa si afferma\\ Ogni ragione deve essere superata» (p. 72). Si è complici perché da diverse ragioni si guarda nella stessa direzione: «verso la dimora del bene» (p. 41), come in un lancio primitivo e mitologico, «Nella freccia sta il grido del centauro» (p. 54). In questo libro si delinea una quasi storia di amore, ma senza personaggi fissi, concreti, con personæ, maschere variabili, identità rigide. E sono elementi che prendono consistenza grazie al loro stringere relazioni: «Facciamo e disfiamo alleanze nell’intreccio dei corpi» (p. 42), perché «è lì. Fuori. è nell’altro che la nostra identità non serve» (p. 49).
Cosa si affaccia allora lì fuori? Un verso ci guida: «Saremo forse più vivi che umani» (p. 78). E poi un altro, anche qui una duplice chiave: «Bisogna avere il coraggio delle foglie» (p .81). Le ultime parole di questo libro parlano di nudità, una nudità «Fino allo splendore», una nudità caduca, che non teme la propria sparizione. Si cerca, ancora di più di quanto realizzato nei versi precedenti, di essere «in ascolto» (p. 85), in ascolto di una parola oscura e arcana, che ritorna da poeta a poeta. Pallaksch: parola misteriosa, parola disfatta nel suo suono, macerata in questo respiro; parola che è diventata conchiglia cava capace di ospitare ogni spericolato pensiero e soprammondo, fu un neologismo fondato da Holderlin e che i poeti si passano di mano in mano come un testimone, come l’Odradek di Kafka, come fu per Celan.
Parola che – così ci dicono gli esegeti – ogni tanto significa sì, ogni tanto significa no. In un’indifferenza che non è distrazione, ma che è capacità di rammemorare «per l’amore dell’uomo perduto nella creta», un uomo antico e sempiterno che, come al bordo di una foresta o al limite di un villaggio, ti accoglie «nella trascrizione della sofferenza» e rimane lì, con la mano tesa: «nel luogo dove le cose cominciano da zero» (p. 88).
ESTRATTI
*
Estranei. I giorni non tornano.
Per diverse ragioni viviamo
dietro le palpebre di una persona.
Fuori resiste. Ostinato. Fuori limita.
Dietro viviamo.
Luce. Dentro.
Irrompe fin dove ha ragione il buio.
«Poiché è incandescente. Poiché nessuno le resisterebbe».
Fuori è un perimetro svanito.
I corpi vagano. La mano in agguato.
*
Ma c’è nel sangue un sangue che defluisce leggero
verso la dimora del bene. Un uomo nell’uomo
oltre la bestia. Oltre la clausura.
Dev’esserci una mano nella mano senza più colpa.
Indifesa. Fuori dalla stretta.
Sul volto appena nato nello specchio della tua luce.
Sì. Per le stesse ragioni. Ora è qui.
Poiché si rivolta. Si affida
*
Una parola entra nel nostro silenzio.
Entra come chi sta per uscire dal respiro
con nient’altro che il suo fiato.
Mai.
Dall’orecchio fino alla bocca si ritrae
dal buio della cronaca
dalla scrittura della terra.
Fino allo splendore.
Come se fosse mai esistita.
Tu la raggiungi.
da Per diverse ragioni, Passigli Editori, 2017