il filamento di blu, l’invisibile corrimano
Scala a chiocciola verso un filamento di blu:
su Santa Lucia di F. Furini
(Galleria Spada, Roma)
Discesa di compensazione
nell’abituare gli occhi
a scrutare dal buio —
occhio strappato ed esposto —
quel che resta sembra
già abbastanza difficile per un paio,
ti penetra da parte a parte,
un feroce tumulto,
l’avido sguardo della singolarità —
occhio strappato ed esposto —
non guardare dove il guardare
non è voluto — messaggio
invertito — per entrare
con l’inganno nella chiarità, i becchi
delle aquile al di sopra di Hong
Kong Harbour, e a casa prima
che lasciassero i cieli
sulla vallata di Jam Tree
Gully — in absentia —
cos’è successo, un filamento
di blu sulla nuca, capelli blu
che accendono uno spalle-scoperte
riflettendo di rimando non
una convenzione pittorica,
le scale di pietra
che la raggiungono,
avanzando a tentoni
nella poca luce
che facciamo — nel filamento
di blu che seguiamo,
l’invisibile corrimano.
Spiral Staircase to a Blue Strand: On F. Furini’s Saint Lucy (Spada Gallery, Rome)
Offset descent
in taking to eyes
peering out of the dark —
eye plucked and posted —
what remains looks
hard enough for a pair,
stares straight through,
a fierce simmering,
thirsty gaze of singularity —
eye plucked and posted —
don’t look where looking
isn’t wanted — inverted
messaging — to trick
a way to clarity, the eagles’
beaks over Hong Kong
Harbour, and at home
before they left the skies
above Jam Tree Gully,
the valley — in absentia —
what happened, blue
strand from the nape,
blue hair lighting
an off-the-shoulder
reflecting back not
a painterly convention,
those stone stairs
reaching to her,
feeling your way
in the poor light
we cast — the blue
strand we follow,
invisible banister.
Il ‘filamento di blu’ — che permette di passare dall’oscurità alla chiarità con l’‘inganno’ dell’arte, accendendo la sensuosa spalla nuda di Santa Lucia nel dipinto di Francesco Furini — può essere un buon filo conduttore per il lettore che voglia addentrarsi in questa mappatura romana tracciata da John Kinsella (Perth, W.A.) durante un suo recente soggiorno in Italia, e voglia lasciarsi condurre all’interno di quel luogo non-luogo che trascende il luogo reale e dal quale, con Whitman, originano tutte le poesie.
Questa incandescenza di lapislazzulo — che si avvolge a spirale su se stessa e funge da ‘invisibile corrimano’ per chi proceda ‘a tentoni’ verso la bellezza (in)attesa — è una vibrazione di colore che si contrae e si ritrae in profondità, creando col suo movimento concentrico-centripeto quell’effetto di immersione o capofitto del lettore che viene come risucchiato dentro un vortice percettivo, cognitivo, immaginativo, surreale. Questo vortice — avido buco nero che tutto ingoia nella sua ‘singolarità’ — prende corpo nel farsi dei versi e viene esposto nel momento stesso del suo strappo dall’informe e dalle interazioni del mondo vivente, regalandoci quell’immediatezza del presente e quella vividezza di voce che sono il maggior dono della poesia di Kinsella. Di fatto, questa iniziale pupilla-vibrazione di blu mette in questione la vista, pensandola nel suo rovescio di cecità: vale a dire pensandola come vista coinvolta nel suo intimo da quell’aspetto di cecità costitutivo di ogni visione, che porta il poeta a interrogarsi su cosa significhi davvero vedere con uno sguardo che vada al di là degli occhi vedenti ‘strappati’; o con uno sguardo comunque offuscato, impedito, occultato da un velo, che in parte lo ostruisce nella sua tensione verso il cuore delle cose esperite. Nessuno sguardo è in grado di illuminare o svelare soltanto: invece, ogni sguardo occulta, ottunde, vela, portando con sé un’ombra o un rovescio insopprimibili. Una buona visione d’insieme può pertanto richiedere quel ‘doppio sguardo’, capace di sconfinamento del sé nell’altro, e in ‘reciproco cospetto’ all’interno del nuovo spazio creato dalla scrittura poetica come frammezzo: come quello spazio mediano dotato di un campo e una visione suoi propri, in grado di accogliere sia la pienezza dell’incontro con l’altro sia le differenze e le ambiguità dell’esistente. Questo sguardo che vuole vedere-capire-sfiorare con le labbra e le mani degli occhi, mostrando come vedere e visibile siano sempre pervasi di luce e buio, di differenza e di differenze, assume dapprima il dipinto di Santa Lucia come testo (più avanti saranno la finta prospettiva del Borromini, l’Annunciazione di Filippo Lippi, le figure nere del Pittore di Micali…), confermando sia il plurilinguismo costitutivo dell’opera d’arte capace, con Lotman, di esaltare il carattere creativo e libero dell’atto linguistico, sia la spiccata vocazione all’intertestualità del poeta. Il textum, nella sua inclinazione a farsi trama e ordito nei versi kinselliani, viene assunto come apparato simbolico atto a veicolare conoscenza-comunicazione-rappresentazione, grazie alla pluralità e alla complessità di significati che vengono disseminati dal perenne travaso del senso. Quest’ultimo, sotteso all’apparente immobilità di ogni strato di significazione lessicale cosciente del dipinto, viene messo in movimento dal doppio passaggio dell’alterità nella soggettività / del proprio nell’altrui, scandito dalla marca espressiva della lineetta che si apre al ‘messaggio invertito’, durante lo sfrangiarsi dei confini tra la poiesis di Kinsella e quella artistica di Furini. Questo sguardo che non è solo sguardo ma relazione — incontro tattile di un io con un tu, di un io e un tu che ci parlano e diventano noi che leggiamo — si inarca nel ponte della poesia gettato nel tra: tra prossimità e distanza, visibile e invisibile, visione e cecità, buio e luce, regionale e internazionale, noto e ciò che noto non è. Nel suo essere tratto di altri tratti (dipinti, prospettive, disegni, citazioni…), lo sguardo-contatto del poeta si pone strada facendo come costante modalità di apertura sulla molteplicità del mondo e sulla complessità della sua storia interconnessa e multiculturale. Laddove ogni aporia si declina propriamente come aporos, come assenza di cammino e impraticabilità di percorso, il frammezzo poetico kinselliano si dirama invece in un moltiplicarsi di strade che l’autore può percorrere per moto rettilineo-obliquo-contrario, riuscendo così ad accogliere nel proprio sguardo i punti di vista altrui, anche quelli destabilizzanti o contraddicenti. Questi ulteriori punti di vista, acquisiti grazie a una parola pluridiscorsiva e pluricollocata nella/dalla spazializzazione della scrittura, finiscono per conferire alla voce che ci parla col suo forte accento intertestuale quel carattere polifonico-dialogante-comparativo-contraddicente, in grado di cogliere nei plurimi intrecci delle dinamiche percettive una nuova visione del mondo in cui le differenze si trasformano in confini rinnovati (ogni confine come cum finis, parte rispetto a un’altra parte), plasticamente più adatti ad accogliere la continua metamorfosi del rapporto tra figura e sfondo. Fino a quel diverso ordine di visibilità non soltanto fedele alla casa delle cose e alle aporie che le abitano, ma capace di portare quelle stesse opposizioni all’interno delle stanze della poesia, dov’è possibile osservarle in modo più perspicuo e attraversarle nel loro incessante, irriducibile movimento interno di differimento di sé con sé, senza che si possa o si voglia in alcun modo totalizzare la pluralità incontrata. Fino a lacerare l’integumentum del discorso poetico che si esplicita, nelle poesie qui prese in considerazione e nell’intera mappatura, come scrittura tenacemente intonata alla dimensione etica del rapporto ad altri e pertanto inscritta nella molteplicità delle esperienze umane, estetiche o teoretiche, politiche; e, in quanto tale, scrittura particolarmente idonea a portare a effetto il doppio movimento, con Gordon, del rendere-lo-strano-familiare e familiare-lo-strano. Lo sconfinamento-condensatore di focali del proprio trasformato in estraneo, dell’estraneo in proprio — dove l’insidia dell’unione fusionale viene preservata dalla giusta distanza nel mutuo riconoscimento dell’io che non diventa mai l’altro — mira a tradurre lo straniante paesaggio creato dall’invenzione poetica in una grammatica del sociale e del politico non convenzionale o meramente estetica. Per poter infine suggerire la coerente costruzione di un auspicato mondo possibile, dal quale origina il carattere necessario e non più fittizio della rappresentazione immaginaria, che vuole offrire al lettore un ruolo attivo nel creare una nuova mappa del mondo, parlando d’altro (M. Corti).
Come ogni buon cartografo, più che cercare un axis mundi, Kinsella tenta di rispondere all’eterna domanda: dove mi trovo e qual è la visione del mondo che voglio comunicare? E per fare questo attua quella scissione che situa l’osservatore in punti diversi nello stesso momento, per restituirgli un’immagine prospettica, non appiattita del mondo e delle sue opposizioni, irriducibili le une alla altre in quanto riflesso della polisemica diversità della vita stessa in cui la scrittura è pur sempre immersa.
Nel frammezzo dei versi, l’azzurrità viene così attraversata dalla maestosità delle aquile in volteggi e planate: queste, coi loro becchi, bucano la tela del dipinto romano e quella del discorso kinselliano, con tagli aperti fin dentro lo spazio libero dei cieli al di sopra del porto di Hong Kong e della nativa vallata di Jam Tree Gully. Fin dentro quei luoghi alti, molto amati dal poeta, ‘dove i venti ridefiniscono i limiti’, e i confini si fanno sfuggenti, indefinita frontiera di un terrain vague, dove ‘tutto è riscontro e somma delle parti’, zona feconda di esaltazione e rapimento e ‘tocca a te entrarvi e rischiare tutto.’ Trasformando così la monumentale forma fissa del poema in una esperienza spalancata nell’istante del suo accadere davanti allo sguardo del lettore/spettatore sul théatron del mondo, dov’è possibile osservare le drammatiche contraddizioni messe in scena. In questo suo modo di procedere, che si interroga costantemente sulla problematicità del vedere in rapporto all’imprescindibile legame tra opera e mondo, Kinsella non si accontenta mai di uno ‘stare alla finestra’ o di una distaccata osservazione di dati. Egli cerca invece quelle rivelazioni o scansioni di quanto attraversato, capaci di ascoltare il mondo e il suo evento, e di tradurlo nel cum patire di in una parola inclinata all’ascolto e dall’ascolto, e perciò atta a imprimere anzitutto e di volta in volta un nuovo ritmo ai piedi del verso, quale luogo dell’apparizione-sparizione del nome e della presenza. Una parola che, nella sua ritmica attitudine a scandire, sappia anche distinguere e pronunciare con la maggior chiarezza possibile il nostro tempo out of joint, sempre più scardinato o fuori di sesto, nel quale la linearità è un’illusione e la frattura la realtà (anche del logos, frammentato al suo interno dalla differenza che lo abita, e perciò portato dal poeta a farsi diálogos, discorso aperto a nuove forme di intelligibilità). Questo desiderio o necessità di una visione obliqua, inizialmente declinata nel suo movimento di transizione come sguardo-occhio-vista-singolarità-spirale-contatto-corrimano, si esplicita via via come concreto e costante tentativo di avvicinamento all’accadere della differenza o alla soglia del differire: ovvero, come evento di una pratica in cui possa aprirsi un nuovo senso del fare e possano delinearsi nuovi orizzonti di mondo. Una pratica in grado di iniziare ogni volta — in ogni singola poesia — quell’affrontamento con la dimensione problematica del vedere che cerca nel proprio movimento inventivo la definizione di una teoresi che vuole essere nel contempo poiesis e praxis, per riuscire a portare dentro la propria scrittura l’urgenza di un impegno etico-politico all’altezza delle sfide di un’epoca sempre più contraddistinta dalle sperequazioni e dalle ineguaglianze che striano il mondo globale.
Figlio della diaspora irlandese in Australia — seguita alla terribile carestia degli anni 1845-50 — Kinsella reca in sé la doppia ferita dell’essere discendente di emigrati sfuggiti alla catastrofe, a loro volta artefici della sottrazione delle terre aborigene ancestrali e dell’oppressione sulla cultura, la lingua e la voce dei colonizzati. Il poeta di Perth guarda pertanto con accorata sensibilità al nostro tempo sempre più caratterizzato dalle immigrazioni di massa di rifugiati e profughi in fuga dalla guerra e dalla fame, confrontandosi con la diffusa condizione di esilio radicale conseguente alla scissione del legame originario e fondativo con la propria terra(patria, nazione), quale radice e luogo dell’abitare e della dimora. Per poi ricondurre quello sradicamento epocale — e il conseguente senso di spaesatezza e di estraneità ad esso correlato — nel più ampio alveo di un’ecologia da lui fortemente sentita e partecipata come discorso sulla casa. Se, con Novalis, filosofia è propriamente nostalgia, desiderio di fare di ogni luogo la propria casa e di sentirsi ovunque come a casa propria, la costante pratica di avvicinamento alle differenze della poetica di Kinsella può essere letta più compiutamente come desiderio di comunicare una visione del mondo che vuole revocare ogni presunta univocità del già noto, riconducendo al noto ciò che al noto tende a sottrarsi, creando familiarità e domesticazione in quel che viene percepito come estraneo o massimamente distante. Ripetendo le parole di Terenzio, se specificità dell’uomo è non sentire niente di umano a noi estraneo, allora diventa necessario ricondurre al noto anche una specifica sensibilità umana attraverso l’umanizzazione di quel che umano più non sembra, mettendo in discussione ad ogni passo la crescente devastazione della terra ad opera dell’uomo. Tra i più influenti eco-poeti contemporanei, Kinsella tenta tenacemente di focalizzare l’attenzione sull’allarmante impatto dell’uomo sulla natura, sulle risorse consumate in modo esponenziale e sulla capacità ormai limitata degli ecosistemi di sostenere le generazioni future, nei preoccupanti intrecci di eruzioni demografiche e depressioni economiche, aggravati dai mutamenti climatici e dal riscaldamento globale che renderanno sempre più inabitabili ampie porzioni di territori entro fine secolo, alterando in modo irreversibile il volto della terra con una profondità mai sperimentata negli ultimi millenni. La sua ‘poetica attivista’, considera nel contempo i riflessi della messa in crisi dei fondamenti stessi dell’identità dovuti, appunto, alla condizione epocale di esilio radicale, interrogando le dinamiche tra centro e periferie, tra locale e internazionale, nella continua trasformazione (di luoghi / spazi fisici e politici / lingue / culture) che contraddistingue il nostro mondo ibrido, attraversato da crepe, turbolenze e fratture. Al di là di ogni altra considerazione, e nella speranza di poter ancora intervenire sulle emergenze ambientali, Kinsella individua nella consapevolezza della qualità e della drammaticità del danno indotto il prerequisito di ogni realistico tentativo di inversione di rotta. Nihil sub sole novum? Forse sì, purtroppo. Ma se, poco meno di cinquant’anni fa, nei suoi versicoli quasi ecologici, Caproni già lanciava il suo vivo appello ad ascoltare la terra (‘L’amore / finisce dove finisce l’erba / e l’acqua muore. Dove / sparendo la foresta e l’aria verde, chi resta / sospira nel sempre più vasto / paese guasto: Come / potrebbe tornare a essere bella, / scomparso l’uomo, la terra’), è tempo ormai di togliere il ‘quasi’ e perseverare con più forza.
In questi panni italici — dispiegati negli arabeschi di luce e ombra di una scrittura poetica autentica, con la quale si osa turbare l’universo — il lettore viene condotto attraverso un riconoscibile percorso che dal centro città e il lungotevere si spinge fino alla foce del fiume a Ostia antica, fino al ‘qui e ora dell’antichità’ frammentato nelle preziose tessere dei suoi mosaici. Dall’alto del Gianicolo, mentre lo sparo a salve del cannone di pertinenza al monumento in bronzo di Garibaldi sincronizza campane e orologi di tutta Roma, lo sguardo del poeta si volge alla valle dell’Aniene in lontananza dove, dalla sua villa in Sabina, la voce di Orazio forse ripete il monito del suo carpe diem. Caro agli arcadi (e a Leopardi) per il suo amore per la natura, maestro della rielaborazione della poesia greca su modelli romani, il poeta latino, in uno con Kinsella, sembra invitarci a riflettere sulla fragilità della vita e a guardare non ai monumenti in bronzo ma a quelli più duraturi dell’arte poetica, frutto di una positiva tensione verso il senso più profondo del vivere. Nel mezzo del cammino, la voce del poeta di Perth si accompagna a quella di Virgilio nel primo verso dell’Eneide ‘Arma virumque cano’, riportandoci alla figura di Enea in fuga dalla sua città in fiamme, nel suo passaggiocaproniano, con il figlio Ascanio per mano e in spalla il vecchio padre Anchise e un passato che crolla. Enea, colui che per primo giunse profugo dai lidi troiani e che molto patì in guerra fino a fondare la città di Roma. Enea, simbolo unico di un’epoca, un hostis, un hospes, un eroe giunto in Italia come i tantissimi esuli di oggi che affrontano un durissimo viaggio fisico e interiore, combattendo odio, violenza e pregiudizio. I due testi presentati sono racchiusi dal titolo Le armi e l’uomo, tratto dall’opera dell’irlandese G.B. Shaw, nella quale si vuole demolire l’idea romantica della guerra e del già noto. L’accostamento delle voci di Shaw e Virgilio alla propria svela il senso più profondo del dis-corso kinselliano, esplicitandone la forte valenza etico-politica: qui non si guarda solamente alle magnifiche sorti e progressive di Roma e all’obbedienza al volere del fato, ma alle guerre e al dramma dei profughi di ieri e di oggi. Passando per l’etica dell’ospitalità intesa come etica della prossimità universale fondata sul mutuo riconoscimento sé-altro e sul ‘doppio sguardo’, sulla continua dialettica tra luce e buio, prossimità e distanza, appartenenza ed estraneità. Ricordando, con Ricoeur, che se pure ci si scambiano i doni ma non i posti, è sempre possibile pensare a una giustizia ricostruttiva aperta alla speranza e alle sfide della diversità, considerata come elemento costitutivo e imprescindibile di ogni identità.
Tout se tient in questa voce dolce e aspra che desidera pronunciare con forza una nuova sintassi della realtà, portando la fiamma della poesia sulle cose travagliate al loro interno dall’irriducibile movimento di differimento di sé con sé. Un desiderio acceso dalla vita stessa, che gli faceva scrivere dal ‘purgatorio del mondo da noi stessi creato’: ‘Sono in giro in una chiara buia notte, / torcia in mano, illumino le cime degli alberi; / la luce smorzata quanto basta a non allarmare // più del dovuto gli uccelli appollaiati — scovo / l’ambiguità epistemologica di gufi e bocca / di rana bruni, come se la différance / fosse le mie stesse parole, frammentate come flash / e spasimi di rami, foglie, artigli, piume.’ (Canto del sogno: portare la fiamma, Divina Commedia, Viaggi attraverso una geografia regionale, Poesie scelte, Raffaelli Editore 2014, traduzione e cura di Maria Cristina Biggio, prefazione di John Alfred Scott, disegni di Urs Jaeggi, postfazione di M.C. Biggio.)
La prospettiva del Borromini e il gatto residente alla Galleria Spada
‘Il gatto diventa una tigre là dentro, e la statua così piccola.’
Valentina (all’ingresso)
Settanta centimetri o giù di lì di un guerriero romano
in fondo alle colonne e alle arcate verso un punto di fuga
di trentacinque metri in tutto che diremmo di non più
di otto, tutti quegli inganni del desiderio di avere più
di quanto si possa vedere, tutte quelle risposte all’immensità.
Arance amare squillanti come in una maturità a venire
e un gatto audace, pervaso da Dio e Sole, che si pavoneggia
in un angolo per addolcire le linee, fare della geometria
una scelta, organicamente precisa. Chiedo a Valentina
se il gatto si spinga oltre la catena che nessun
visitatore può superare, e lei si lamenta e insiste
che lui diventa una tigre mentre la statua diminuisce –-
quel piccolo guerriero in tutti noi che si mette in mostra,
la legge del più forte, una belva nella sua menzogna, il punto
focale di quegli imperi che creiamo dall’arte, che ci figuriamo
quando le truppe nemiche sono alle porte della città.
Borromini’s Perspective and the Galleria Spada’s Resident Cat
‘The cat becomes a tiger in there, and the statue becomes so small.’
Valentina (at the front desk)
Seventy centimetres or thereabouts of Roman warrior
down the columns and arches to a vanishing point
all thirty-five metres we envisage as not much more
than eight, all those tricks of desire for more
than we can see, all those answers to immensity.
Green oranges brash as ripeness to come,
and bold cat full of God and Sun preening
a corner to soften the lines, make geometry
a choice, organically precise. I ask Valentina
if he wanders further than the chain which no
visitor can pass, and she ululates and insists
he becomes tiger while the statue diminishes —
that small warrior in all of us showing off,
law of the jungle, wildcat in its lair, focal point
of those empires we make from art, envisage
when enemy troops are at the city’s gates.
Annunciazione di Filippo Lippi (1445-1450)
[Galleria Doria Pamphilj, Roma]
Ali membranose
di divina alterità
le vene il sangue
la transfusione
da Dio a Maria,
da Maria a Dio.
Filippo Lippi’s Annunciation (1445-1450)
[Galleria Doria Pamphilj, Rome]
Membranous wings
of divine otherness
the veins the blood
the transfusion
from God to Mary,
from Mary to God.
*
Keats a Roma
La barca di pietra
che l’avrebbe portato
oltre la bellezza
è ancora al suo ormeggio —
il capitano di porto attende
la documentazione —
così trova da sola la sua strada
per il mare aperto, lustra di monete,
occhi che scrutano nel cercare
di tutti noi, tirata a lucido
e fotogenica
sotto la finestra
lui guarda in basso da —
tappezzeria, mobili
e accessori d’un tratto
svaniti tutt’intorno.
E raggiunge
la barra del timone.
Keats in Rome
Stone boat
that would take him
beyond beauty
is still at its mooring —
harbour master waiting
on documentation —
so it makes its own way
to open sea fresh with coins,
eyes peering up at all
of us searching, spruced
up and photogenic
under the window
he stares down from —
wallpaper, furniture
and fittings suddenly
spirited away from
around him. He
reaches for the tiller.
*
Le armi e l’uomo (Roma).1
Ode alle lucertole delle rovine a Ostia Antica
Particelle verdi nella buia fluidità dello spazio.
Verde nel verde-nero dei mosaici, mappe di perfette
osservazioni stellari, cielo notturno illuminato dal sole.
Quale arte o peccato sulla pelle di una lucertola delle rovine?
Quale indulgenza quale schiavitù quale perdita?
Quanto sole, quanta notte eccedente?
Quale talentuosa avversione alle avance del gatto
sonnolento, all’ascesa e al declino di chi è dentro e di chi è fuori?
E oltre le strutture concrete, il tridente di Nettuno,
oltre gli animali terrestri raffigurati in mare, oltre il marmo
il fotografo 3D che si lamenta e oscura
tutto il qui e ora dell’antichità, per dare profondità
alle irraggiungibili farfalle nello splendore delle erbe
infestanti. Qualcuno teme la sindrome di Stendhal,
un altro si preoccupa delle anfore capovolte
nel baccanale, prosciugate nella celebrazione delle lucertole.
Particelle verdi nella buia fluidità dello spazio.
Verde nel verde-nero dei mosaici. Oltre il muro!
*ruin lizard: è la lucertola campestre dal dorso verde variamente macchiettato
o striato, specie protetta che vive in ambienti rocciosi, ruderi o muri a secco.
Arms and the Man (Rome).1
Ode to Ruin Lizards at Ostia Antica
Green particles in the black fluidity of space.
Green on green-black mosaics, maps of perfect
stellar observation, sun-illuminated night sky.
What art or sin is carried in a Ruin Lizard’s skin?
What indulgence what slavery what loss?
How much sun, how much night left over?
What deft-footed aversion to the sleepy cat’s
advances, the rise and fall of who’s in and who’s out?
And over the bricks and mortar, Neptune’s trident,
over the sea-embodied land animals, over marble
the 3D photographer whining and shuttering
all the here and now of ancientness, to give depth
to butterflies in the glory of weeds, just out
of reach. Someone worries about Stendhal
Syndrome, another fears amphorae upended
in carousal, drained in lizard celebration.
Green particles in the black fluidity of space.
Green on green-black mosaics. Over the wall!
*
Le armi e l’uomo (Roma). 2
‘Arma virumque cano’
Virgilio
La vivida, tormentata statua di Garibaldi
in cima al Gianicolo,
carica e spara dal suo cannone di pertinenza,
facendo infuriare il sole. Un momento cruciale?
Chissà quale demolizione
o catastrofe nel nostro essere ignari,
una nube di zolfo l’avviluppa.
Non sapremo il perché
per ore, anche se dovrebbe avere un senso.
Le campane suonano e scintillano in tutta la città.
Mendicanti a cui dai
e mendicanti a cui non dai. Un doppio sguardo.
Leggera ribellione contro il declino del giorno,
fino alla magione in Sabina.
Arms and the Man (Rome). 2
‘Arma virumque cano’
Virgil
Breathing, tormented statue of Garibaldi
on the brow of the Janiculum,
loads and fires his cannon of belonging,
ticking off the sun. A high point?
We wonder demolition
or catastrophe in our unknowing,
a cloud of sulphur enveloping.
We won’t know why
for hours, though it should add up.
Bells strike and shimmer across the city.
The beggars you give to
and the beggars you don’t. Who sees whom.
Low rise against the decline of day,
all the way to Sabine Farm.
*
Cani da caccia africani
Lo zoo esposto alla strada —
pelle lacerata, ossa sporgenti.
Ercole e Cerbero
che sbavano l’uno per l’altro.
Noi percorriamo la via nel mezzo —
un gruppo ingabbiato di cani da caccia africani
a grandi passi seppure azzoppati, occhi-irritati
sbarrati sui cani da compagnia portati a spasso
nei giardini di Villa Borghese — occhi
che ci vincono — perplessi per il guinzaglio
e per gli odori emessi da barboncini
e pit bull. E io non riesco a lasciarli andare,
non riesco a lasciarli andare neanche adesso,
custoditi al Museo Etrusco, impressi
sulle ceramiche del Pittore di Micali —
in reciproco cospetto— la vita oltre la morte,
corredi funerari per ben disporre il mondo celeste
con la forza del desiderio e del duro lavoro,
della ricerca e della punizione,
il profumo delle offerte
nell’aria mite del fine settimana,
faceva finta di non vedere.
African Hunting Dogs
Zoo exposed to street —
skin torn away, bones sticking out.
Hercules and Cerberus
salivating over each other.
We walk the road between —
a caged pack of African hunting dogs
striding yet hobbled, shot-eyes locked
onto pet dogs being walked
in Villa Borghese Gardens — eyes
vanquishing us — perplexed by leash
and odours emitted by poodles
and pit bulls. And I can’t let them go,
I can’t let go even now, ensconced
in the Etruscan Museum, fixated
on the wares of the Micali Painter —
in each other’s sights — life over death,
burial goods tilting overworld
with stress of desire and labour,
quest and punishment,
the smell of offerings
on the balmy weekend air,
stared straight through.
[Tra le voci più originali e ispirate della poesia della sua generazione, John Kinsella (1963) è autore di più di una cinquantina di volumi fra poesia, narrativa, saggistica, critica letteraria e teatro ed è stato insignito di prestigiosi premi. Extraordinary Fellow of Churchill College alla Cambridge University (Gran Bretagna), Kinsella ha insegnato anche negli Stati Uniti e ha avuto un ruolo importante nella diffusione della poesia grazie al suo lavoro nella rivista Salt, da lui fondata negli anni ’90. Kinsella svolge inoltre un’intensa attività per il quotidiano The Observer e per numerose riviste. Anarchico, vegano e pacifista, è molto impegnato nella causa ecologica. Già noto al pubblico italiano per la sua brillante rivisitazione della Divina Commedia, Kinsella, nella sua opera ormai corposa e complessamente articolata in una straordinaria gamma di tematiche, forme, registri, voci, ama arruolare diversi maestri-artisti, entrando spesso in dialogo con i loro modelli utilizzati, dichiaratamente o meno, come intertesti: Auto si ispira alla Vita Nuova di Dante, The New Arcadia all’Arcadia di Philip Sidney, The Silo: A Pastoral Symphony alla Sesta Sinfonia di Beethoven, Jam Tree Gully al Walden di Thoreau, Firebreaks (2016) dialoga con le poesie dell’esilio di Ovidio e con la Poetica dello spazio e La psicoanalisi del fuoco di Gaston Bachelard. Nel più recente On the Outskirts (2017), ispirato dai mondi naturali che circondano Tübingen in Germania, Cambridge in Inghilterra, il villaggio di Schull nel sud ovest dell’Irlanda e il Wheatbelt in Australia Occidentale, l’autore riflette sull’urgenza della protezione e della valorizzazione della vita umana e animale nel contesto ambientale. Considerando come locale e internazionale siano in costante evoluzione e metamorfosi, le sue poesie indagano la situazione dei profughi, il degrado del mondo naturale, la militarizzazione e le tensioni della violenza globale, ricordando il fallimento della memoria pubblica in rapporto agli orrori del passato e alle questioni irrisolte della storia come il nazismo in Germania e la colonizzazione irlandese e australiana. Fortemente attratto dalla poesia e dall’arte di William Blake, in particolare dalla sue illustrazioni della Divina Commedia, Kinsella evoca nei suoi testi la potente relazione tra testo scritto e testo visivo, lasciando entrare in ogni verso l’afflato di una possibile redenzione nel recupero del vero volto umano e del potere taumaturgico della natura. (mcb)]
Nota introduttiva e traduzioni inedite di Maria Cristina Biggio
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