Intervista a Luigia Sorrentino
di Vania De Luca
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Roma, 2 marzo 2017
Cominciamo con una citazione. Ti dirò dopo l’intervista di chi sono queste parole e in quale contesto sono state pronunciate. Vorrei infatti che nella risposta tu ti soffermassi solo sul loro significato.
“La poesia è piena di metafore. Comprendere le metafore aiuta a rendere il pensiero agile, intuitivo, flessibile, acuto. Chi ha immaginazione non si irrigidisce, ha il senso dell’umorismo, gode sempre della dolcezza della misericordia e della libertà interiore.”
Condividi questa affermazione?
Condivido pienamente l’affermazione. La poesia è soprattutto metafora, perché trasferisce continuamente il significato di una parola in un altro. Sempre il poeta, anche il più sperimentale, nella poesia utilizza la similitudine. Per il poeta questo esercizio è automatico, fa parte proprio del suo modo di agire, di essere, di pensare, di vedere le cose. Per lui tutto ha un significato, di là dall’apparenza delle cose, c’è almeno un’altra verità. Anche il “lapsus”, l’errore involontario, è accolto dal poeta, perché può rivelare qualcosa che in quel momento a lui è ignota. Spesso la parola precipitata sulla pagina rimanda a un’altra, nella sonorità, nella composizione delle lettere, richiama qualcosa che spezza il significato primario, ne inventa un altro e diventa oggetto di osservazione per il poeta che si chiede: “Perché ho scritto proprio questa parola?” Nel “lapsus” il poeta attende la verità e la verità, si rivelerà a lui.
Non è un caso che un poeta come Paul Celan, rumeno ebreo, esiliato a Parigi, abbia scritto la sua poesia nella lingua dei suoi aguzzini nazisti, cioè il tedesco, come testo a fronte della sua stessa vita: la patria perduta, la madre morta nella deportazione, il popolo ebraico sterminato. Questo meccanismo, insito del fare poetico, aiuta a comprendere perché il pensiero del poeta anche per denunciare un’esperienza tragica, può essere agile e intuitivo. E’ un pensiero che si lascia anche agire, che trasforma e si lascia trasformare e, pertanto, è flessibile e acuto.
Il poeta sa che un intero universo può stare in una sola parola, nello spazio stretto e nervoso, ma anche “sovversivo” del pensiero. Prendiamo a esempio la poesia “Soldati” di Ungaretti: “Si sta come/ d’autunno/sugli alberi/le foglie.” In questa poesia il poeta ci porta in un altro contesto storico rispetto a quello in cui ci aveva portati Celan: siamo nella Prima Guerra Mondiale – la poesia è infatti scritta nel bosco di Courton nel 1918 – e, oltre a riferirci il particolare momento storico vissuto dal soldato durante la guerra, rivela una condizione universale e umana. Nella poesia di Ungaretti l’uomo si trova su un territorio di confine, la trincea, in un fossato scavato per ripararsi dall’aggressione del nemico, e in quel posto in cui il corpo è confinato, l’uomo si sente in pericolo, in una situazione d’incertezza, nella più totale provvisorietà , nel proprio limite. Al margine della condizione umana, la vita del soldato oscilla fra la vita e la morte. Il poeta paragona l’uomo a una foglia d’autunno perché la condizione della vita è sempre precaria, è “come” una foglia sostenuta dal ramo dell’albero dal quale potrebbe staccarsi da un momento all’altro. L’uomo trema come una foglia agitata dal vento, teme l’autunno, una stagione di passaggio che preannunzia l’inverno, il tempo in cui la natura madre si addormenta. Quest’uomo in guerra che Ungaretti pone sul fronte, è solo con se stesso, è un esiliato fra gli esiliati, ma su quel confine è rappresentata l’intera umanità, e, al tempo stesso, il poeta per rafforzare la tragicità della condizione umana, rende dal punto di vista formale, brevissimo il componimento poetico e affida il soldato al grembo della madre – il fossato. Lo affida, cioè, a una natura terrena della quale l’uomo-foglia è metaforicamente incarnazione, e contemporaneamente lo pone in una condizione ultraterrena: consegna l’uomo al “grembo” della madre e alla misericordia di Dio. La parola grembo, infatti, in ebraico è Rachim, e ha la stessa radice della parola misericordia, Rachem, due parole connesse e complementari l’una all’altra. Quindi, in questo componimento la misericordia della madre sembra essere sostenuta dall’atto del misericordioso. La misericordia di Dio è, infatti, paragonabile alla tenerezza della madre che accoglie fra le braccia il figlio, tenendolo sul suo grembo. Ecco quindi che nella brevità e nella sintesi dei versi, Ungaretti, con una modalità “sovversiva”, parla della condizione umana e offre, a chi legge, la libertà e la possibilità di comprendere la sostanza del suo pensiero e di andare anche “oltre”, in un contesto “agile”, rapido, scattante. La poesia quindi, sempre, opera un trasferimento: “da” – “a” , e lo spostamento riguarda un significato profondo che talvolta rivela proprio in un lampo, una verità essenziale che viene consegnata al lettore.
Cos’è per te la poesia?
La poesia per me è un disperato tentativo di riparazione. Qualcuno è stato tradito, umiliato, scosso, è stato ferito gravemente e si è allontanato da noi. Quell’immagine nitida è dietro di noi, ma si è fermata nei nostri occhi. Ed è in quel preciso istante che la poesia arriva in un grumo di parole raccolte sulla pagina per porre rimedio a ciò che accaduto. E’ un tentativo ultimo, perché l’azione della poesia compie un gesto definitivo, dopo non ci saranno altre possibilità. Il poeta, quindi, cerca di riparare la realtà e, allo stesso tempo, cerca un riparo dalla realtà. In questo senso la poesia può avere una funzione salvifica. In chi la legge talvolta, può provocare un senso di spaesamento, d’inadeguatezza, perché non sempre è disponibile a confrontarsi con la nostalgia – il dolore del ritorno – che nella poesia si riflette.
Sempre la poesia cerca una relazione con l’eterno, con la lontananza da ciò che si è irrimediabilmente perduto e si è separato da noi.
La poesia non è un esercizio di stile, un mettere insieme una dietro l’altra le parole e andare a capo, ma un richiamo potente su qualcosa che chiede di essere visto, ascoltato, compreso.
La poesia è una forma, si alimenta a un ritmo, a un canto, e pone in essere una musicalità sincronica, fonetica, grammaticale, lessicale, a volte anche dissonante, in netto contrasto con l’armonia che la poesia vuole generare.
Il poeta sta sempre con la testa scoperta, in una vigilia o in uno stato di veglia, nel tempo e oltre, in un tentativo di riconciliazione o in un atto di denuncia.
Per me poi la poesia è un luogo. In quel posto preciso cerco le parole per rispondere sempre alla stessa domanda: qual è il mio posto nel mondo? Qual è il mio compito? La mia esperienza individuale m’impone di trovare le risposte a queste domande. Non sempre ci riesco e allora ritorno nello stesso posto, nello spazio silenzioso e solitario dell’ascolto, là dove all’orecchio si fa risentire una speciale vibrazione che viene dall’infanzia, un suono di culla, dolcissimo e ipnotico, e restando lì provo a sfamare la necessità di trovare le risposte alle mie domande sapendo che sono in ognuno di noi, profondamente, al punto che senza di esse la nostra esistenza non avrebbe senso.
Proseguo la citazione: La poesia “è in grado di spalancare visioni ampie anche in spazi ristretti…”
Un poeta come guarda la realtà? In altre parole, come funziona lo sguardo di un poeta?
Lo sguardo del poeta è prospettico, a volo di aquila, vede da lontano e da qualsiasi punto di osservazione si trovi; è pura intuizione: percepisce, e talvolta supera il visibile, stabilisce una relazione con l’invisibile, intuisce anche ciò che non è stato detto esplicitamente in un dialogo, ma che sta dentro le parole che non sono mai state pronunciate. In alcuni casi la sensibilità del poeta anticipa la realtà, ciò che avverrà in futuro. Per elaborare la sua percezione e per portare a termine il suo compito, il poeta si ritira in uno spazio ristretto che potrebbe essere paragonato a una cella: dentro quelle quattro mura ascolta. Il riverbero della vita reale che si sta svolgendo fuori perviene a uno stato di quiete, e proprio lì, dove tutto sembra tacere, il poeta vive l’istante dello spirito e del linguaggio. Quando Hölderlin afferma che l’uomo nella vita spirituale ripete, in un certo qual modo, la vita reale, sa di esprimere un pensiero forte, perché è consapevole di essere capace di far scaturire, nella dimensione spirituale, la forma del vivente che pulsa e che rende la realtà percettibile e, al tempo stesso, sa che può elevarla a valore universale. Una verità profonda che conduce allo spazio della poesia e cioè nel posto giusto; lo rivela anche Martin Buber ne “Il cammino dell’uomo”, quando scrive: “Santifica il posto in cui ti trovi, il posto che ti è stato affidato”.
Le notizie dei nostri tempi. Quando sfogli il giornale, guardi un tg, ascolti un giornale radio o attingi alle informazioni on line, che realtà, che mondo che umanità vedi rappresentati?
L’umanità che vedo rappresentata dai mass media non sempre mi corrisponde. Spesso è violenta, esteriore e crudele. Troppe volte i programmi televisivi cercano l’intrattenimento, la distrazione, il superfluo e non entrano in una relazione vera e autentica con il pubblico che li segue. Anche i quotidiani, sono troppo simili fra loro, trattano le stesse notizie e non approfondiscono altri argomenti, soprattutto le notizie di politica estera, tanto che dopo averne letto uno, sembra di averli letti tutti.
Per quanto riguarda internet se da un lato ha reso più rapido l’accesso alle informazioni, dall’altro ci si accorge che spesso le notizie sono trattate con superficialità, talvolta sono addirittura errate. Non sappiamo dove questo ci porterà. Il filosofo Emanuele Severino sostiene che il mondo della tecnica distruggerà l’uomo. A volte ho la sensazione che sia davvero così.
Cosa ti preoccupa del mondo di oggi?
Mi preoccupano l’ingiustizia, l’arroganza e l’ignoranza, ignoranza che non è più innocenza, come sosteneva Kierkegaard, perché oggi chi fa del male agli altri è bel consapevole della ferita che infligge all’umanità minando i principi della democrazia e i diritti fondamentali dell’uomo.
Mi preoccupa la totale mancanza di lungimiranza della politica internazionale, la sua cieca distanza dai bisogni veri della collettività.
Mi preoccupa la sete di potere, l’ambizione fine a se stessa, per il proprio personale benessere.
Mi preoccupa avere consapevolezza che intere generazioni di bambini, i piccoli siriani, ma anche quelli dell’Africa sub Sahariana, (nigeriani, etiopi, somali, sudanesi, kenioti, e tanti altri), saranno segnati per sempre dalla fame, dal dolore e dal pianto per i traumi subiti. Chi ridarà loro l’infanzia che la guerra e la violenza hanno sottratto loro per sempre?
Mi preoccupano l’indifferenza e i conflitti, che mietono migliaia di vittime innocenti e che costringono intere popolazioni a lasciare la propria terra, a strapparsi dal cuore tutto ciò che dà loro dignità umana: casa, istruzione, identità.
Mi preoccupa il terrorismo internazionale, che utilizza (anche) i proventi delle migrazioni per fare i propri interessi economici.
Mi preoccupa la mancanza di cultura, là dove per “cultura” intendo “coltura”, “il coltivare l’orto”, cioè principi e valori democratici validi per tutti, allo stesso tempo e nello stesso tempo.
Credo che la verità sarà sempre più irraggiungibile e la violenza e la separazione tra i popoli, si farà sentire sempre di più, come la mancanza di dialogo, che creerà sempre più paura del futuro.
Cosa ti incuriosisce?
L’invenzione artistica. Perché nell’arte si scopre la creazione umana. E’ lì che troviamo l’impronta lasciata da una forma perduta.
Mi è capitato di rivedere recentemente a Napoli le Sette opere di Misericordia di Caravaggio. E’ al cospetto di opere di bellezza assoluta che si ha la testimonianza che l’uomo ha avuto il privilegio di un tempo e di una vita diversa. Quella di Caravaggio è un’opera poetica, perché per la prima volta rappresenta il popolo napoletano rendendolo sacro, e la stessa cosa, secoli dopo, farà Gemito, mostrandoci nei suoi disegni, nelle sculture, un’umanità emarginata: la solitudine dei volti dei bambini nei vicoli di Napoli. Eppure, quando mi trovo di fronte alla bellezza e alla tragicità della bellezza realizzata da un manufatto artistico, scopro che la chiave per aprire l’immagine che ho davanti è sempre la parola che privilegio in assoluto, perché essa serve, appunto, a decifrare il codice della creazione e a trasferirlo ad altri. Purtroppo l’epoca in cui viviamo non asseconda la parola, anzi, sembra essere il prodotto di una scissione, di una decadenza, e proprio in questa frattura si inserisce la poesia, l’unica arte che può richiamare nella parola pronunciata, la nostalgia di un tempo perduto.
Intravedi dei segni di speranza? Quali?
Il segno di speranza arriva da chi è impegnato con la propria presenza, nella propria individuale crescita consapevole con serietà e determinazione. Solo dopo questo lavoro fatto su di sé, ci si potrà mettere in relazione agli altri, completamente rinnovati.
Penso con speranza ai ragazzi, quelli che crescono con dei valori che i grandi gli hanno trasmesso perché il nostro futuro è nelle loro mani.
Penso agli operatori sociali, costantemente impegnati con famiglie in difficoltà, ammalati, bambini soli e anziani, e affido l’umanità a tutte le persone che hanno imparato che la rinuncia è un valore, non una debolezza. La speranza per me sono le persone che ci sono davvero, quelle persone che sono pronte al dialogo, al confronto, allo scambio di idee e di cultura, sono una grande forza, un collante fra i popoli. La mia speranza è che il mondo riacquisti i principi etici, essenziali della vita, li riconosca, anche con il progresso.
C’è una “buona notizia” che ti ha colpita, di recente?
Il più grande sistema planetario mai scoperto prima con tanti possibili ‘sosia’ della Terra a 39 anni luce dal nostro pianeta. Altri mondi, potrebbero avere acqua liquida in superficie e forse le condizioni per ospitare la vita. Una scoperta straordinaria che mi ha dato gioia perché mi ha confermato la meraviglia della vita, e mi ha fatto porre la stessa domanda che mi pongo da quando sono un essere pensante: “Chi ha creato e continua a creare tutta questa bellezza?”
Ogni poeta è frutto del suo tempo ma è anche un po’ fuori del tempo. Tu come vivi questo tuo, nostro tempo? Ci sono tempi più o meno propizi per la poesia?
Il poeta fissa il proprio sguardo a lungo, tutta la vita, su una divinità: il tempo, intendendo per tempo la propria epoca, ma anche il breve spazio temporale nel quale si concluderà l’esperienza individuale. La parola della poesia entra in continua relazione con il proprio tempo, ma anche con la ricerca dell’assoluto. Il paradosso del quale diventa preda il poeta, è però imponderabile, indefinibile, perché non si sa dove lo condurrà. Per questo talvolta ci appare che il poeta abbandoni il proprio tempo impegnato com’è nella ricerca, nella relazione e nel dialogo con l’eterno. E in questa inquietudine, quella di avvicinarsi alla tensione delle cose ultime, definitive, il poeta costruisce la sua opera facendo vibrare la parola un attimo prima di spezzarsi.
Il poeta risponde a una chiamata, a una vocazione, e può, come Giovanna d’Arco, far operare in sé l’eredità sciamanica della poesia che diventa sacra scrittura. E se da un lato il poeta si concentra sulla forma della poesia, il ritmo del suo cuore ci trasmette la pulsazione del tempo nel quale egli vive: un luogo estremo, collocato al confine del possibile, del visibile. Certo, poi il tempo in cui viviamo può essere più, o meno propizio per la poesia, ma sappiamo che anche quando i poeti sono stati perseguitati o rinchiusi nei gulag come è successo a Mandel’štam la ribellione a ogni sopruso può arrivare proprio della poesia, scritta su piccoli pezzi di carta, nascosta, imparata a memoria e poi distrutta, per non lasciare al carnefice la possibilità di distruggere la libertà del pensiero.
Il poeta e le parole. Mi ha sempre incuriosita questa relazione… cosa pensi dello stato di salute della nostra lingua? Quella da cui può nascere (o no) la poesia?
Dante che è stato il più “sovversivo” dei nostri poeti, ci ha insegnato che la poesia può totalmente invertire l’andamento del linguaggio e sostituire la lingua colta, quella parlata da uomini e donne di potere, con la lingua parlata dal popolo. E’ Dante che ha fatto nascere la nostra meravigliosa lingua, il volgare, cioè l’italiano, che un tempo era la parlato soltanto dal popolo. Dopo Dante, però, nessun poeta ha potuto invertire la rotta, anche perché questo capovolgimento non è stato necessario. Non c’è oggi una vera differenza tra la lingua dei potenti e quella del popolo. Questa considerazione però non nega che in fondo i poeti sono ancora i veri comunicatori, innovatori della lingua. Oggi i narratori e i prosatori utilizzano prevalentemente la lingua della poesia per raggiungere la sintesi del pensiero. Molti grandi romanzi di oggi sono nati dall’impeto della lingua dei poeti viventi, ovviamente di quelli che usano un linguaggio contemporaneo e non aulico. Le tendenze della poesia giovane stanno facendo poi registrare un ritorno al linguaggio lirico cioè a una lingua alta, metafisica, perché il cosiddetto “parlato” è molto “basso” anche in conseguenza del fatto che si è notevolmente ridotto il livello culturale nel nostro paese.
E il linguaggio quotidiano, quello usato da giornalisti e comunicatori?
I giornalisti e i comunicatori in generale devono tornare a personalizzare la lingua come facevano un tempo, anche quelli della carta stampata i cui articoli sono spesso riportati sui siti internet. Sarebbe necessario cioè uscire da un linguaggio volgare o stereotipato, dall’inseguimento pedissequo della notizia sensazionale, e, ogni tanto, scrivere o raccontare le notizie che altri non danno, veicolarle con una lingua coraggiosa, capace di catturare l’attenzione del lettore o del telespettatore più “testardo”, senza mai separarsi dalla responsabilità e dall’attenzione, qualità essenziali di un buon comunicatore. Salvaguardare la nostra lingua poi è un dovere, non bisognerebbe lasciarsi sopraffare dalle interferenze che impone, ad esempio, la lingua inglese.
La parola poetica regala i significati che affiorano nelle rime, nel ritmo, nel timbro… Ha ancora un senso la rima poeta – profeta?
Io credo di sì. La lingua della poesia è profetica, ma so che non tutti i poeti la pensano alla stessa maniera. Il poeta che si affida alla tradizione corrisponde a una figura messianica e quindi è molto probabile che anche inconsapevolmente utilizzi nella sua poesia un linguaggio sacro nel ritmo o nel timbro della parola. La lingua sacra, che oggi sentiamo parlare soltanto nei riti e nelle formule della religione, conserva una verità misteriosa, enigmatica, operante e attiva. La parola sacra, inoltre, non è meramente logica, perché non è determinata da un significato unilaterale, ma conserva qualcosa di infinitamente più ampio, prezioso e importante. Chi fa il sacro, ad esempio il Pontefice, apre uno spazio vero, vitale, che entra in contatto con noi, con quello che stiamo vivendo qui e ora, e al tempo stesso compie un’azione pura, liberatrice e creatrice con cui la poesia conserverà sempre una certa parentela.
Secondo te poeti si nasce o si diventa? Quando contano educazione e formazione?
Poeta si nasce. Però è necessario coltivare il talento, perché se no si spegne. Bisogna provare e riprovare, non farsi scoraggiare, proseguire in un cammino difficile, talvolta dolorosissimo, che però alla fine, ci farà sentire a posto con la nostra coscienza, perché avremo fatto tutto il possibile per entrare in dialogo con l’umano, anche se abbiamo dovuto percorrere un territorio di confine, di esilio, abbiamo sostato là dove il vero volto dell’uno si è trovato di fronte al vero volto dell’altro.
Tu sei stata invitata in una scuola anche quest’anno nel corso della manifestazione Ritratti di Poesia, per l’incontro che ha per titolo “Caro poeta”. Che esperienza è? I ragazzi come ti accolgono? sono lontani dalla poesia o partecipano?
Quando gli insegnanti mi invitano nelle classi a parlare della mia poesia chiedo loro di confinare in un angolo dell’aula i banchi e la cattedra. Poi, dispongo i ragazzi nel luogo della parola della poesia, e cioè li colloco in uno spazio circolare. Il mio posto è accanto a loro. Il mio insegnamento consiste nel far vivere ai più giovani la poesia come un’esperienza “fisica” e questo a loro piace moltissimo.
Anche quest’anno, come nei precedenti, le mie lezioni si sono basate su un metodo già sperimentato in diversi istituti scolastici, che si concentra su alcuni passaggi essenziali che qui provo a riassumere: stare insieme ognuno al proprio posto; collocarsi nello spazio a una certa distanza l’uno dall’altro, cercare il proprio luogo, considerare il proprio tempo, entrare nel ritmo collettivo della parola.
Il “gioco” si fonda sullo scambio della parola e su elementi come l’iterazione, senza stare a cercare lì per lì, il significato vero, il senso delle parole, per entrare in quello che si può definire in diversi modi: un esercitare la memoria come primo approccio alla poesia, ma anche un dire, pronunciare la parola, per la prima volta come un dono da esprimere e da porgere ai compagni. In realtà quella che adotto è proprio una tecnica collettiva di approccio alla lettura e alla scrittura della poesia.
Il movimento avviene in uno spazio circolare, e ci mette in una condizione di comunicazione profonda della parola della poesia perché siamo l’uno di fronte all’altro. Il gesto di “passarsi la parola” equivale a scambiarsi un dono e, allo stesso tempo, cioè contemporaneamente, ma anche nello stesso tempo, cioè nello stesso momento. E’ cioè qualcosa che accade, e di cui tutti insieme siamo testimoni. La scintilla della poesia si compie lì, in un luogo intimo e protetto nel quale ci troviamo in quel preciso istante. Ogni poesia che poi leggeremo insieme, manterrà quel movimento “fisico” della parola, ripeterà, nell’azione della volontà e dell’emozione, la disposizione e la pienezza di quel suono che è nato in mezzo a noi.
E’ questa un’attività che piace molto ai ragazzi, della quale sono fiera, perché nasce un affetto, ma anche i ragazzi si sentono stimolati a osservarsi, ad considerare l’altro, il luogo in cui l’altro si trova, e aiuta a individuare, se c’è, il loro talento nella scrittura.
Nell’uso di parole e immagini quale suggerimento daresti a dei giornalisti comunicatori?
Di fronte a notizie e a immagini terribili, di morte e di violenza, suggerirei di lasciare trasparire anche parole d’indignazione, oppure tacere del tutto; e, se posso dirlo, anche le proprie emozioni, una sana e vera emozione. Perché l’automatismo e la freddezza mediante i quali spesso i giornalisti o i comunicatori raccontano efferati crimini, trasmettono indifferenza, un male contagioso per l’umanità, perché ci colloca in una realtà anestetizzata, alla quale ci siamo abituati, assuefatti.
“Ho amato molti autori diversi fra loro. Amo moltissimo Dostoevskij e Hölderlin. Di Hölderlin voglio ricordare quella lirica per il compleanno di sua nonna che è di grande bellezza e che a me ha fatto anche tanto bene spiritualmente. E’ quella che si chiude con il verso: “che l’uomo mantenga quel che il fanciullo ha promesso.” Mi ha colpito perché ho molto amato mia nonna Rosa, e lì Holderlin accosta sua nonna a Maria che ha generato Gesù, che per lui è l’amico della terra che non ha considerato straniero nessuno”.
Sì, ringrazio per avermi ricordato le importanti parole di Papa Francesco in riferimento a Hölderlin.
Qualunque poesia si legga di questo grandissimo autore che non è solo poeta, ma anche filosofo e teologo, si sente il pulsare di una vita scossa da un’esperienza eccezionale. Si può dire che solo dopo Hölderlin il poeta sia davvero diventato un tramite fra Dio e l’umano. E’ lui, che ha messo, più di ogni altro poeta, al centro di tutto il suo discorso poetico, la condizione umana nel tentativo di porre o colmare la distanza tra l’umanità e Dio.
Mario Benedetti nella postfazione al mio poema “Olimpia”, (Interlinea, 2013) afferma: “Si potrebbe iniziare a parlare di ‘Olimpia’ riportando alcune frasi di Romano Guardini a proposito della poesia di Hölderlin […] autore qui di imprescindibile riferimento. […]“Nel poema della Sorrentino lo sguardo sulle cose avviene da una lontananza, riprendendo la frase di Romano Guardini nella quale “l’uomo vive al di fuori di sé […] nell’altra grande vita”.
Certamente non posso paragonare la mia poesia a quella grandissima e irraggiungibile di Hölderlin, ma posso riconoscere che con “Olimpia” ho provato a decifrare l’influenza che ha esercitato su di me questo grande poeta a distanza di molti anni, ed è per questo che ho ripreso in esergo a “Olimpia” quello che lui aveva scritto in esergo a “Iperione, o l’eremita in Grecia”, (Hyperion, oder der Eremit in Griechenland) citando Ignazio di Loyola: “Non essere limitato da ciò che è grande, /essere contenuto da ciò che è minimo, /questo è divino”, che in latino è: “Non coerceri maximo,/ contineri minimo,/ divinum est.”
Ho letto per la prima volta Hölderlin che ero giovanissima a Milano con il poeta Milo De Angelis nella traduzione di Marta Bertamini e Fulvio Ferrari (Guanda, 1981), e quella prima lettura è stata proprio “Iperione”. E da allora, ho sempre cercato di capire che cosa realmente mi avesse attirato di questo grandissimo autore, senza mai davvero comprenderlo fino in fondo anche perché non solo siamo distanti come epoca, ma anche la nostra lingua è distante. L’incontro con Friedrich Hölderlin è stato tanto importante quanto quello con le “Elegie duinesi” di Rainer Maria Rilke. Per avvicinarmi alle liriche di Hölderlin ho letto varie traduzioni, quella di Giorgio Vigolo, Giuseppe Bevilacqua, Stefano Mandruzzato, e più recentemente di Luigi Reitani. Tra queste c’è la poesia intitolata “Alla mia veneranda nonna (per il suo settantaduesimo compleanno)”. E’ una poesia che Hölderlin scrive su richiesta della madre, ma che colpisce profondamente il lettore (la stessa poesia aveva colpito fortemente anche un altro grande poeta italiano, Andrea Zanzotto che aveva avuto un rapporto di amore con le sue due nonne). Sempre i grandi poeti che scegliamo e che leggiamo e rileggiamo nelle diverse traduzioni operate negli anni da altri valorosi uomini, sono quelli che ci accompagneranno per tutta la vita, anche se anche della loro opera ci è rimasto in mente solo un frammento, quel piccolo che è nel grande, ha influenzato tutta la nostra vita artistica.
Comprendo Papa Francesco che dice che proprio quella lirica di Hölderlin gli ha fatto tanto bene anche spiritualmente.
Ma cosa vuol dire il verso conclusivo della poesia quello che qui ci colpisce particolarmente: “possa l’uomo mantenere quel che il fanciullo ha promesso”?
Papa Francesco vuole costruire questo ponte, secondo me, questo messaggio desidera che giunga a noi: possa il fanciullo da adulto, mantenere ciò che ha promesso nell’infanzia, cioè la meraviglia di fronte alla scoperta del mondo, la dolcezza della scoperta, della tenerezza che arriva da una carezza sul suo capo… quella carezza che dà al fanciullo la sensazione di appartenere alla serenità del mondo, alla scoperta del mondo, attraverso il battito delle ciglia che vedono qualcosa che non avevano mai visto prima, le labbra che si schiudono di fronte allo straordinario disegno della Natura. Il fanciullo sta crescendo in quegli attimi di misericordia, di meraviglia, e, proprio in quella fase della sua esistenza avviene la promessa, cioè lui crede che anche quando sarà adulto, continuerà a vedere il mondo con gli stessi occhi del bambino, continuerà a meravigliarsi della bellezza della vita fino alla fine. Il fanciullo, che tocca, vede e scopre ogni giorno qualcosa di nuovo mette il quel gesto, la promessa della venuta, dell’essere al mondo. Egli nella fanciullezza è sulle orme del sublime, della gioia, senza mai essere o sentirsi straniero del mondo che sta scoprendo. Se si è stati amici della terra, non ci saranno mai stranieri, tutti potranno essere accolti e ben voluti nella misericordia di Dio.
Nota* Vania De Luca fa riferimento alle parole pronunciate da Papa Francesco il 9 febbraio 2017 quando ha ricevuto in udienza La Comunità de La civiltà cattolica.