di Eleonora Rimolo
Ciò che Domenico Cipriano intende ricercare, all’interno del percorso del suo nuovo libro, L’ origine, non è semplicemente il principio di tutte le cose: l’autore, infatti, sa perfettamente che questo è inconoscibile, irraggiungibile. È il primo testo ad indicarci una preliminare possibilità: “Io sono/tutte le terre che ho visitato […] e sono tanti i segni sul mio corpo”. È quindi nel proprio passato, nella ricostruzione dei luoghi e delle proprie esperienze emotive, che va cercato il senso originario; è à rebours che bisogna procedere per quella necessità spasmodica di ripercorrere le tappe di un viaggio antico, odissiaco, che ci condurrà infine ad “un intimo inizio” – come da titolo della prima sezione. Ogni tappa di questa ricerca tutta interiore ma nello stesso tempo completamente proiettata verso l’esterno e le sue “soste” (“cercando altre soste/oltre la memoria conosciuta/dove un’origine smarrita ci appartiene”) si rivela atto fondativo della poesia dell’autore, il quale nella sua estrema onestà e nella sua totale apertura verso l’Altro ci avverte che “assumiamo il profilo della terra incolta/se non ricominciamo”. Il poeta, che è anche e prima di tutto l’uomo che sente di dover fare un bilancio, di dover scavare fino alle proprie radici – come l’Ulisse de L’ultimo viaggio di Pascoli – viene attanagliato dall’angoscia di esserci stato fino a quel momento senza alcuna ragione determinata, dopo aver preso freddamente atto della propria piccolezza al cospetto dell’infinità del cosmo. E così i versi si avvicinano ai dettagli, li raccontano, li indagano, rimestando nella cenere dopo che le braci si sono consumate: “Un dettaglio marginale – sepolto o inaccessibile -/che compensa l’angoscia/la distanza sconfinata dalle stelle”.
Lo scontro tra aridità del reale e possibilità del pensiero produce testi di intensa tenuta lirica ma nello stesso tempo di tenace presa narrativa: “è tutto reale/nulla da consegnare alla surreale immagine del pensiero”. Cipriano non riesce, nemmeno nei particolari che tanto rapiscono la sua attenzione e che sono così ben descritti, a individuare un aspetto della realtà che soddisfi la sete di alterità e di trascendenza che immalinconisce il suo animo inquieto, a cui si contrappone spesso la ragione, nemica indiscussa di qualunque astrazione. È per questo che il poeta alterna momenti del passato, immagini del suo paesaggio e personaggi più o meno conosciuti delle sue scene cittadine, a riflessioni intime che penetrano nell’interiorità dell’inconscio: “e il ricordo è un resoconto porcellanato/da presentare agli ospiti/insieme a un passato camuffato/con impressioni araldiche./È questa la strada (ripercorsa negli anni/dalle gambe storte dei vecchi)”. Man mano che si avanza nella lettura ci si rende conto che probabilmente è proprio questo continuo incontro tra pulsione di conoscenza e lento scorrere del tempo inerme la chiave per ricongiungersi con l’origine di se stessi e del proprio Essere: “ma voglio credere/che restare attaccati ai gesti di un rituale/sia parte di una vita,/infallibile ma onesta, tra gli odori sfuggiti alla cucina.” Il sussurrato chiacchiericcio della vita, in cui siamo immersi senza averlo chiesto e da cui ci allontaneremo senza volerlo, ci suggerisce che l’origine è in fondo comune per tutti ed è perfino immutabile: nascere dall’amore e rimanere vivi in suo nome, accettando tutto quanto ci tormenterà spingendoci sull’orlo di una disperata incoscienza (“Si accetta la vita ricevendo il latte/e il gesto si rinnova coi pellegrini di ogni tempo/oggi con altri volti/ma con stessi tormenti e stenti di resurrezione”). La raccolta di Domenico Cipriano si chiude con questa dolce corrispondenza dei versi alla propria visione, che si è fatta più nitida e più sincera dopo questo cammino lungo i tortuosi sentieri del proprio Io: ciò che in definitiva, tra sogno e risveglio dal sogno, restituisce il senso alla propria origine e ricuce la frattura, è specchiarsi nel volto di chi amiamo, custodendolo e proteggendolo, innamorandosi allo stesso tempo ogni giorno della possibilità della perdita, affinché pure da essa possa nascere una nuova identità e generarsi un’altra verità (“Ritrovarci negli occhi di chi abbandona le radici/le mura della casa/ci ripaga dalle sconfitte accumulate”).
È per rinascere che siamo nati.
(P. Neruda)
Io sono
tutte le terre che ho visitato
anche se da una sola
ho preso vita.
Lì
è rimasta ferma una ferita
per ogni passo
trascinato stanco
per ogni sguardo
che non mi riconosce.
E sono tanti i segni sul mio corpo
che ha tracciato la poesia
di chi
non ha più un luogo
e chiede asilo.
*
Si accetta la vita ricevendo il latte
e il gesto si rinnova coi pellegrini di ogni tempo
oggi con altri volti
ma con stessi tormenti e stenti di resurrezione.
Non si scordano le rose
a essere distanti giorni dalla propria lingua
se la gente accoglie ripara e nutre.
Tutte le forme e i colori
hanno valore. Il bianco che scorre dal seno nudo
mostra che non c’è vergogna e clamore nell’eternità.
Di ogni gesto di delicatezza o gemito
scegliamo la grazia per ricondurci al mondo.
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Da “L’Origine” di Mimmo Cipriano (L’Arcolaio, 2017)