Giosuè Carducci

di Fabio Izzo

Giosuè Alessandro Giuseppe Carducci (Valdicastello di Pietrasanta, 27 luglio 1835 – Bologna, 16 febbraio 1907) è stato un poeta, scrittore, critico letterario e accademico italiano. Fu il primo italiano a vincere il Premio Nobel per la letteratura. Il 10 ottobre 1906 l’Accademia svedese assegnò il Premio con la seguente motivazione: “non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche, ma su tutto un tributo all’energia creativa, alla purezza dello stile ed alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica”.

Siamo a Firenze, per la precisione nel 1863, quando Carducci, in una nottata insonne, compone una poesia da lui definita «chitarronata», cioè non riuscita nello stile piena di verità. “L’Italia col tempo dovrebbe innalzarmi una statua, pel merito civile dell’aver sacrificato la mia coscienza d’artista al desiderio di risvegliar qualcuno o qualcosa… perché allora io fu un gran vigliacco dell’arte», scriverà anni dopo. L’inno nella prima stesura del 1863 fu inviato da Carducci, insieme al seguente commento, a Giuseppe Chiarini:
“È inutile che io avverta aver compreso nel nome di Satana tutto ciò che di nobile e bello e grande hanno scomunicato gli ascetici e i preti con la formola “Vade retro Satana”; cioè la disputa dell’uomo, la resistenza all’autorità e alla forza, la materia e la forma degnamente nobilitate. È inutile che io segni al tuo giudizio le molte strofe tirate giù alla meglio per finire: nelle quali è il concetto dilavato ma non la forma. Bisogna tornarci su, su questa poesia, e con molta attenzione. Ma non ostante mi pare che pel concetto e pel movimento lirico, io possa contentarmene. Pigliala adesso com’è […] Dopo letto ricorda che è il lavoro di una notte.”

Giosuè Carducci nel suo componimento satanico, sorta di ode alla ragione, afferma che questa è madre del progresso e il treno, a suo dire, ne è l’emblema. Satana stesso è per il poeta la ragione collettiva del genere umano. Ovviamente oggi ci troviamo ad esprimere più riserve sull’uso di queste immagini simboliche, il treno per l’appunto, visto che viviamo nell’epoca dei collegamenti virtuali e tutto sembra essere velocemente a portata di click, ma dobbiamo tenere bene a mente che Carducci usava un simbolo meccanico con la stessa logica del progresso e che la poesia è una forma d’arte che adatta l’uomo a se stessa. Ne è ulteriore esempio l’immagine finale del film “Non Ci resta che piangere” dove Troisi e Benigni regalano l’invenzione del treno al genio italico per eccellenza, Leonardo da Vinci. Oggi abbiamo accantonato la macchina a vapore del Carducci, non perché noi stessi non amiamo le app, internet, i voli low cost, ma perché è proprio la tendenza del nuovo gusto che ci fa trovare inutile tutte le ammirazioni. Oggi giorno criticare appare molto più intellettuale che apprezzare.

“Un bello e orribile
mostro si sferra
corre gli oceani
come la terra

Come di turbine
l’alito si spande
ei passa o popoli
Satana il grande

Salute o Satana
o ribellione
o forza vindice
della ragione”

Nel secondo decennio dell’unità italiana Carducci appare decisamente più spietato, infatti nei suoi Gambi ed Epodi, troviamo invettive liriche violente, così la fiducia nel futuro delle macchine e nel progresso lascia il posto al disprezzo per il potere che gli industriali sono riusciti a raccogliere nelle loro mani. L’industrialismo italiano dell’epoca e gretto e poco audace e Carducci non può che riflettere lo stato d’animo dell’epoca. La critica carducciana non è però diretta all’egoismo degli industriali ma cerca di puntare il dito contro “quel che sarà in un momento incerto, è un richiamo alle responsabilità in un contesto storico che vede l’unità sociale e politica della nazione minacciata.

“Ma i cavalier d’industria
che a la città di Gracco
trasser le pance nitide
e l’inclita viltà
dicon- se il tempo brontola,
finiam d’empire il sacco
poi venga anche il diluvio,
sarà quel che sarà”

Secondo Gramsci l’Italia moderna è stata caratterizzata dal volontariato ma occorre notare che il volontariato, anche con i suoi meriti storici, che non possono essere diminuiti, è stato un surrogato dell’intervento popolare e in questo senso è stata una soluzione di compromesso con la passività delle masse nazionali. Carducci criticando gli industriali si rivolge al volontariato borghese di tipo gramsciano. Paragona così le sorti del proletariato a quelle dei Mille di Garibaldi, esclusi dalla vita della nazione e guardati sempre con sospetto dalle classi dirigenti di turno. Il poeta, futuro nobel, ricorre all’invettiva per indicare i principali difetti della letteratura. A suo dire il letterato si fa troppo protettore dei cavalieri d’industria

“Segui l’arte che l’ali erge e dilata
A più sublimi sfere:
Lungi le Muse dalla barricata,
le Grazie Petroliere!”

Ma se da una parte abbiamo la cecità degli scrittori, specie di servitori ferventi dell’opinione dominante, dall’altra abbiamo gli scapigliati che si concentrano sugli aspetti peggiori della società, illudendosi di poter fare gli interessi degli ultimi, cercando di combattere l’ingiustizia sociale. Carducci non risparmierà nemmeno loro e questa sua critica preparerà il terreno al verismo. In questo momento storico la letteratura comincia a diventare merce, purtroppo merce di cattiva qualità, priva anche di potere propagandistico, diventando così semplice intrattenimento. Questo tipo di mercificazione è da intendere con la riduzione di un prodotto intellettuale allo status di oggetto di consumo. Un oggetto di consumo che viene imposto al pubblico degli acquirenti in base alla sua eccentricità, da qui la nascita e il continuo sfornare di titoli “balenghi”,ed è preferibile che il libro da consumare sia qualcosa in grado di soddisfare i desideri più reconditi degli acquirenti a cui è destinato senza però aggiungere alcuna ulteriore conoscenza o desiderio di conoscenza. Quando Carducci finisce con l’ironizzare sulla mancata partecipazione dei letterati alle questioni che essi stessi hanno posto, il poeta ha ben presente quanto la democrazia borghese poteva fare e non ha fatto. Il giovane Carducci non chiede una penetrazione nel vivo delle imperanti questioni sociali ma vuole partecipazione attiva del letterato al volontariato storico

Arriviamo così al Ca Ira , componenti poetici additati all’epoca come atti di terrorismo letterario. Nel 1883 Carducci risponderà a queste spietate critiche dicendo che in Italia tutto sta crollando, l’economia, la vita politica, gli ideali e gli uomini di governo si preoccupano dei toni rivoluzionari dei suoi sonetti, componimenti che hanno solo l’ambizione di ripristinare quegli ideali che le cariche politiche con la loro superficialità stanno distruggendo:
“A me la dittatura non par mica abominevole come le porte dell’inferno; ma la vorrei dei giusti e dei forti, e di tali non ne vien su dal detrito delle rivoluzioni sociali, dopo che l’odio ha fornicato con la cupidigia. A questa nazione , giovine di ieri e vecchia di secoli, manca del tutto l’idealità: la religione cioè delle tradizioni patrie e la serena e non timida coscienza della missione propria nella storia e nella civiltà, religione e coscienza che sole affidano al popolo e all’avvenire…
L’idealità di una nazione, la religione cioè della patria, ha per fondamento, per focolare alimentatore, una o più realtà: ciò sono una graduale trasformazione e ascensione delle classi inferiori verso il meglio; un’aristocrazia almeno del pensiero, della scienza e dell’arte , in una cultura superiore di genio altamente nazionale. Ora che fecero di questo e per questo i governanti italiani? La plebe, dove non indifferente o brutalmente inconsapevole, è malcontenta e nemica; aristocrazia non ce n’è di veruna guissa; la cultura e la letteratura vendono immagine della borghesia che le impartisce e le subisce, e nella copia delle scuole farraginose e della produzione effimere danno argomento di paura, non pure per il difetto e la nullità del pensiero ma per la negazione assoluta d’ogni pensiero: gente, direste, che sente e funziona, non sente!

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