George Oppen, “il poeta sottile”

George Oppen

di Brunella Antomarini

George Oppen (1908-1984), una delle personalità poetiche più originali, complesse della poesia americana e in attesa di un pieno riconoscimento, pubblica il suo primo libro nel 1934, Discrete Series (con l’introduzione di Ezra Pound) e con i poeti Louis Zukofsky, Charles Reznikoff e Carl Rakosi, lancia la casa editrice The Objectivist Press e il gruppo ‘oggettivista’, a cui aderirà anche William Carlos Williams. Dopo essersi arruolato nell’esercito e dopo la guerra, vive a Brooklyn, dove lavora come carpentiere e si trasferisce poi in Messico nel 1952, per sfuggire al maccartismo. Pubblica, dopo un’interruzione di 24 anni, The Materials (1962), seguito da This in Which (1965) e il poema Of Being Numerous (1969), con il quale vince il Premio Pulitzer.

Nel 1967 Oppen si trasferisce a San Francisco dove pubblica Seascape: Needle’s Eye (1972) e The Collected Poems of George Oppen, 1929-1975 (1975). Mentre lavora al suo ultimo libro, Primitive (1978), muore, nel 1984, per le complicazioni della malattia dell’Alzheimer. Con questo suo ultimo libro riceve la dovuta attenzione come poeta sperimentatore di un linguaggio che non cede a nessuna retorica e ispiratore delle generazioni successive, punto di riferimento per giovani poeti di ogni lingua e paese.


Ora l’edizione di Emilio Mazzoli (Modena) Naufragio del singolare, che presenta con testo a fronte due raccolte: I materiali e Questo in cui, riconosce l’importanza di questo poeta con un libro curato da Brunella Antomarini e Paul Vangelisti, con la traduzione di Pietro Traversa e disegni di Alex Katz (inediti e fatti di proposito per questo libro).

Paul Vangelisti, poeta americano che si riconosce come discepolo di Oppen, dà un’immagine viva della sua personalità.

Dalla Prefazione di Paul Vangelisti

Parlando subito di originalità, Pound distingueva “i giovani che hanno veramente appreso i procedimenti dei loro predecessori e che cercano di usare al meglio strumenti esistenti, o di inventarne di nuovi, e quelli che semplicemente si mascherano di vesti moderne.” Poi si rivolge all’opera del giovane poeta: “Rendo onore ad un vero artigiano, la cui sensibilità non è da tutti e che non è mai uscita da nessun altro libro.”

E vidi la pioggia cadere, più lentamente in lontananza
La strada libera da dov’era lei di là dal vetro della finestra –
Del mondo, spazzato dalle intemperie e con cui si condivide un secolo.

Durante il nostro incontro di quell’estate Oppen parlava di diverse cose; più che altro dei filosofi preferiti, un po’ di politica, (come per esempio il nostro condiviso disgusto per i Kennedy e per il loro Partito Democratico) e, ovviamente, del vecchio Ez, dato che stavo scrivendo la mia tesi su di lui. Quando gli chiesi sull’antisemitismo di Pound, Oppen disse che non era mai evidente, se si pensa anche che, ad eccezione di James Laughlin, per lo più i giovani americani che aveva come “discepoli” (termine di Oppen) erano ebrei, e stranamente ebrei di sinistra. Disse che l’unica volta che aveva parlato apertamente con lo zio Ez fu quando si incontrarono la prima volta a Rapallo. Passeggiavano lungo il porto e Pound, che indossava un mantello e un grande cappello floscio, era seguito da gatti randagi in processione (Pound aveva delle briciole nelle tasche per loro) e poco dietro c’erano George e Mary Oppen. Pound si fermò per una disquisizione storica e disse puntando drammaticamente il dito: “E da lì vennero i Fenici”. Il giovane George, sempre preciso, enavigatore di lunga esperienza, intervenne prima che Mary potesse cambiare argomento, facendo notare che in realtà Cartagine era in un’altra direzione. Pound li guardò entrambi, si avvolse nel mantello con uno svolazzo e disse, “Non importa”. [Riportando il racconto di Oppen, John McBride ricorda che bisognerebbe capire a quale delle due direzioni, sud o ovest, stesse puntando Oppen: Cartagine è a sud di Rapallo, mentre la Spagna, dalla quale vennero Annibale & Co. rimane più o meno a ovest. Forse Pound non si sbagliava, come poteva invece sembrare].

Secondo l’analisi di Brunella Antomarini, Oppen è per eccellenza il poeta del XXI secolo, proprio perché prende le distanze dal suo tempo.
Ma è proprio quella distanza che lo rende partecipe più del XXI secolo che del suo tempo: oggi, nel tempo di un’altra transizione – che è appunto sottile, tacita, verso una destinazione incognita perché ci veniamo sospinti, tutti, globalmente e che riguarda modo di vivere, di pensare e di comunicare – ora alla lezione di Oppen si deve riconoscere un senso fondamentale e per questo va tradotto perché questo senso venga riconosciuto anche in Italia. Tradurlo non è infatti solo un’occasione di accessibilità, ma anche una sfida alla lingua sofisticata e tutta proiettata nel passato, come la nostra, da parte di una lingua pragmatica, essenziale, portata da Open alle estreme conseguenze della sua analiticità.

E infatti i suoi testi analizzano minimi dettagli del reale, lo scompongono matematicamente – o pittoricamente, come un Cézanne o un Picasso della parola – nel minimo dicibile. Se c’è un’emancipazione qui, è da molte retoriche: della parola espressiva, di quella concettuale, ma anche di quella auto-referenziale. La retorica qui è un metodo costante e coerentissimo: ogni sostantivo viene liberato dal verbo che lo sostiene ediventa un’apparizione dei suoi dettagli. Una poetica minimalista e che immaginiamo richieda un tempo molto lento di ricerca, cioè di ricerca delle parole da scartare – quando sono troppo cariche di risonanze – e poi di ricerca di quelle ‘piccole’, cioè minime, libere, segni di quello che intendono oltre ogni ovvio intendimento.
Perché questo metodo diventa importante ora? Perché quella che poteva sembrare una qualità di poesia minore, cioè una preoccupazione poetica per la parola nuda, senza grandi narrative e grandi teorie, senza lo spirito del tempo, ora, in tempi di radicale transizione culturale e tecnologica, in prospettiva futura l’opera di George Oppen diventa ispirazione per la scrittura che si rifà sulle macerie di quella dei capolavori, storicizzati ma anche irrecuperabili. Per questo una versione italiana che faccia conoscere Oppen a un pubblico abituato alla grande classicità come alle avanguardie, è urgente e necessaria. Una poesia che non chiede niente alla tradizione (a meno che non si tratti di altri poeti con una simile preoccupazione), che si regge su una distruzione e un riavvio.

The Materials
(1962)

ECLOGUE

The men talking
Near the room’s center. They have said
More than they had intended.

Pinpointing in the uproar
Of the living room

An assault
On the quiet continent.

Beyond the window
Flesh and rock and hunger

Loose in the night sky
Hardened into soil

Tilting of itself to the sun once more, small
Vegetative leaves
And stems taking place

Outside – O small ones,
To be born!

ECLOGA

Gli uomini che parlano
Vicini al centro della stanza. Hanno detto
Più di quanto volessero.

Scovano nel chiasso
Del salotto

Un assalto
Al quieto continente.

Oltre la finestra
Carne e roccia e fame

Slegati nel cielo notturno
Si condensano nel suolo

E inclinati ancora una volta verso il sole, piccole
Foglie vegetative
E steli, che si sporgono

Fuori—– oh quei piccoli,
Per nascere!

IMAGE OF THE ENGINE

1
Likely as not a ruined head gasket
Spitting at every power stroke, if not a crank shaft
Bearing knocking at the roots of the thing like a pile-driver:
A machine involved with itself, a concentrated
Hot lump of a machine
Geared in the loose mechanics of the world with the valves jumping
And the heavy frenzy of the pistons. When the thing stops,
Is stopped, with the last slow cough
In the manifold, the flywheel blundering
Against compression, stopping, finally
Stopped, compression leaking
From the idle cylinders will one imagine
Then because he can imagine
That squeezed from the cooling steel
There hovers in that moment, wraith-like and like a plume of steam, an aftermath,
A still and quiet angel of knowledge and of comprehension.

2
Endlessly, endlessly,
The definition of mortality

The image of the engine

That stops.
We cannot live on that.
I know that no one would live out
Thirty years, fifty years if the world were ending
With his life.
The machine stares out,
Stares out
With all its eyes

Thru the glass
With the ripple in it, past the sill
Which is dusty – If there is someone
In the garden!
Outside, and so beautiful.

3
What ends
Is that.
Even companionship
Ending.

‘I want to ask if you remember
When we were happy! As tho all travels

Ended untold, all embarkations
Foundered.

4
On that water
Grey with morning
The gull will fold its wings
And sit. And with its two eyes
There as much as anything
Can watch a ship and all its hallways
And all companions sink.

5
Also he has set the world
In their hearts. From lumps, chinks,

We are locked out: like children, seeking love
At last among each other. With their first full strength
The young go search for it,

But even the beautiful bony children
Who arise in the morning have left behind
Them worn and squalid toys in the trash

Which is a grimy death of love. The lost
Glitter of the stores!
The streets of stores!
Crossed by the streets of stores
And every crevice of the city leaking
Rubble: concrete, conduit, pipe, a crumbling
Rubble of our roots

But they will find
In flood, storm, ultimate mishap:
Earth, water, the tremendous
Surface, the heart thundering
Absolute desire.

IMMAGINE DEL MOTORE

1

Potrebbe essere la guarnizione della testata guasta
Che sputa ad ogni giro del motore, come potrebbe essere un cuscinetto
Dell’albero a gomiti che picchia alla base come un battipalo:
Una macchina involuta in se stessa, il grumo
Caldo concentrato di una macchina
Innestato negli ingranaggi slegati del mondo con le valvole che saltano
E la pesante frenesia dei pistoni. Quando tutto si ferma,
Si è fermato, con l’ultimo lento colpo
Nel collettore, il volano che brancola
In contro-compressione, rallenta, finalmente
Fermo, pressione in calo
Dai cilindri inattivi si potrebbe immaginarlo,
Poiché si può, allora,
Schiacciato dall’acciaio in raffreddamento
Che si libra in quell’istante, come uno spettro o una sbuffata di vapore, un indomani,
Un angelo, immobile e calmo, di conoscenza e comprensione.

2

Senza fine, senza fine,
La definizione di mortalità

L’immagine del motore

Che si ferma.
Non ci possiamo vivere.
Lo so che nessuno potrebbe vivere

Trent’anni, cinquant’anni se il mondo stesse per finire
Con la sua vita.
La macchina fissa lo sguardo,
Fissa
Con tutti i suoi occhi

Attraverso il vetro
Con la sua increspatura, oltre il davanzale
Che è polveroso—-se c’è qualcuno
Nel giardino!
Fuori, e così bello.

3

Ciò che finisce
E’ questo.
Persino l’amicizia
Che sta finendo.

‘Voglio chiedere se ti ricordi
Quando eravamo felici! Come se tutti i viaggi

Non fossero stati raccontati, tutte le imbarcazioni
Affondate.

4

Su quell’acqua
Grigia di mattina
Il gabbiano ripiega le ali
E si posa. E lì con i suoi due occhi
Può vedere non meno che tutto il resto
Una nave con i suoi corridoi
E tutti i compagni affondare.

5

Ha fissato anche il mondo
Nei loro cuori

Dai grumi, dai tozzi,

Siamo tenuti fuori: come bambini, in cerca d’amore
Finalmente tra di loro. Con la loro prima forza piena
I giovani lo vanno a cercare,

Ma perfino i bellissimi bambini ossuti
Che si alzano al mattino si lasciano dietro
Squallidi e logori giochi nell’immondizia

Che è una lurida morte d’amore. Lo scintillio
Perduto dei negozi!
Le strade dei negozi!
Attraversato dalle strade di negozi
E ogni crepa della città perde
Detriti: cemento, tubature, condutture, un detrito
Che si sgretola alle nostre radici

Ma troveranno
Nell’inondazione, tempesta, disgrazia finale:
Terra, acqua, tremenda
Superficie, il cuore che tuona
Desiderio assoluto.

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