Conversazione con Gabriella Valera Gruber
A cura di Luigia Sorrentino
La promozione culturale è la tua principale attività. Da circa vent’anni, con la collaborazione di Ottavio Gruber, porti avanti due eventi di rilevanza planetaria che coinvolgono soprattutto i giovani under 30: il Concorso Internazionale di Poesia Castello di Duino e il Forum Mondiale dei Giovani “Diritto di dialogo”. Entrambi si tengono annualmente nella città di Trieste, dove vivi e hai insegnato fino all’anno scorso “Critica e Storia della Storiografia” nell’Università di Trieste.
Come sono nate queste due impegnative attività?
Innanzi tutto lasciami esprimere una certa emozione nel rispondere alle domande che mi porrai in questa intervista.
Mi piace cercare, anche in quello straordinario luogo di incontri che è il web, i nomi di “Maestri”, per trovare, oltre le loro produzioni, quanto hanno espresso informalmente: nelle interviste appunto, o nelle note autobiografiche; cerco quelle parole che un uomo dice più a sé stesso che all’intervistatore come se fosse chiamato a “rispondere” della sua vita e delle sue scelte, chiedendosi quale piccolo seme germoglierà dalla sua semina e guardando il futuro che gli sta davanti non come astratto tempo che non gli appartiene ma come campo assolato.
Ora tu mi chiami a “rispondere” e mi impegni subito con una domanda assai complessa.
Il lavoro di promozione culturale negli ultimi venti anni ha davvero modificato la mia vita. Eppure non potrei dire a cuore leggero che la promozione culturale è la mia principale attività, benché forse appaia o sia apparsa tale.
In tutti questi venti anni in cui sono stata coinvolta “sul territorio”, ed “esposta” sempre sul terreno di incontri pubblici, dibattiti, festival, letture, con tutto il corrispettivo di lavoro di preparazione e necessario impegno fisico, non ho mai cessato di essere, nel mio profondo e principalmente, una storica e docente universitaria che non sopravvivrebbe senza fare ricerca scientifica. E nello stesso tempo senza scrivere e leggere poesia.
Il tempo impiegato per gli aspetti organizzativi del mio essere promotrice culturale ha creato nella mia vita momenti di grande sofferenza e rinunzia.
E tuttavia entrando in contatto con la “cultura” della città tutto quello che andavo comprendendo ed elaborando nel mio studio assumeva un significato e una forza diversi ponendo domande alla mia stessa ricerca, sia scientifica che poetica. Potrei dire che fra promozione culturale e ricerca in questi anni c’è stata una continua sintesi.
Vorrei usare l’espressione “parlare città” per dire tutto quello che accade in me ogni volta che sento un mio lavoro di ricerca profondamente incuneato fra i temi della complessità che avvolgono il nostro essere cittadini. Non si tratta di un valore direttamente civile degli studi ( o, per altro verso, della poesia), che rimangono specifici e codificati nel loro rigore metodologico.
Si tratta invece della convinzione che ogni risultato raggiunto apre prospettive nuove dentro un complessivo impegno al dialogo.
Ecco: la “città” per me è quasi un linguaggio, il linguaggio, che una volta appreso, non può essere dimenticato né omesso in nessuno dei nostri discorsi.
Bella questa tua espressione sulla città che diventa “quasi un linguaggio”. Quando la città diventa il luogo mediante il quale si parla al mondo con le attività che in essa si svolgono, il cambiamento in noi può essere davvero radicale. Parlo naturalmente di quella dimensione della città che è dentro ognuno di noi che portiamo con noi, trasformando il luogo in cui siamo, nel quale operiamo in quel particolare momento della nostra vita.
Sì, certo…. è così. E’ proprio questo il senso. Il mio impegno pubblico nella promozione culturale ha modificato la mia vita in modo radicale. In realtà qualche avvisaglia l’avevo già avuta durante gli anni di insegnamento all’Università di Cosenza, in Calabria, prima del trasferimento a Trieste nel 1992. Là ebbi un incarico di delegata del rettore per i rapporti con la regione e di orientamento nelle scuole. Vissi questa delega, che tenni per molti anni, con grande passione. Posso dire di avere girato in lungo e in largo la Calabria, visitando le scuole superiori di paesi isolati dove molti dei ragazzi che mi ascoltavano venivano da famiglie di recente scolarizzazione. Io parlavo di studi universitari, di ricerca, di bellezza e profondità della storia e della filosofia, citando autori di altri tempi come fossero miei (e loro) compagni di studio. Ho ancora in mente la meraviglia e l’entusiasmo che alcuni di quei ragazzi mostravano, i ringraziamenti e gli applausi. Sentivo di fare qualcosa di significativo per loro.
La mia vita prevalente, però, è stata nel chiuso di biblioteche, e soprattutto nel silenzio del mio pensiero. Il tempo dedicato alla ricerca solitaria era tutto; era necessario.
Per maturare nel nostro lavoro occorre tempo; la ricerca richiede tempo.
Il silenzio era il mio luogo, non solo per necessità interiore, ma anche perché il dubbio, come caratteristica intellettuale del ricercatore e una certa insicurezza e timidezza, che forse mi tormentavano, mi trattenevano.
La solitudine cresceva come scelta e come necessità.
Una condizione ben diversa da quella attuale: conosco centinaia, forse migliaia di persone nel mondo. Quando arrivano le centinaia di “mi piace” per qualche post in Facebook mi sorprendo a verificare che di quasi tutti quei “mi piace” conosco esattamente l’autore e si tratta di persone che ho incontrato e con cui ho scambiato abbracci.
Avendo maturato molto lavoro è stato quasi per caso che ho cominciato ad essere coinvolta in tutto il giro di incontri e conoscenze legato al mio “promuovere cultura”. Ho cominciato col volontariato, in una associazione che si occupa di persone con disagio mentale. Lì ho “lavorato” con la poesia organizzando laboratori per comunicare il potere della “parola”. Ho cominciato molti anni fa, già all’inizio degli anni ’90 del Novecento (pensa potrei dire “del Secolo scorso”!!!) a portare le letture nei luoghi pubblici della città, risvegliando la poesia nascosta di tanti che avevano veramente bisogno di “parola”. L’impegno nel volontariato mi ha preso molto: dialogare con persone così diverse da me significava una sfida intellettuale particolarmente complessa, oltre che un impegno umano assai importante. Da qui tutto è nato.
Forse adesso ci puoi dire come si diventa “promotori di cultura” attraverso la poesia. In che senso, come? Come si trasforma la città, il linguaggio della città?
Il concorso Castello di Duino, cui ti riferisci, promuove la poesia come linguaggio di solidarietà e di conoscenza fra i popoli, infatti è tematico oltre che internazionale.
Anche in questo caso la sfida è totale: immaginare un concorso, in cui tutti i testi che vengono dal mondo scritti in almeno 20 lingue diverse, potessero essere letti e valutati nella loro versione originale, era quasi follia. Eppure, dopo la prima lettura in originale da parte dei giurati competenti[1], la sfida delle traduzioni per rendere le poesie fruibili internazionalmente ci obbliga a superare le categorie di alterità e di identità in qualcosa che è completamente nuovo e che io chiamo “dialogo”.
E così dallo stesso network che si era creato intorno al concorso è nato anche il Forum Mondiale dei Giovani “Diritto di Dialogo”: diritto di dialogo come diritto fondamentale da pretendere. Perché anche tra i giovani, che si incontrano e si abbracciano felici quando si trovano a leggere le loro poesie, riemergono qualche volta, come ho avuto modo di verificare, rancori storici cui sono indotti dalle loro appartenenze nazionali. Ed è triste accorgersene. Ed è giusto ricordare che ciò accade perché il dialogo è spezzato per motivi politici che non li riguardano, ma sono lì a minare la loro capacità di vita.
I giovani: sono i “miei giovani”, i “miei ragazzi”, gli studenti che mi hanno dato tanto nell’inesausto lavoro di incontro su un terreno comune di conoscenza, con strumenti diversi ma eguale speranza. E tutti gli altri che partecipano ai progetti. Quei miei giovani a cui dico con loro stupore che già mi rende felice il pensare che sono o saranno “più bravi di me”.
Il Concorso Castello di Duino e il Forum “diritto di Dialogo” in che cosa consistono precisamente ? In media, quanti ragazzi partecipano ogni anno?
Entrambi fanno parte del mio grande impegno per conoscere la cultura dei giovani e promuoverla.
Il concorso è tematico. Questa è una sua caratteristica importante. I temi in un certo senso vengono suggeriti di anno in anno dalle poesie stesse inviate nella edizione dell’anno precedente, come se si stesse costruendo una grande storia, insieme. Il limite di età è fissato ai 30 anni. Io mi sono presa il privilegio di scrivere ogni anno l’introduzione al libro delle poesie premiate[2]. Ne scegliamo tre per i primi premi e poi ci sono alcuni premi speciali a cui se ne aggiungono una quarantina che vengono segnalate per la pubblicazione. Tutte queste poesie vengono pubblicate in italiano e in inglese e vengono registrate nella loro lingua originale per cui ogni copia del libro è corredata del dvd con le registrazioni.
Il concorso prevede anche i “giovanissimi” (da 0 a 15 anni, come sono solita dire). Siamo molto vigili sulla autenticità e genuinità delle “opere” e non prevediamo pubblicazione per questa fascia per non alimentare la retorica del “bambino poeta”; abbiamo una sezione “teatro” ed una dedicata a progetti collettivi, che vengono inviati da scuole di tutto il mondo (nell’ultima edizione, la XIV, anche dalle Filippine e dalla Malesia, per esempio). Questi rivelano come spesso la poesia venga ammantata di retoriche che non le appartengono, ed è ciò che escludiamo; d’altra parte i progetti che vengono premiati (e quelli che meriterebbero di esserlo sono davvero molti) sono di qualità eccellente: docenti e studenti si coinvolgono nella elaborazione di testi spesso multimediali, di idee originali e suggestive, imparando, forse insieme, a scoprire e dire contenuti profondi.
Quando vengono alle premiazioni i ragazzi accompagnati dai genitori o da altre persone di famiglia è tutto un sorridere, un nascondersi qualche volta per timidezza, o al contrario un mostrarsi con tutto l’orgoglio dei loro anni. I genitori o parenti rimangono stupiti perché dicono che non avevano mai conosciuto i loro figli per quello che avevano saputo dire nelle loro poesie.
Incontrando questi ragazzi e i loro insegnanti tanti luoghi comuni cadono. Tutto è più complesso di quanto si vorrebbe fare apparire.
Tutto è pieno di vita e ricco di diversità. La poesia e il concorso ci aiutano a conoscerla, ci inducono a cercarla anche dove non appare.
Non per nulla la partecipazione è molto alta superando ampiamente il migliaio di testi inviati.
Diverso, ma coerente è il Forum il cui nome “Diritto di Dialogo” è essenziale per identificarne il valore. Ogni anno viene lanciato un tema, ad alto impatto etico e non facile[3] . Giovani fino a 35 anni di età (qui il limite è un po’ più alto) si candidano con una loro proposta di intervento. Non vengono fatte distinzioni, né di lingua o di provenienza, come è ovvio, né di formazione culturale: ciò che interessa è la validità della proposta. Il numero delle candidature è piuttosto alto ed è necessario operare una selezione di 50 ragazzi che vengono invitati a Trieste per il Forum dove i loro paper vengono presentati in sessioni plenarie o panel paralleli. Il “diritto di dialogo” sta sempre alla base. Importante è saper confrontare tesi anche molto diverse su temi pluridisciplinari e complessi. Due sono le caratteristiche del nostro forum. La prima è che, benché si tratti di un Forum dei Giovani, essi non sono chiamati a discutere di tematiche giovanili; la seconda è che esso non ha un carattere “problem-solving”. Questo aspetto non è sempre apprezzato perché l’istinto è di voler porre dei problemi e risolverli. Ma il Forum “Diritto di dialogo” esalta le diversità dei profili storico-culturali che impregnano anche gli aspetti più concreti della vita. Il dialogo genera dialogo. Non si scade mai nelle astrazioni o nei discorsi generici, perché i ragazzi portano le prospettive e i segni delle esperienze da cui provengono. Siamo alla XI edizione del Forum. Di anno in anno sono stati pubblicati gli Atti, e mi sono presa il privilegio di elaborarli. Poi il Forum è cresciuto. Pubblicare gli atti non era più possibile e si sta ora preparando, a partire dalla XI edizione la pubblicazione di un Magazine on line per raccogliere i paper più interessanti e promuovere una dibattito continuo..
I ragazzi che arrivano a Trieste provengono da ogni parte del mondo… Come fai a reclutarli, attraverso quali enti e quali istituzioni? Non credo sia facile far arrivare in Italia un giovane e aspirante poeta proveniente dalla Georgia, dalla Siria, dalla Cina, dall’ Uruguay, dal Venezuela, dal Messico… Mi chiedo, anche, come fai a instaurare il dialogo con loro? E fra di loro, una volta arrivati qui in Italia, nasce un legame?
Comincio a risponderti ricordando che per il primo anno di lancio del Concorso abbiamo inviato circa 7000 mail io e Ottavio Gruber (mio straordinario sposo ed entusiasta collaboratore). Abbiamo cercato contatti con tutte le università del mondo, le associazioni e istituzioni culturali. Così, è cominciata la crescita di una mailing list che ora con tante partecipazioni di giovani un po’ si autoalimenta. Naturalmente circa 17 anni fa, all’inizio di questa vicenda, i canali social erano meno sviluppati. Ora Facebook è molto utile, ma non si deve neppure troppo esagerare sulla sua utilità. Noi abbiamo il supporto del Ministero degli Esteri che fa passare il bando in tutte le istituzioni culturali italiane all’estero; lavoriamo con le ambasciate e i consolati dei paesi esteri in Italia, con tutta la rete dei Centri UNESCO, con il PEN Club International. Facciamo riferimento a siti che pubblicano bandi di concorso non solo in Italia ma anche all’estero; la nostra rete di giurati ci aiuta con le conoscenze di enti e istituzioni scientifiche internazionali con le quali intrattengono relazioni.
Ho siglato partnership con enti e organizzazioni giovanili internazionali.
Oggi la macchina dei concorsi è molto invasiva. Oltre a quelli storici ne nascono di sempre nuovi. Se sia un bene o un “meno bene” non saprei dire. Si tratta di un fenomeno socialmente rilevante ancora in grande evoluzione, che va di pari passo con la crescita di tutto quanto è “social”.
Noi abbiamo attenzione e supporti dalla stampa e da siti internazionali.
Le difficoltà più grandi si scontano nel momento in cui i “ragazzi” devono ottenere i visti di ingresso. E’ davvero difficile ottenerli nei paesi africani. E nei paesi dell’area medio-orientale. Si tocca con mano allora quante frontiere ancora ci siano. Occorrono documenti di garanzia, depositi di cauzione. Mi prendo delle grosse responsabilità in prima persona ma alla fine credo che ne valga la pena e finora non ho avuto problemi.
Devi sapere poi, che quando finalmente li so in viaggio, i “miei ragazzi”, mi sento proprio come se tante strade nel cielo stessero confluendo verso Trieste. Quando vengono da molto lontano spesso il viaggio copre anche ore notturne ed io vivo nel buio le loro traiettorie e sono agitata finché non so che sono arrivati.
Poi dura tutto così poco, l’incontro, l’impegno, la festa…
Sì, rimane spesso tra noi un dialogo lungo. Sulla poesia e sulle cose importanti della vita. Li conosco giovani, talora giovanissimi, e crescono, maturano, si sposano, hanno figli! Ricevo riscontri e ricordi non soltanto attraverso facebook. Molti partecipanti al concorso, anche se non hanno vinto, mi chiedono giudizi sulla loro poesia. Cerco di rispondere a tutti.. A volte rimangono in contatto con me perché partecipano alle altre iniziative che promuovo (per esempio con il Centro Internazionale di Studi e Documentazione per la Cultura Giovanile), oppure chiedono supporto per proseguire nei loro studi. A volte semplicemente rimane il ricordo di un affetto che si è creato, anche a distanza di anni. Molte amicizie si creano tra i ragazzi (anche amori!) durante quei pochi giorni di felicità o di riflessione goduti insieme.
Una giovane croata qualche anno fa mi scrisse di un viaggio che aveva organizzato con alcuni amici incontrati a Trieste. E quel viaggio, mi scrisse, doveva partire ancora una volta da Trieste perché era lì che tutto era iniziato.
Un giovane poeta bosniaco ha scritto una poesia in cui si parla di Trieste come di un luogo dove egli aveva incontrato fratelli che mai avrebbe creduto di avere e una nuova madre (si riferiva a me) ed era stato felice.
Due giovani pakistani hanno dato nome Gabriella alla loro bimba (nome non certo comune in Pakistan!) perché, mi dissero, volevano che la loro figlia, divenuta grande, fosse come me.
Credo proprio che molti, se non tutti, non dimentichino. I nostri dialoghi sono anche attraversati dalle vicende della storia. Perché la mente va facilmente ai ragazzi conosciuti quando un attentato uccide e le tensioni fra paesi esplodono.
Le tematiche sulle quali inviti i ragazzi a fare delle riflessioni sono diverse, ogni anno. Di sicuro tutte tendono ad instaurare il dialogo fra generazioni provenienti da realtà molto diverse… Ecco, forse è importante capire la realtà che emerge dalle poesie che ti inviano i ragazzi, poesie scritte in molte differenti lingue… quale realtà emerge dalle loro poesie? Ci puoi fare qualche esempio?
Hai istintivamente usato una formula che potrebbe apparire confusa e invece è ellittica e pregnante alludendo al “dialogo fra generazioni provenienti da realtà molto diverse”. Sarebbe più facile pensare separatamente il dialogo interculturale e il dialogo intergenerazionale. E invece il confrontarsi delle generazioni e delle culture fa parte di uno stesso sentimento: uno “stare” nel tempo e nella vita e nel mondo che è diverso di luogo in luogo, di paese in paese secondo condizioni che qualificano il “tempo” non più omogeneo della nostra storia.
Non si può generalizzare: credo che nella poesia migliore di questi giovani poeti ci sia una capacità di vivere il tempo e le generazioni con assoluta presenza. Paura, speranza, sogno: in ogni caso una consapevolezza estrema qualche volta pacata, qualche volta visionaria, qualche volta legata alle memorie di guerre e umane tragedie, qualche volta al delicato seguirsi di affetti familiari che vanno. Ti cito qualche verso preso qua e là, tra l’altro da raccolte che si riferiscono a diverse edizioni:
“colui che sono ora parla con parole vecchie come un sole.// Cosa mi sarà lasciato quando tornerò/ assenza/ e questo volto confonde i nomi dlele strade/ per le quali hanno imparato a camminare i miei piedi scalzi?/ L’ombra dei smeafori e i segnali di stopo/ avranno ancora potere sulla mia prima paura/ che il mondo non sia tondo, ma smetta di girare? (Alberto Pérez Torres, dal Messico). Oppure: “Mio nonno lottava l’urbanesimo e i residui fascisti/mio zio […] / mio padre[…] / E io? […] Per esprimere il mio io ho 128 caratteri/ e nessuna penna” (Verardi dall’Italia); oppure: “Ti ho inviato una lettera legata alla zampa di una colomba/ dentro una bottiglia buttata in mare/ per telegrafo/ per posta/, per mail/ vi ho messo tutto l’amore delle generazioni d’amore/ […] Ho atteso secoli nel frattempo/ attenderò ancora per intere generazioni se necessario/ ma attenderò./ forse un giorno mi risponderai (Lettera atemporale di Blanche Eliette Ngono Nzada dal Camerun); oppure: “le famiglie come i semi sono disperse dal vento per essere piantate altrove, /strappandosi le radici per tornare ad essere piantate (Adriana Borja Enriquez, dall’Ecuador); “il tempo è la strada più alta e deserta” (Alan Mendoza Bojórquez, dal Messico) ; “Eterno: tumultuoso batter d’ali/ dei secoli; / siamo la discendenza tangibile/ del miracolo che ci precede.// Dentro,/ molto dentro:/ risplendo costellazioni (Lucia Bonilla Molina dalla Spagna); “Io sarò me stessa dopo che l’autunno sarà passato/ dopo che tutte le vecchie noci, tutte le melanzane cotte, tutti i vicini indiscreti, tutta la legna da ardere […] si saranno nascosti in me” (Victorita Tudor dalla Romania); “ogni sera piccoli moscerin/ volano sulla lampada, muoiono […]// Sono vecchia e il corpo è piccolo/ […] Sono più piccoli dei grani di polvere,/ più piccoli dei grani di polvere / sono come l’ultimo pezzo d’estate, quando nel mare l’acqua già si raffredda/ sono con me ogni istante/ […] La verità è forse diversa ma i nostri corpi la marea/ ce li butta così/ sparsi in mezzo alla sabbia (Anastasia Vekshina, dalla Federazione russa); “la ruota della vita continua a girare/ e un uccello poggiato sul suo raggio/ continua a cantare teneramente” (Gnel Hakobian, dall’Armenia)
Potrei continuare con citazioni e riflessioni che raffinerebbero l’idea sopra espressa.
Per esempio c’è il rapporto fra tempo e memoria: “Vivo la vita ricordata dalla mia bisnonna”[…], “verrà il passato e mi troverà morta” (Silvia Favaretto Italia).
Qui la memoria stravolge la direzione del tempo ma ne dimensiona le percezioni simboliche radicando il sogno.
La memoria che si impone come “gesto” quasi di riappropriazione. “Gesto immobile, duro, che violenta la vita, che rompe le parole… fino all’ultima perdita” (Luis Aguiar dal Portogallo).
Anche la conquista del futuro è un “gesto”: “Non esiste la paura quando si guarda l’ignoto,/ /non esiste la paura quando si guardano le stelle…/ Esisto solo io che decido/ Con la mia fede costruisco un pezzo di sole al quale apparterrò” (Suzana Stanković dalla Serbia).
Un gesto che supera orizzonti e divisioni, un gesto che infligge una sconfitta alla violenza della realtà quotidiana di paesi che non conosciamo e che in queste poesie appaiono in tutta la loro cruda verità: “Oggi potremo parlare di libertà, amore./ Di quella che abbiamo sempre sognato. Di quella che nessuno conosceva,/ finora, // in questa bara” (Rafael Antonio Zaledón Amador, dal Nicaragua).
Le storie locali drammatiche sono presenti in queste poesie dei giovani poeti del “Duino” tantissimo, e sono presenti tutti i drammi della contemporaneità. Ricordo la accorata poesia di un ragazzo palestinese che vive negli Stati Uniti, o quella di un giovane israeliano e il suo pianto. Non saprei dire ancora se in questi quindici anni di produzione legata a questo concorso ci sia una evoluzione. Si avvertono nei linguaggi i canoni letterari delle tradizioni poetiche dei singoli paesi o delle singole aree, oltre che, talora il simbolismo legato a tradizioni spirituali: per esempio interessanti sono le poesie che vengono dalla Cina o ancora da Israele, o anche da paesi dell’Africa. Un vasto campo da sondare, sia come espressione di una poetica della cultura giovanile, sia per un lavoro di comparazione fra diverse poesie mondiali.
Al concorso di poesia partecipano gli under 30 mentre al Forum gli under 35. Anche molti giovani italiani partecipano a questi incontri. In che periodo dell’anno escono i due diversi bandi?
Il limite a 30 anni è solo per il concorso di poesia. Per il forum il limite è a 35 anni –dai 18 ai 35– tenuto conto della complessità dei temi che vengono trattati e della diversità degli obiettivi. Tutti possono partecipare, non vi sono esclusioni di nessun tipo. Il bando del concorso viene pubblicato normalmente alla fine di giugno per compiersi con la premiazione nella primavera dell’anno successivo, quello del Forum all’inizio di giugno per partecipare al forum che si svolge alla fine di settembre (l’ultimo week end del mese).
Parliamo adesso della tua poesia. Hai pubblicato molti volumi inerenti al tuo ambito di specializzazione all’Università, ma anche diversi libri di poesie: “Lasciami danzare”, (L’Autore libri, Firenze 2001), “Gente della mia vita”, (Ibiskos editrice di A. Risolo, Empoli 2004), con riproduzioni di incisioni di Ottavio Gruber e poi “Le molte case dei miei ritorni” , (Ibiskos Editrice Risolo, 2012).
Come si sono formate queste tue raccolte di versi?
Sono nate quasi spontaneamente da qualcosa che risuonava in me nel momento in cui le ho composte (e tutte hanno avuto poi le incisioni di Ottavio che sin dalla prima raccolta mi accompagnano). Succede che un titolo mi si imponga e non mi lasci più, è come un ritornello, una chiave d’accesso a qualcosa che è importante per me. Da quel titolo nasce il desiderio del libro e la selezione dei testi da pubblicare.
Non sento il bisogno di rispettare un ordine cronologico di scrittura. La coerenza è data da un nucleo profondo che avverto e riconosco.
Prima di Lasciami danzare non avevo mai pensato di pubblicare le mie poesie. Avevo già inserito qualcosa in antologie ma non amo la pubblicazione di poesie singole, mi sembra che siano un po’ perdute. Ho bisogno di scrutare la continuità del mio essere all’interno di un macrotesto che rafforza l’insieme, almeno un piccolo corpus unitario. Lasciami danzare esprime l’incantamento”: “sono nata da un incantamento, da un sortilegio che unì sostanza pura e cenere”; e la gratitudine per il mondo e l’amore. La poesia che dà titolo al libro, Lasciami danzare, l’ultima della raccolta, è stata scritta (o almeno concepita) ascoltando “La morte e la fanciulla” di Schubert. Io amo molto questa poesia che ha una semplicità assoluta e, nella mia percezione, una profondità totale: c’è la gioia che si compie nel dolore mentre la vita si compie nella gioia. Il “compiersi” delle cose che riscatta il loro finire è uno dei miei temi. La compresenza del dolore e della gioia in un unico sentimento di purezza, l’aspirazione all’incorruttibilità nella purezza, il senso della giovinezza nella poesia in quanto incorruttibilità del senso della vita: tutto questo è poesia per me. E credo che la prima raccolta abbia in sé questo significato.
La poesia mi trascende come il tempo trascende l’uomo.
Il secondo libro ha forse un andamento più pensoso: è già una meditazione sul mio essere qui. La sua cifra è data dalla poesia iniziale: “il pensiero che si fa elemento”. Ed ecco allora la parola che prende corpo, mentre la vita scorre le tracce diventano chiare nel rito del ricordo, dello sguardo sul mare, nella fisicità del dolore, nelle grandi solitudini notturne, nell’infinito sole. Tutto questo mentre gli incontri, la preghiera laica, e i giorni del perdono danno trama al tutto della umanità grande che mi ha compiuto: gente della mia vita, amata, troppo, sempre.
Infine Le molte case dei miei ritorni: ancora una volta l’incipit di alcune poesie si è imposto come titolo di un libro che forse rappresenta un momento di maturazione: perché mi sembra che il tema sia la parola a cui sempre ritorno perché ancora una volta si compia una lotta tra il mio dire e il mio non dire, tra il mio grande silenzio e la dilatazione degli spazi e dei tempi che infine mi hanno tolta alla solitudine estrema senza tuttavia che io ne abbia tradito l’essenza.
Dimmi ora qualcosa di più di questa tua ultima pubblicazione: le case dei ritorni… di che case si parla? Che luoghi sono?
Non uso molte metafore nelle mie poesie, credo non se ne trovino. Il mio linguaggio è stratificato e simbolico. La “casa” nel libro non è una metafora. Quelle che avevo nell’anima erano “case” reali: i molti spazi in cui ho vissuto, dagli studi delle biblioteche in varie parti del mondo, alle abitazioni provvisorie dove necessariamente alloggiavo nei tempi delle trasferte, alle case che ho abitato spostandomi di città in città fino alla casa più cara, quella dello sposo che mi attende. Ma non è questa quella a cui ritorno: a tutte io ritorno, con pensiero e animo grato; in ognuna la parola, mi ha dato dimora prendendo dimora in me e aprendo spazi e tempo. Credo che questo sia veramente il senso del tutto che compone il libro.
Su che cosa stai lavorando adesso? Uscirà a breve una nuova raccolta di versi?
Sì. Ho tempi complicati con molto lavoro scientifico che mi accompagna, e i progetti che abbiamo già citato e la direzione del Centro Internazionale di Studi e Documentazione per la Cultura Giovanile, che ho fondato e dirigo. Per questo i miei nuovi libri di poesie tardano. Ma sto rivedendo tante poesie accumulate e scrivendone di nuove.
Un nuovo leitmotiv mi ha rapita già da un po’ di tempo e sarà il titolo del prossimo libro. Te lo rivelo anche se forse non si dovrebbe fare. Ma già lo amo e non lo abbandonerò: “Scendevamo giù per la collina”. È evidente dal titolo che la nuova raccolta avrà un sapore evocativo. Di più non posso dire. So solo che anche qui ci saranno poesie recenti e meno recenti, che non mi sarà necessario creare un ordine cronologico… aspetto di sapere io stessa cosa questo libro sarà.
Che cos’è per te la poesia? Corrisponde a una necessità o a un bisogno?
A una necessità, non c’è dubbio. La parola della poesia è necessaria o non è.
Dirò che anche quando scrivo o parlo di temi scientifici sento in me l’impegno verso una parola necessaria, “assoluta”, naturalmente non nel senso che si faccia portatrice di verità assolute, pensiero che mi è del tutto alieno, ma nel senso che il suo essere, l’essere della parola, nello spazio e nel tempo, dà alla sua entità quella purezza che la fa, come dicevo prima e come dico in una poesia, “elemento”. L’elemento è l’unità minima di cui si compone la complessità della materia e del pensiero. Mi emoziono molto quando scrivo. E quando rileggo sono di nuovo lì alla mia prima scrittura di quei versi e di quelle parole. Tutto il mio corpo ne è preso. Un corpo che in esse trova la sua purezza e la sua incorruttibilità nello schianto del dolore, nell’incanto degli incontri, nella tensione della scoperta. Da questo punto di vista non vi è differenza per me fra lo scrivere poesia e lo scrivere testi scientifici.
Forse la poesia è per me un rito necessario e il linguaggio riflette la profondità e la pensosità del rito.
Quando hai cominciato a scrivere le prime poesie?
Non lo ricordo precisamente, ricordo il momento in cui ho scritto delle poesie che considero come le più risalenti, se siano le prime non so. Mi commuove raccontare che mia madre copiava di anno in anno nella prima pagina del suo “libro dei conti” (erano tempi in cui le spese andavano centellinate con rigore) una mia poesia, che a lei piaceva perché era una rivisitazione del Padre Nostro. Vi si parlava della giustizia di Dio: le teorie della giustizia sono state uno dei miei temi di studio e ancora lo sono. Della poesia però non so dire se sia stata la mia prima.
Ricordo di avere scritto qualcosa sul cielo e la terra che smisero a un certo punto di parlarsi; che scrivevo anche brevi racconti. Da piccola parlavo con le formiche!
Quali sono i tuoi autori di riferimento? I primi libri di poesie che hai letto, quelli che hanno maggiormente inciso sulla tua formazione di poetessa?
Ho letto molto in tempi diversi e naturalmente per lunghi periodi non prevalentemente poesia o narrativa, ma storia e filosofia e diritto, che hanno tuttavia impregnato il mio linguaggio e il mio pensiero. Ho letto i poeti avvicinandomi più all’uomo o alla donna che al loro verso, se questa differenza si può fare. Così certi autori mi sono diventati sodali.
Potrei citarne molti, ma cito soltanto tra i poeti italiani Cesare Pavese e Pier Paolo Pasolini, tra i primi autori che mi hanno davvero fatto compagnia. Ho amato Quasimodo e Ungaretti. E tra le poetesse Amelia Rosselli e Cristina Campo. Per non dire dei classici: dei lirici greci, di Catullo e delle grandi tragedie (di cui leggevo i cori nel greco antico nei miei anni di scuola). Mi avranno davvero formata? Certo quando rileggo i loro testi è come se risentissi l’eco di una voce amica e nota.
Poi naturalmente il panorama attuale è movimentatissimo ed io leggo tantissimi autori, affermati o meno. Se dovessi inoltrarmi su questo terreno ci si perderebbe, come ci si perderebbe se mi inoltrassi sul terreno di poeti non italiani, che leggo purtroppo in traduzione, tranne l’amato Rilke di cui posso comprendere anche l’originale tedesco, godendone sommamente.
Il Tempo, la caducità, l’amore, l’assenza, la perdita, sono tematiche della tua poesia. Si potrebbe parlare di un unico libro che percorre fasi diverse della tua ricerca poetica?
Penso di sì. Per i miei libri si può parlare di una continuità della ricerca poetica. Del resto accade la stessa cosa nell’ambito della ricerca scientifica perché da un obiettivo raggiunto si genera un altro necessario impegno. La poesia genera poesia, e quanto è stato scritto continua a vivere in noi, con traccia indelebile.
Le tematiche che citi sono molto presenti nelle mie raccolte. Il tempo dell’uomo, ma anche un tempo “ulteriore”, mitico in cui si riscatta il pensiero del tempo e della vita che finisce. L’assenza avvertita come sofferenza e come distanza per guardare. C’è molto sguardo, credo, nelle mie poesie e la caducità ha un suo significato: “come se fossi eterna mi sogno mortale”, ho scritto una volta, e per quanto la morte, come perdita e come realtà che incombe sia ombra nel sole della vita, sta forse in un sogno il seme della rassegnazione.
Il sogno e la visione, la pietà e l’umiltà egualmente appartengono ai miei versi.
E inoltre la “gente della mia vita” anche nelle altre due raccolte viene onorata e alcune poesie sono dedicate ai tanti che ho incontrato e che tanto mi hanno dato.
Che legame c’è tra poesia e biografia? La tua storia personale entra nella tua poesia, o se ne distacca?
In generale si dice che c’è sempre qualcosa di autobiografico nella scrittura di un autore e si dice anche che egli deve distaccarsene perché il puro autobiografismo uccide la poesia e la letteratura.
Per quanto mi riguarda la poesia è la mia storia personale. Io credo che indipendentemente dal fatto se mi trovi in un periodo in cui scrivo molto o poco o niente io vivo di poesia perché vivo di quella particolare forza che assume la parola quando si è abbeverata alla fonte della poesia. Se non avessi avvertito il “potere” della parola nella mia e nell’altrui vita non avrei scritto poesia e neppure il mio linguaggio in generale sarebbe stato quello che oggi è.
La tua domanda probabilmente aveva un senso un po’ diverso: quanto direttamente la mia personale e contingente vicenda umana si esprima direttamente nei miei versi.
Ti risponderò così:
Nello scrivere alcune poesie che sgorgavano da un dolore assoluto ho sentito che il mio volto diventava maschera tragica e non era più il mio volto ma il volto dell’uomo coperto dal dolore e identificato in esso. Credo che questa sia la risposta più vera. Chiedo al mio lettore di non abbassare il mio testo alla mia persona, che è poco o nulla. Tutto nel mio testo vuole essere trasfigurato, io stessa nello scrivere mi sento trasfigurata. C’è chi si meraviglia del fatto che parlando in prima persona io uso il maschile. Leggetemi per quello che sono: una donna, un uomo, che hanno dentro la storia della tragedia umana e la grandezza delle sconfitte; ma anche il fragile abbandono alla vita che ritorna, all’amore, alla bellezza di ogni attimo di incontro e di pietà. Per questo la mia poesia è la mia vita, come il mio lavoro di ricerca, come il mio impegno per i giovani e per la cultura.
Quali sono gli strumenti della tua poesia?
Non so fare a meno del metro. Non uso la metrica classica in senso stretto ma il ritmo, l’armonia equilibrata di suoni e accenti sono molto importanti per me; il respiro si eleva e si riposa, anche quando un verso breve interrompe il cammino per poi cominciare con un nuovo fraseggio. In questo senso forse la lettura dei classici antichi deve avermi davvero formata, insieme all’amore per la musica.
Oltre a questo aspetto noto a posteriori la densità simbolica del mio linguaggio che per me è una esigenza assoluta. Come dicevo prima non amo molto la metafora. Questa ha a che vedere con il dire “figurato” della retorica, mentre il simbolo con il dire “figurale” della storia e del mito.
Ci sono motivi che ritornano nei miei libri, per esempio il bianco dei fiori, il banchetto, l’ospite, la notte o l’alba, in fondo tutto ciò che ci fa sentire in uno spazio sospeso fra il cielo e la terra e in un tempo umano trasfigurato in tempo mitico.
Quanto il rapporto con i giovani poeti che partecipano al Forum e al Concorso hanno influenzato la tua poesia? E soprattutto, cosa ti hanno insegnato i ragazzi? Cosa tu hai lasciato a loro?
I “ ragazzi” mi hanno insegnato che sono “ragazzi”. Non sembri una tautologia. La giovinezza come dato anagrafico esperienziale è fatta di molte cose insieme: il sogno senz’altro, ma anche la responsabilità, la precarietà e l’incertezza. Responsabilità perché i “ragazzi” hanno sulle spalle in mondo che è già più invecchiato di quello che abbiamo noi. Si dice spesso che hanno straordinarie opportunità che le precedenti generazioni non hanno avuto, ed è vero; ma queste opportunità sono anche il segno di nuove responsabilità. I ragazzi hanno bisogno di felicità. I ragazzi mi insegnano anche la felicità. Non sempre si riesce davvero a comunicare: i ragazzi hanno bisogno di giovinezza e di un linguaggio che è tutto loro. Ma quando avvertono che si sta parlando loro dal fondo di esperienze vere, vissute, che non si sta facendo una lezione ma si sta scavando negli archivi della conoscenza per rendere vivi quegli stessi sogni che sono loro ma anche nostri, quando sentono che si sta mettendo a nudo ciò che di grande si ritiene d’avere compiuto nella propria vita e ciò che di fragile si riconosce in essa, allora i “ragazzi” offrono la loro stima incondizionata e seguono, almeno per un po’ il cammino che viene loro dischiuso. I ragazzi ( o meglio la realtà di quello che succede a livello dei nostri incontri internazionali) mi hanno insegnato che al momento della semina non segue direttamente il tempo del raccolto. Li ritroverò lontani, tranne che nel caso specifico di miei allievi o ex allievi dell’Università. Ed è necessario un esercizio di umiltà per accettare che questo sia e nello stesso tempo continuare a lavorare sulle idee che si sono sviluppate, magari proprio soltanto perché “quel” ragazzo ha fatto una domanda o posto un problema cui si è sentito di dover rispondere. I ragazzi con la loro forza hanno accresciuto in me il senso dell’umiltà. Io cerco di insegnarlo a loro, a mia volta, offrendo i miei saperi e le difficoltà di cui sono impregnati, invitandoli alla libertà intellettuale e alla coerenza verso sé stessi e gli altri.
Un mio ex allievo mi ha detto che io sono “un giacimento di energie rinnovabili”. Tutto quello che ho, tutta l’energia che deriva dal mio lavoro lungo di ricerca è messo a disposizione perché sia rinnovato e se ne sprigionino nuove energie.
Quanto tutto ciò abbia influenzato la mia poesia non saprei dire in modo chiaro. Certo la mia poesia è diventata negli ultimi anni più aperta a spazi grandi, e alcune poesie le ho scritte proprio pensando ai “miei ragazzi”.
Qual è per te il valore della poesia oggi? Come si fa a riconoscere nella contemporaneità un vero poeta, una vera poetessa?
Oggi assistiamo a una grande diffusione della poesia. Letture e festival si moltiplicano in tutti gli spazi, con diverse modalità (performance, musica e poesia, slam… poesia gridata, poesia sussurrata). C’è molto di buono in questo, si scoprono linguaggi nuovi e diversi, ci si incontra, si prova il desiderio della bellezza e della parola profonda.
Personalmente preferisco un modo di fare e dire poesia piuttosto raccolto. La diffusione dei reading è dappertutto: a cena, negli aperitivi, nelle vacanze, o al contrario nei ritiri dedicati a corsi di scrittura; e poi persino i politici ora usano iniziare i loro discorsi con qualche verso di qualche poeta, certo su suggerimento altrui, come tutto nei discorsi dei politici. Talvolta mi domando se questo non finisca per offuscare con troppa luce il valore segreto della poesia. Un mio amico fisico teorico, Ignazio Licata, ha detto una volta parlando di complessità, che vi è il timore che la “cultura” presa a dosi massicce di piacere, diventi una specie di “oppio dei popoli”. E’ un’affermazione dura, ma credo che ci si debba un po’ pensare quando si propone la poesia a un pubblico. La poesia è “linguaggio” e il linguaggio reca in sé tutti i semi del passato e del futuro. Non amo la poesia declamatoria, e credo che ci sia molto da riflettere anche sul modo “performativo”, interessante per la grande capacità di accumulare (quasi agglutinare) immagini e linguaggio, che però lascia poco spazio al pensiero; occorre davvero un grande equilibrio. Il linguaggio poetico è delicato e misterioso, ha una sua interiore disciplina. Non è facile scegliere. Per fortuna siamo in tanti a scegliere e anche in questo il rispetto per la molteplicità deve segnare la strada.
Così è data anche la risposta alla seconda domanda che hai posto: come riconoscere un vero poeta o una vera poetessa. Non ho certo parametri di sicurezza e credo che nessuno li abbia. Qualcosa ritengo ineludibile: un linguaggio affinato alle esigenze del cuore e della mente. Questo non significa linguaggio colto, alto, aulico. Può essere semplice e trasparente o complesso ma in ogni caso deve essere lì per dire non per nascondere. Ciò che è nascosto deve essere nascosto in modo da invitare il lettore a svelarlo. La cura del testo, la “verità” di ciò che è detto, la chiarezza del messaggio, la disciplina interiore: un particolare stare nella scrittura che è nello stesso tempo compimento e apertura. Un bambino mi chiese un giorno che cosa era per me una poesia e quando sentivo di avere finito di scriverla. La domanda nella su ingenuità era piuttosto impegnativa e io risposi in un modo che appare semplice ma è altrettanto impegnativo. Gli dissi che per me una poesia era, ed era ‘finita’, cioè compiuta, quando, dopo avere scritto, potevo dire a me stessa: “prima non c’era ed ora c’è”. La poesia come pensiero che si fa “elemento”. Credo che il bambino sia stato soddisfatto della risposta considerato il fatto che si mise subito a scrivere con un sorriso dipinto sul volto.
Se io sappia fare tutto questo non lo so, se io sia una vera poetessa ancora meno. Certamente vorrei riuscirci e la mia cura per il linguaggio è quasi una devozione; il mio rispetto per ciò che leggo di altri poeti è totale. Quando presento un testo o un autore o un libro faccio di tutto per mettermi al suo servizio.
Quali sono le cose che ti stanno a cuore? Come vivi attraverso la tua poesia questa nostra epoca così segnata dalla discordia, dalla separazione, dall’assenza di valori comuni, di ideali?
Io ho un grande sogno: che il dialogo diventi il modo di vivere la complessità e costruire i valori. Immaginare che esistano dei valori comuni da condividere è perdere di vista che i valori nascono nelle relazioni e le relazioni sono sempre fra individui e soggetti in movimento e in cambiamento. I valori sono “misure”: come diceva Gianbattista Vico dignitates. Definiscono quanto ciascuno e ciascuna cosa abbiano in sé stessi di dignità e questo è il grande lavoro del dialogo: riconoscere e attribuire dignità, elevare l’uomo alla dignità del discorso. Le mie ricerche, i miei progetti, la mia poesia, e tutto quello che diventa poi impegno di promozione culturale, per tornare all’inizio di questa intervista, hanno questo grande ideale come sfondo. Così, mentre promuovo una Festa della Poesia e della Letteratura, evito di chiamarla Festival perché vorrei che l’aspetto riflessivo del rito emergesse e venisse avvertita la continuità fra letture e seminari, fra incontro e crescita, oltre la poesia, oltre la letteratura, nella più grande poeticità del tutto dei rapporti umani.
NOTE
[1] Cito qui i nomi dei giurati dell’ultima edizione ai quali va tutto ilmio ringraziamento:Marji Čuk, Stefan Damian, Guido Cupani, Arben Dedja, Antonio Della Rocca, Pietro U. Dini, Silvia Favaretto, Julius Franzot, Franco Gatti, Elie Kallas, Irini Kavaralaki, Giancarlo Micheli, Isabella Panfido, Sandro Pecchiari, Ana Cecilia Prenz, Paolo Quazzolo, Liliya Radoeva Destradi, Isabel Russinova, Antonio Staude, Fabreizio Stefanini, Silvia Storti, Gianfranco Sodomaco, Iza Strazelcka, Giuliana e Giuliano Zannier, Anna Zoppellari. Vorrei inoltre ricordare grata anche alcuni giurati della precedenti edizioni che per molti anni hanno impegnato il loro lavoro come giurati: Marina Bartolucci Sedmack, Cristina Benussi Renzo Stefano Crivelli, Giovanni Ferracuti, Claudio Grisancich, Miroslav Kosuta, Tomaso Kemeny, Lucia Marcheselli Loukas, Marina Moretti, Fabio Russo, Dieter Schlesack. Con memoria grata poi cito Sergio Penco a cui è dedicato ora un premio speciale assegnato a un giovanissimo, Ivan Bujukliev e Sigrid Markau.
[2] Dalle diverse edizioni sono stati pubblicati i seguenti volumi (tutti curati e introdotti da me per i tipi della Ibiskos Editrice Risolo, con una incisione di Ottavio Gruber nella copertina): Il gesto della memoria/The Gesture of the Memory (2005); Aria Acqua Terra Fuoco. La lunga genesi degli elementi /Air Water Earth Fire: the long genesis of elements (2006); Frontiere /Frontiers (2007); Voci-Silenzio /Voices- Silence (2007); Strade/Roads (2009); Luce/Ombre (2010); Orizzonti/ Horizons (2011); Specchio-Maschere/ Mirror-Masks (2012); Il futuro, un luogo nel mondo/ The Future, a place in the world (2013); Io/Tu –You/Me (2014), Dopo il viaggio/After the Journey (2015); Il gesto e la genesi/ The gesture and the genesis (2016); Generazioni/ Generations (2017).
[3] I temi dei Forum: Associazionismo Culturale e Nuova Solidarietà (2008), Quale Futuro (2009), Quale memoria (2010), Giustizia: come? (2011), La ricerca di sé nei luoghi della cittadinanza (2012), Città/globale (2013), Europa/non Europa (2014), Vecchie e nuove povertà: Europa e oltre (2015); Lavoro. Storie, Culture, Diritti (2016), La condizione dialogica (2017). Il tema lanciato per il 2018 è “Etica e complessità, etica della complessità”.
cosa occorre per dare dignità di poesia ad un pensiero dell’anima?