La solitudine dei reietti
di Fabrizio Fantoni
Con Il comune salario Fabrizio Bernini ci consegna un’opera compatta, densa e vibrante che si caratterizza, sin dai primi componimenti, per il forte legame con l’esperienza, con la concretezza dei dati della quotidianità che l’autore indaga con sguardo acuto, capace di cogliere ciò che si cela dietro le molteplici sfaccettature del reale.
È una ricognizione del presente quella che svolge il poeta – moderno flaneur- nei suoi vagabondaggi per le strade della città, in cui osserva il mondo intorno a lui concentrando l’attenzione su dettagli di un reale apparentemente inerti o indifferenti che, nel testo, vengono sottratti all’opacità grazie ad un dettato poetico nelle cui pieghe si cela un sempre più teso interrogarsi metafisico.
Seguendo queste coordinate, l’autore struttura il libro con una solida architettura incentrata sulle figure di tre personaggi di invenzione: il figlio del padrone, il disoccupato e lo studente attivo nel sociale.
Per ognuno di essi ricostruisce le dinamiche e i rituali di vita coagulandoli in un susseguirsi di rapidi componimenti che evocano aspetti di un “comune ambiente umano e storico”.
Queste esistenze si fanno ritratto del mondo e dell’esistenza dell’uomo contemporaneo, intorpidita sotto la coltre di un assordante ed inutile chiacchiericcio in cui tutto, Il dolore e la bellezza, il sentimento e la passione, il silenzio e la riflessione divengono pulviscolo nell’apatia di una vita che si trascina nei giorni.
A imprimere energia alla materia è la comprensione che Bernini ha dell’umano e il suo desiderio di “esserci”, di stare tra le cose di tutti i giorni guidato da una “pietà” che, certo, “non trasforma niente” ma che permette di capire la relazione fra le cose.
Vediamo, quindi, come l’aderenza dell’autore al dato della quotidianità non ha nulla di narrativo, ma è, al contrario, uno strumento per destrutturare la realtà, per rintracciare quel substrato autentico di verità, dolore e bellezza che si cela sotto la superficie delle cose.
Il comune salario, che dà il titolo al libro, altro non è che quel patrimonio di amarezza e precarietà che accomuna la vita di tutti gli uomini che, a dispetto delle apparenti differenze, scoprono di essere inscindibilmente uniti nella comune lotta.
“Anch’io che ti seguo negli anni e nel mondo
anch’io ti racconto la strada.
Ci ha toccato il comune salario,
questa comune famiglia
di dolore e bellezza
nel conto semplice e quotidiano
della nostra dolcissima storia”.
Questo modo di rapportarsi al mondo, oltre ad avere una diretta corrispondenza con la grande poesia del secondo novecento – soprattutto con l’opera di Luciano Erba, Giovanni Raboni e Maurizio Cucchi – affonda le sue radici in quell’antica cultura della realtà che nei secoli passati ha trovato espressione non solo in letteratura, ma anche nell’arte figurativa lombarda.
Le immagini, che emergono dai componimenti di Bernini, restituiscono l’eco lontano, ma ben percepibile, della sensibilità che anima le straordinarie pitture di Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto che descrivono aspetti – anche quelli più dimessi – della quotidianità del tempo con la stessa tensione e sacralità delle pale d’altare che adornano le chiese perché, del resto, non c’è fede più grande che ritrarre l’uomo miserabile nella vita di tutti i giorni.
Riprendendo le parole Nicolas Boileau queste pitture sembrano dirci “Nulla è bello tranne il vero: il vero soltanto è amabile”. Ed è un grido che promana anche dai versi di Fabrizio Bernini.
La parola, allora, come la materia pittorica di quelle tele, si fa incontenibile, si struttura in forme diverse contraendosi e dilatandosi, si dispiega sulla pagina come in una scena in cui le figure si fanno specchio di un mondo vastissimo in profondità quanto monotono e opaco appare in superficie.
“È proprio nei cuori più neri,
quelli invischiati nell’atra pecie delle mute
e strascicanti tenebre, senza mai nessuno
sguardo che li avverta trascolorare
nell’ombra, senza altra compagnia
che la solitudine buia e pesta dei reietti,
è là, dietro l’ultima pagina lugubre
della loro storia, proprio là, che brilla
sotterraneo e ritmico il lume
radioso e sfolgorante
della fantasia.”
La costante attenzione alla realtà contemporanea si arricchisce, nella quarta parte del libro, di una spinta metafisica che spalanca le porte a una riflessione sul tempo e sull’identità come pensiero funzionale all’orientamento della nostra esistenza: noi pensiamo, agiamo e viviamo come se ci fosse un’identità che altro non è che una pura astrazione o, come diceva Hume, una sostanza solamente immaginata.
Quella che noi chiamiamo identità è, in realtà, il risultato di un lungo e complesso processo di aggregazione di materia che si snoda nella linea verticale del tempo.
“l’uomo qualunque che mi incrocia
sulla strada forse non sa che potrei
essere lui. Che forse vorrei essere lui.
Chissà a quale identità
ritornano i suoi passi dentro l’andatura
millenaria, in quel lento discendere
a ritroso verso i primi mutamenti universali.
È già lontano e per un attimo
l’ho pensato seriamente”.
Questa aggregazione di materia è l’immutabile essenza dell’essere umano, impermeabile al passare del tempo e ai cambiamenti sociali; ed è proprio questa lucida osservazione della reale natura dell’umanità che permette all’autore di riconoscere l’uomo come “contemporaneo sempre”
“Se mi oppongo vale a dire: più occhi,
meno occhi, qualcosa sul bavero scucito
dell’iride popolare.
Ogni modernità si tralascia nel pensiero.
Ci raggiungono quaggiù piccole gocce
di tecnologia, ma io direi che è l’uomo
a essere contemporaneo sempre.
E allora perché mai dovrei evitarlo?
Non posso. La colpa non è sul mio calendario.
Amo quest’epoca, questa gente
che odio con lo stesso identico piacere
che dà la conoscenza.”
Il comune salario è un libro denso, vibrante, che conferma Fabrizio Bernini come una delle voci più autentiche di una nuova generazione di poeti.