LABILE
Più del silenzio, una contrazione e il respiro che sbanca,
precipita nell’universo tutto e nel temporale estivo
Dammi, dammi almeno un consiglio prima di partire,
un’ultima guida per le mani e i piedi santi li tenevi uniti.
Orna il capo
apri gli occhi
per me per me
riprendi fiato
concepisci
E quando la terra avrà compiuto il giro,
e quando e quando
….
ti solleverai con la veste danzante.
….
E la bella estate di prugna?
Non più.
Non più.
Nel bel mezzo della nuova essenza, condizione, e se non vedi
puoi forse intuire,
e il braccio riparava alla caduta.
….
La bella che all’ultimo istante accenna al suo incendio lento.
Divinità
come sotto
il respiro pertinace.
Poi trovi la tua vita sopra? Sopra, direi, la probabile traiettoria,
ho visto, ho visto, e il lampo che sembrava, che allentava.
Non esigeva, non trapelava, non sospirava sospiri d’amore
che pure erano stati. Era un ritorno a casa? Quanto nell’occasione,
avremmo ancora voluto dire, avrei voluto, testa a testa, sudore
appena appena sul collo per taciuta felicità.
Quanto.
Nel tempo colosso è soltanto una vertebra caduta,
di tutti in quell’istante senza colore, senza calore,
poveri perché la strada ci porta avanti.
Di là, invece, quando l’immobile perdura
e non ha più voce.
Tra il tempo e il non tempo, così che il sole poi cede
il passo alla luna, alto, basso, respiro, non respiro,
alla fine di tutti i luoghi, eppure resiste nel giardino,
mai come ora in fondo alle scale.
Il saluto è ora grado a grado,
un finale aperto di partita, quanto la passione
concede ai minuti, alle ore, dunque ho ritrovato
l’origine al mio corpo in solitaria origine
dietro al balcone, il ricordo dei fiori è palese, come di tutte
le altre cose, il ricordo di sciarpa e guanti, un cielo
brillante, come un altro gennaio, un altro, misterioso
nel ricordo, ah, lieve, poi grave, grave e perdurante.
…
Rapinosa la bella estate di prugna?
Sì,
ma non più,
non più nel cuore, del frutto finito a terra.
Tu, nella quintessenza o nella compresenza d’altra natura?
Non sapevi, ora sai tutto il sapere, congruo, illimitato,
le mani sono le stesse e gli occhi di malinconia pervasi,
mai finirai di stupirti allo stupore.
Tenevo la mano sul cuore in caso di assenza. Continua,
di là resta invece,
rimane indietro, possiamo svolgerlo come un nastro,
ma non aggiungere pasta a pasta, solo dal basso in alto.
Una furia,
la fretta di andar via,
casa mia, casa mia,
mettere radici,
cercare le radici, la carta mancante, la calligrafia dello stupore
e la vaghezza, il respiro fino all’ultimo, la pietà è discesa,
non rendo, non colgo, soltanto mi approssimo per tentativi.
Animavo.
Ora la testa fiera fra tante,
ricucita erranza nel ristoro.
Vanno, li sentivo una volta andare e i loro rumori,
so che ancora vanno, si spostano, parlano tra loro
animatamente, e le teste di vetro, ma qui l’osservanza
delle radici è più forte.
Alberto Toni è nato nel 1954 a Roma, dove vive. Ha pubblicato varie raccolte di poesia, narrativa, saggistica, testi per il teatro. Ha esordito nel 1987 con La chiara immagine, Rossi & Spera. Tra gli ultimi titoli ricordiamo: Teatralità dell’atto (Passigli 2004); Alla lontana, alla prima luce del mondo (Jaca Book 2009); Un padre, in Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori 2011); Stone Green. Selected Poems 1980-2010 (traduzione di Anamaría Crowe Serrano e Riccardo Duranti, Gradiva Publications 2014); Vivo così (Nomos Edizioni 2014); Il dolore, (Samuele Editore 2016).