ANTEPRIMA EDITORIALE
Dopo Janet Frame è il turno di Seamus Heaney, poeta irlandese, premio Nobel per la letteratura nel 1995. Curato e tradotto da Marco Sonzogni, in Traversare l’inverno Heaney ci consegna un’opera perfettamente riassunta dalla motivazione del Premio Nobel assegnatogli nel 1995: “un lavoro di lirica bellezza ed etica profondità che esalta i miracoli quotidiani quanto il vivente passato”.
SERENADES
The Irish nightingale
is a sedge-warbler,
a little bird with a big voice
kicking up a racket all night.
Not what you’d expect
from the musical nation.
I haven’t even heard one —
nor an owl, for that matter.
My serenades have been
the broken voice of a crow
in a draught or a dream,
the wheeze of bats
or the ack-ack
of the tramp corncrake
lost in a no man’s land
between combines and chemicals.
So fill the bottles, love,
leave them inside their cots.
And if they do wake us, well,
so would the sedge-warbler.
SERENATE
L’usignolo irlandese
è il forapaglie,
un uccellino dalla voce forte
che fa un gran chiasso tutta la notte.
Non ciò che ti aspetteresti
dalla nazione musicale.
Non l’ho neanche mai sentito —
e un gufo nemmeno, se è per quello.
Le mie serenate sono state
la voce spezzata di un corvo
in un vento leggero o in un sogno,
il sibilo dei pipistrelli
o la mitragliata
del re di quaglie vagabondo
perso in una terra di nessuno
fra trebbiatrici e sostanze chimiche.
Perciò riempi i biberon, amore,
lasciali dentro le loro culle,
e se ci svegliano, be’,
farebbe altrettanto il forasiepi.
*
A WINTER’S TALE
A pallor in the headlights’
range wavered and disappeared.
Weeping, blood bright from her cuts
where she’d fled the hedged and wired
road, they eyed her nakedness
astray among the cattle
at first light. Lanterns, torches
and the searchers’ gay babble
she eluded earlier:
now her own people only
closed around her dazed whimper
with rugs, dressings and brandy —
conveying maiden daughter
back to family hearth and floor.
Why run, our lovely daughter,
bare-breasted from our door?
Still, like good luck, she returned.
Some nights, crossing the thresholds
of empty homes, she warmed
her dewy roundings and folds
to sleep in the chimney nook.
After all, they were neighbours.
As neighbours, when they came back
surprised but unmalicious
greetings passed
between them. She was there first
and so appeared no haunter
but, making all comers guests,
she stirred as from a winter
sleep. Smiled. Uncradled her breasts.
RACCONTO D’INVERNO
Un pallore nel raggio
dei fari tremò e scomparve.
In lacrime, lucida di sangue per i tagli
dov’era scappata dalla strada cinta di siepi
e filo spinato, diedero un occhio alla sua nudità
smarrita tra il bestiame
alle prime luci. Lanterne, torce
e le chiacchiere allegre dei cercatori
che aveva eluso prima:
ora solo la sua stessa gente
chiusa intorno a un mugolio stordito
con coperte, fasciature e brandy —
mentre riconduceva la figlia vergine
al focolare e al suolo domestico.
Perché scappare, figlia nostra incantevole,
a petto nudo dalla porta di casa?
Eppure, come la buona sorte, ritornò.
Certe notti varcava la soglia
di case vuote e si scaldava
rotondità e pieghe madide di rugiada
dormendo nella nicchia del camino.
Dopo tutto, erano vicini di casa.
Da vicini di casa, quando tornarono
si scambiarono saluti
sorpresi ma senza malizia.
Lei era lì da prima
e perciò non sembrava un’avventizia
ma, dando il benvenuto a tutti gli ospiti,
si scosse come da un sonno
invernale. Sorrise. Scoprì il seno.
FIRST CALF
It’s a long time since I saw
the afterbirth strung on the hedge
as if the wind smarted
and streamed bloodshot tears.
Somewhere about the cow stands
with her head almost outweighing
her tense sloped neck,
the calf hard at her udder.
The shallow bowls of her eyes
tilt membrane and fluid.
The warm plaque of her snout gathers
a growth round moist nostrils.
Her hide stays warm in the wind.
Her wide eyes read nothing.
The semaphores of hurt
swaddle and flap on a bush.
PRIMO VITELLO
È tanto che ho visto
la placenta appesa sulla siepe
come se il vento soffrisse
e grondasse lacrime insanguinate.
Da qualche parte intorno sta la mucca
con la testa quasi troppo pesante
per il collo teso e inclinato,
il vitello succhia forte a una mammella.
Gli incavi leggeri degli occhi
rovesciano membrane e fluidi.
La placca calda del grugno
si espande intorno alle narici umide.
La pelle resta tiepida al vento.
I suoi occhi larghi non leggono niente.
I segnali del dolore
fasciano e schiaffeggiano un cespuglio.
TRADUZIONE DI MARCO SONZOGNI
Seamus Heaney (1939-2013; Premio Nobel per la Letteratura 1995) è considerato tra i più importanti poeti di lingua inglese del ventesimo secolo e il massimo rappresentante contemporaneo del rinascimento poetico irlandese.
Traversare l’inverno (Wintering Out) viene scritto durante un soggiorno alla University of California a Berkeley e sarà Heaney stesso ad affermare come il tempo speso in California avrà un effetto liberatorio sulla sua poesia: se da un lato i versi si aprono, dall’altro ancor più ricercano le radici dei paesaggi irlandesi che gli appartengono e dove il nominare le cose, ricercarne la topografia o semplicemente richiamare la propria lingua, saranno uno scavo per esaltarne la luce. Traversare l’inverno, però, tende la mano anche a temi politici importanti per l’Irlanda degli anni ’70: in un’epoca cruenta, sanguinosa, intrisa di repressioni e spaccature. Heaney non ne è indifferente e – rientrato a Belfast – cambia il titolo della raccolta. Se originariamente è previsto Winter Seeds (Semi Invernali) è Wintering Out (Traversare l’inverno) a imporglisi poco prima della consegna del manoscritto all’editore: un titolo più denso, evocativo, terrorizzante persino. Ed è in questa raccolta che Heaney decide di confrontarsi direttamente con gli avvenimenti politici e sociali dell’Irlanda del Nord, terra tanto luminosa quanto piegata. L’impegno politico sarà ribadito nella raccolta successiva ma è in Traversare l’inverno che mai come in precedenza, la lingua puntuale e rarefatta di Heaney si affina e si conficca nella realtà. Agli immutabili paesaggi rurali, all’inebriante odore della terra, alla purezza cristallina dell’aria fa da controcanto la realtà più ostile del conflitto.
Alla pubblicazione di Traversare l’inverno la critica affermerà come Heaney sia riuscito a superare i temi delle sue precedenti raccolte attestando, in questa, la propria maturità stilistica; e sarà Heaney stesso a dire come quelle di Traversare l’inverno sono poesie che nascono aldilà della parola e del pensiero. Da singole espressioni ecco infatti nascere interi “wordscapes”, paesaggi di parola: drammi in movimento dove religione, politica, folklore persino e letteratura, collidono e fondono. Che siano gesta umane, oscure torbiere, la vastità degli orizzonti o la sacralità minuta di un luogo caro, in Traversare l’inverno Heaney ci consegna un’opera perfettamente riassunta dalla motivazione del Premio Nobel assegnatogli nel 1995: “un lavoro di lirica bellezza ed etica profondità che esalta i miracoli quotidiani quanto il vivente passato”.
TRAVERSARE IL PURO VERBO
di Alberto Fraccacreta
Nel V canto del Purgatorio, dopo essersi imbattuto in Iacopo del Cassero tra i morti per forza, Dante chiede a Bonconte da Montefeltro il motivo per cui il suo corpo non fu ritrovato a seguito della battaglia di Campaldino. Il condottiero ghibellino racconta che, prima di morire, con la gola squarciata e «sanguinando il piano», nominò Maria e da lì la storia abbastanza nota: l’angelo rivendicò la salvezza dell’uomo «per una lagrimetta», ma il diavolo scatenò una terribile bufera la quale, agitando le correnti rapinose dell’Archiano, riuscì a devastare le sembianze fisiche di Bonconte.
«Oh!», rispuos’elli, «a piè del Casentino
traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino».
(vv. 94-6)
Nel preludio del discorso l’anima salva rimarca le sinuosità geografiche del Casentino – territorio che Dante conobbe bene durante l’esilio –, utilizzando il verbo “traversare” per descrivere il movimento secante dell’Archiano. Traversare un bosco (qui la citazione è ariostesca) significa tagliare in due, aprire un sentiero, dividere le estremità in anima e corpo. Sembra quasi che Dante anticipi psicologicamente la scissione boncontiana in quell’«acqua» che «traversa» la regione fendendola in plaghe differenti. Ecco perché, in una circostanza lirica del tutto diversa, la traduzione di Marco Sonzogni appare più che mai azzeccata: wintering out, ossia traversare l’inverno; non semplicemente svernare, ma uscirne fuori dopo esserci passati, come l’incessante moto di un fiume dentro il cuore della selva. In quel gorgoglio limaccioso si percepisce la difformità, il sentirsi rigenerati e tuttavia coscienti delle sottrazioni, delle perdite anche solo emotive nel lungo passaggio che spinge comunque il poeta ad abbracciare ancora il proprio «piccolo destino», com’è detto nella lirica incipitaria.
Heaney pubblica Wintering out nel 1972, all’età di 33 anni: un dato cristologico – notevole è il peso che il Cristo ha in questa raccolta, citato per direttissima in due occasioni e con riferimento allusivo in altre – e anagraficamente sorprendente se si pensa alle già sorprendenti Death of a Naturalist (1966) e Door into the Dark (1969). Ma la terza silloge è quella di un radicale cambio di rotta, non tanto tematico o stilistico, quanto nello status di poeta che egli comincia a incarnare, nella consapevolezza cioè dell’equipaggio creativo e cerebrale messo in campo (fatto certamente di sfarfallanti intuizioni), nella maggiore versatilità a orientare le nuances in una più decisa saturazione e, aggiungerei, spiritualizzazione dei motivi poetici. Un esempio: in Morte di un naturalista le «uova di rana», simili ad «acqua coagulata/ all’ombra degli argini» (Heaney 2016: 11), sono ancora ciò che sono dal punto di vista fenomenico, foriere di vendette nascoste nella melma. Le «uova fresche» di Ragazzo servo hanno, invece, traversato l’inverno, cioè aggiunto simbolo indessicale, cristallizzato e implicito alla forma corporea. Se le uova di rana erano l’aistheton, le uova fresche portate dal servant boy sono l’eidos, un po’ alla maniera delle scarpe di Van Gogh. Rispecchiano, con Heidegger, la cosalità della cosa: un infiltrazione trascendente più approfondita nelle relazioni terrigne. In tale sfondo nascono i bog-poems, le poesie-torbiera, relative al contatto primigenio con gli antenati e con la tradizione gaelica. In Quercia di torbiera la «lieve pioggerella» inzacchera la carrareccia, apre al legame de profundis con il passato, mentre Edmund Spenser – una sorta di Torquato Tasso della letteratura inglese, ma dotato di minore arguzia – cerca di distruggere la cultura arcaica. Ancora più interessante è L’uomo di Tollund, che suscitò il dissenso del poeta nordirlandese Ciaran Carson e del critico Edna Longley, moglie di Michael. La lettura del libro The Bog People, scritto dall’archeologo danese Peter Glob e pubblicato da Faber and Faber nello stesso anno d’inizio dei Troubles, il 1969 (cfr. Heaney 2008: 157-8), accese in Heaney il parallelo geopolitico Jutland/Ulster con l’uomo allegoricamente trasformato in un martire precristiano («nel corpo preservato di un santo»), come ha sottolineato molto bene Sonzogni (cfr. Heaney 2016: 977-8). Siamo nel punto più prossimo a North, opera della piena maturità. Il tema, forse par exellence, del poeta di Castledawson si innerva entro una simile prospettiva: trovare un aldilà confacente al proprio pensiero lirico (cfr. Heaney 2018) nel momento in cui si instaura il parallelo di origine modernista, innescato da Eliot, con le forme e le strutture della classicità o anche solo del passato storico. North (1975) e Station Island (1984) sono lo sforzo di dedurre questo altrove nell’infera rivisitazione del lontano millenario e del tragico hic et nunc, almeno finché nel “terzo tempo” non subentrerà lo stacco orizzontale operato dal latino virgiliano, vox media metafisica tra l’ancestrale e il cristiano, il credibile e il politically correct.
Già danteschi in tale “primo tempo” – ma nell’accezione mandel’stamiana del termine (cfr. Mandel’stam 2015) rispecchiante la pura sonorità –, sono almeno due i principali poli ispirativi in Wintering out che rappresentano senz’altro due punti focali dell’intera poetica heaniana: l’esaltazione nominale e la donna latrice di un messaggio di pace e di integrità interiore, grazie all’«intercessione musaica» (Heaney 2016: 975) nella gradazione più generale di una «feminine intercession» (Parker 1993: 110).
L’esaltazione nominale esplode in Anahorish, lirica appartenente al dinnseanchas, «genere letterario tradizionale irlandese di narrazioni di storie e leggende sulle origini dei nomi di luogo» (Heaney 2016: 973). Nominalismo tanto più urgente – non vacuo flatus vocis, per intenderci – perché legato a temi di carattere politico, la cui intrinsichezza tra i binomi vocale/Irlanda e consonante/Inghilterra (manifestata in Preoccupations, 1980; Heaney 1996) sembra preludere a una certa catacresi espressiva con «il verbo, il puro verbo» (Field Work, 1979; Heaney 2016: 187) deputato in anticipo al ruolo – rimbaldiano? – di risematizzatore, o di ristabilitore semantico, dei significanti. Il «prato di vocali» di Anahorish dà corpo e destino all’idea galleggiante del clear, che abita luogo e pronuncia: nomen omen, uno dei mantra più efficaci della poesia di tutti i tempi, sta a significare che esiste un senso più profondo nelle catene fonematiche di cui la parola in sé, nella sua interezza, è garante. I suoni sono musica ipnotica (come sarà il rain stick in The Spirit Level, 1996), doni della pioggia che si rifrangono nel continuo scandagliamento.
La fulva acqua gutturale
pronuncia se stessa: Moyola
è il suo stesso spartito e consorte,
si coniuga con il luogo
nell’enunciazione,
musica d’ancia, un’antica cornamusa
che alita le sue foschie
nelle vocali e nella storia.
Un fiume gonfio,
un richiamo d’amore sonoro
sale a darmi diletto, ricco epulone,
avido accaparratore di terreno comune.
(Doni della pioggia, IV)
Mi è capitato recentemente di leggere nel profilo biografico di Gorni (2008: 11) che il vero cognome di Dante era, probabilmente, Alaghieri con talune varianti vernacolari: Alageri, Allaghieri, Adegherii, Aldighieri, Aldigherri. Queste variazioni, appartenenti all’incerta grafia del volgare, sono come slittamenti di senso dell’identità dantesca, i quali Heaney/Sweeney/Incertus non può non condividere nella sua purezza fonetica. Ciò giustifica anche il valore sillabico portatore di beatitudine virtuale: «Ma quella reverenza che s’indonna/ di tutto me, pur per Be e per ice,/ mi richinava come l’uom ch’assonna» (Par. VII 13-5). In Broagh la «nota di intima esclusività» (Heaney 2016: 974) dei nativi che, soli, riescono a intonare la sillaba gh, sostanzia il «basso rullio/ tra i sambuchi battuti dal vento» durante un acquazzone. La conclusione improvvisa della scarica di pioggia equivale così al brusco finale del toponimo. La musica sensibile, simile a un paradisiaco balbettio di natura, passa attraverso la donna intermediaria del dono spirituale: una «figlia vestale» dal nome di «muschio potente e perduto» riporta la «musica scomparsa», sotto la lente d’ingrandimento del contrary progression (cfr. Hart, 1993), tipica del pensiero heaneiano che alterna «richiami all’insurrezione e alla lotta ad accostamenti pacifici» (Heaney 2016: 976). Entra così – di là dall’acceso nominalismo – la presenza femminile, intrisa di realtà matrimoniale e di concretezza tutt’altro che stilnovista, e occupa tutta la seconda parte della silloge. Il giorno del matrimonio, la madre dello sposo, un difficile soggiorno estivo, le serenate, la donna della spiaggia, due casi di filiazione illegittima che dànno adito a un potente parallelo cristologico: ora il discorso è in mano all’assenza («distanze lunari/ percorse al di là dell’amore», «a sei miglia di lontananza»), alla separazione avvertita nonostante gli insistenti rimandi della realtà tangibile. L’eterno femminino è sì, come ha argomentato Sonzogni (cfr. Heaney 2016: 980), interventivo e redentivo («Questi sinceri e fragili boccioli/ presto si guastano in un dolce crisma.// Abbine cura. Lenisci la ferita»), ma possiede anche il carattere dell’inconoscibilità dell’amore, il segno emblematico di un contenuto inaccessibile, il quale subito si connette, quasi per osmosi, all’idea di una possibile trascendenza. La presenza è, dunque, un differire la comprensione dei mysterii, come lo scuotersi «da un sonno invernale». Ecco che ritorna in Westering, lirica conclusiva del testo – ripresa a singolar tenzone da Paul Muldoon nel suo libro d’esordio –, il senso del viaggio al termine dell’inverno: la Pasqua californiana, il parallelo con il Donegal, il simbolismo lunare (quindi ancora femminile e rituale), il ricordo del mysterium paschale, una domanda sospesa sulle umane traversie, analoga alla «gravità che si allenta,/ Cristo aggrappato con le sue mani».
Siamo grati a Marco Sonzogni per questo nuovo, necessario tassello nella ricostruzione in lingua italiana dell’opera di Seamus Heaney, che arricchisce la nostra conoscenza del bardo irlandese e ci permette di salutare la sua poesia con vera ammirazione, ancora.
Riferimenti bibliografici
Guglielmo Gorni, Dante: storia di un visonario, Laterza, Roma-Bari 2008.
Henry Hart, Seamus Heaeny, Poet of Contrary Progressions, Syracuse University Press, New York 1993.
Seamus Heaney, Attenzioni – Preoccupations. Prose scelte 1968-1978, introduzione e cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Piero Vaglioni, Fazi, Roma 1996. [Preoccupations: Selected Prose 1968-1978, Faber and Faber, London 1980.]
Seamus Heaney, Poesie scelte e raccolte dall’Autore, a cura di Marco Sonzogni, saggio introduttivo e cronologia di Piero Boitani, «I Meridiani», Mondadori, Milano 2016. [New Selected Poems 1966-1987, Faber and Faber, London 1990; New Selected Poems 1988-2013, Faber and Faber, London 2014.]
Seamus Heaney, Eneide: Libro VI, a cura di Marco Sonzogni, traduzione di Leonardo Guzzo e Giovanna Iorio con la partecipazione di Alessandro Fo, Marco Sonzogni, Teresa Travaglia, prefazione di Alessandro Fo, postfazione di Teresa Travaglia e con due note critiche di Rachel Falconer e Marco Fernandelli, il Ponte del Sale, Rovigo 2018. [Virgil, Aeneid: Book VI, Faber and Faber, London 2016.]
Osip Mandel’stam, Conversazione su Dante, il melangolo, Genova 2015.
Dennis O’Driscoll, Stepping Stones: Interviews with Seamus Heaney, Faber and Faber, London 2008.
Michael Parker, Seamus Heaney: The Making of the Poet, Macmillan, Basingstoke 1993.
Seamus Heaney (Tamniaran 1939, Dublino 2013), è tra i maggiori poeti del ventesimo secolo. Nato nell’Irlanda del Nord, crescerà nella Contea di Derry per poi vivere a Dublino dal 1976 sino alla sua morte, pur intervallando soggiorni negli Stati Uniti tra il 1981 e il 2006.
Autore di oltre venti volumi tra raccolte di poesia, critica e traduzioni, ha curato inoltre una moltitudine di antologie tutt’ora in uso. Ha insegnato alla Harvard University (1981-2006) ed è stato Professor of Poetry a Oxford (1989-1994). Innumerevoli i premi per la sua produzione poetica sia in patria che all’estero, non ultimo il Premio Nobel per la Letteratura nel 1995. La sua intera produzione è custodita alla National Library of Ireland.
Marco Sonzogni, saggista, traduttore e poeta, è docente di lingua e letteratura italiana alla Victoria University of Wellington, in Nuova Zelanda.
GCE/POESIA – Collana diretta da Fabiano Alborghetti
Selezione a cura di Luigia Sorrentino
La pubblicazione con testo a fronte di Traversare l’inverno colma una lacuna a proposito della poesia di Heaney, di cui resta da tradurre nella nostra lingua il solo Field work, di cui ci aspettiamo a presto un’analoga, ottima traduzione a cura di Sonzogni. Peccato che il volume non sia stato curato tipograficamente con la dovuta attenzione per i vari refusi tipografici ivi presenti. Ad una prima e frettolosa scorsa ne sottolineo alcuni: il si traferisce (si trasferisce) di terza di copertina, il Professor or Rethoric (Professor of Rethoric) nella medesima terza di copertina, il Sante Brigida (Santa Brigida) di pag.179. Vero è che non toccano la sostanza dell’impianto generale, ma non depongono a favore della lunga fatica del traduttore.
Ha ragione Ciro Postiglione. Ma ogni buon libro ha i suoi refusi. Grazie per aver letto con attenzione il libro.
Grazie Signor Postiglione per la cura nella lettura. I refusi sono l’incubo peggiore per un editore (e un autore) e nonostante il pettine attentissimo fatto di letture e riletture nostro malgrado ci perseguitano. Ho inoltrato immediatamente in casa editrice perché vengano corretti in ristampa. La ringrazio davvero.