LA FLAGELLAZIONE DI CRISTO
commento di luigia sorrentino
Voi, cari lettori, siete interessati all’Opera di un artista che più di ogni altro al mondo ha influenzato la cultura visiva europea, da Rembrant a Velasquez, fino a Vermeer?
Qualcuno forse vi dirà che Caravaggio era nato a Milano nel 1571 […] e fin qui niente da ridire… A un certo punto, parlando della sua vita, aggiungerà che “tra l’ottobre del 1606 e il giugno del 1607 l’artista si rifugiò a Napoli in fuga da Roma dove era ricercato per omicidio“, e voi vi spaventerete pensando che Caravaggio sia stato un bieco assassino, una specie di anima nera. Ma non è così, le cose non stanno esattamente così. Leggendo qui, su news-art.it ad esempio – ma saprete dove meglio documentarvi – vi è un altro punto di vista sulla vicenda. Forse dopo aver letto l’articolo subentrerà in voi una progressiva umanizzazione dell’artista Michelangelo da Merisi, detto Caravaggio e si aprirà davanti ai vostri occhi, il dramma umano del genio dotato di un’innocenza che si è manifestata senza alcun timore.
Prima di definire Caravaggio un assassino, è tempo – è tempo – di riflettere su come lui sentiva e vedeva il mondo, perché il cambio di percezione della realtà che ci ha indicato, è la sola vera eredità che ci ha lasciato.
La mostra Caravaggio Napoli, curata da Maria Cristina Terzaghi e Sylvain Bellenger promossa dal Museo e Real Bosco di Capodimonte e dal Pio Monte della Misericordia, visitabile a Napoli fino al 14 luglio 2019, approfondisce il periodo napoletano di Caravaggio e ci spinge nella più giusta direzione.
L’esposizione mette a confronto sei opere del Merisi, provenienti da istituzioni italiane e internazionali, e 22 quadri di artisti napoletani influenzati dalla pittura del Caravaggio.
Noi ci soffermeremo, qui, brevemente, su una sola opera di Caravaggio, quella custodita e esposta in mostra permanente al Real Museo di Capodimonte: La flagellazione di Cristo.
La celeberrima pala, conservata precedentemente nella chiesa di San Domenico Maggiore, è un’opera dalla drammaticità traboccante, anche sotto il profilo psicologico.
Al centro, svetta solenne, la figura del Cristo. Sembra fuoriuscire dalla tela attraversata dall’abbondanza della forma e della luce. La sua plasticità è pregna di una presenza che implora di essere riconosciuta. Nel suo corpo è racchiusa la forza della visione di colui che ha realizzato il dipinto. Sul corpo nudo del Cristo non vi è ancora segno di violenza. Nessuna ferita. Ma, al tempo stesso, la figura è in sofferenza, è in un dolore che ha già conosciuto.
Fra pochi istanti i suoi aguzzini legheranno quel corpo alla colonna per flagellarlo.
Eppure, lui che sembra non reggersi in piedi, è già libero nonostante si trovi nell’attimo della suprema prostrazione e umiliazione.
Di lì a poco, gli uomini infieriranno sul suo corpo, dilaniando la sua carne.
L’immagine più vera e intensa dell’agnello sacrificale che ci sia mai stata offerta.
post scriptum
Quella che leggete qui è un’interpretazione soggettiva de La flagellazione di Cristo.
“Caravaggio – scrivono alcuni critici – sapeva di essere andato incontro all’autodistruzione. Egli è l’autore che si firma “nel sangue” – vedi la decollazione del battista a Malta -. Il suo testamento morale è rappresentato dal quadro (il suo ultimo) David con la Testa di Golia ( Galleria Borghese).
La testa mozzata del gigante è il suo autoritratto. Il David invece, è con ogni probabilità un suo ritratto giovanile fatto a memoria poco prima di morire.
– Io – ci dice Caravaggio in quel quadro – ero innocente come David, ma ora sono dannato – . Lui non è innocente e non si sentiva tale. I suoi ultimi quadri ci indicano un’anima che brucia.”
Certo, Caravaggio si sentiva “dannato”…eppure, io non riesco a non vedere in quel volto del Cristo, anche il volto interiore di Caravaggio.