LE ONDE DEL DESTINO DI INGEBORG BACHMANN
commento e traduzione di alessandro bellasio
Tra le voci più alte e le esperienze più decisive della grande poesia europea del XX secolo, Ingeborg Bachmann (Klagenfurt, 1926 – Roma, 1973) ha saputo declinare in molteplici forme il suo talento letterario, dando vita non solo alle indimenticabili liriche di “Invocazione all’Orsa Maggiore“, ma anche a romanzi vibranti e tormentati come il celebre “Malina” (primo dell’incompiuto ciclo dei Todesarten, i “modi di morire”), così come a lucidi e accorati volumi di racconti (“Il trentesimo anno” e “Tre sentieri per il lago”), oltre che a drammi e saggi radiofonici, tra i quali ricordiamo “Il buon Dio di Manhattan”, o “Il dicibile e l’indicibile“, testimonianza quest’ultimo della profondità filosofica, oltre che critica, della ricerca perseguita dalla poetessa austriaca.
In “Herzzeit”, pubblicato in Italia con il titolo “Troviamo le parole”, è inoltre radunato il vorticoso, febbricitante scambio epistolare che la Bachmann intrattenne con Paul Celan – il grande poeta della Bucovina a un tempo amante, amico, confessore e sodale.
Proponiamo qui la poesia di apertura della raccolta “Die gestundete Zeit“ (Il tempo dilazionato), con la quale Bachmann esordì nel 1953, appena ventisettenne, sbalordendo pubblico e critica per la maturità e la perfezione del dettato.
AUSFAHRT
Vom Lande steigt Rauch auf.
Die kleine Fischerhütte behalt im Aug,
denn die Sonne wird sinken,
ehe du zehn Meilen zurückgelegt hast.
Das dunkle Wasser, tausendäugig,
schlägt die Wimper von weißer Gischt auf,
um dich anzusehen, groß und lang,
dreißig Tage lang.
Auch wenn das Schiff hart stampft
und einen unsicheren Schritt tut,
steh ruhig auf Deck.
An den Tischen essen sie jetzt
den geräucherten Fisch;
dann werden die Männer hinknien
und die Netze flicken,
aber nachts wird geschlafen,
eine Stunde oder zwei Stunden,
und ihre Hände werden weich sein,
frei von Salz und Öl,
weich wie das Brot des Traumes,
von dem sie brechen.
Die erste Welle der Nacht schlägt ans Ufer,
die zweite erreicht schön dich.
Aber wenn du scharf hinüberschaust,
kannst du den Baum noch sehen,
der trotzig den Arm hebt
– einen hat ihm der Wind schon abgeschlagen
– und du denkst: wie lange noch,
wie lange noch
wird das krumme Holz den Wettern standhalten?
Vom Land ist nichts mehr zu sehen.
Du hättest dich mit einer Hand in die Sandbank krallen
oder mit einer Locke an die Klippen heften sollen.
In die Muscheln blasend, gleiten die Ungeheuer des Meers
auf die Rücken der Wellen, sie reiten und schlagen
mit blanken Säbeln die Tage in Stücke, eine rote Spur
bleibt im Wasser, dort liegt dich der Schlaf hin,
auf den Rest deiner Stunden,
und dir schwinden die Sinne.
Da ist etwas mit den Tauen geschehen,
man ruft dich, und du bist froh,
daß man dich braucht. Das Beste
ist die Arbeit auf den Schiffen,
die weithin fahren,
das Tauknüpfen, das Wasserschöpfen,
das Wändedichten und das Hüten der Fracht.
Das Beste ist, müde zu sein und am Abend
hinzufallen. Das Beste ist, am Morgen,
mit dem ersten Licht, hell zu werden,
gegen den unverrückbaren Himmel zu stehen,
die ungangbaren Wasser nicht zu achten
und das Schiff über die Wellen zu heben,
auf das immerwiederkehrende Sonnenufer zu.
PARTENZA
Dalla terra si alzano fumi.
Non perder di vista le piccole case dei pescatori,
perché il sole sprofonderà
prima che tu abbia percorso dieci miglia.
Le acque scure, le acque dai mille occhi
sbattono le ciglia di schiuma bianca,
per scrutarti, a lungo e a fondo,
per trenta giorni ti terranno d’occhio.
Anche se la nave beccheggia paurosamente
e procede malferma, tu
rimani tranquillo sul ponte.
A tavola adesso mangiano
pesce affumicato;
poi, piegati sulle ginocchia,
gli uomini aggiusteranno le reti,
ma la notte si dormirà,
un’ora o due ore,
e le loro mani diventeranno leggere,
liberate dall’olio e dal sale,
leggere come il pane dei sogni,
che in sogno spezzano.
La prima onda della notte si abbatte sulle rive,
la seconda sta già per travolgerti.
Ma se guardi bene in alto
riesci ancora a scorgere l’albero,
ha un braccio che ostinatamente resiste
– l’altro gliel’ha spezzato il vento
– e tu pensi: per quanto,
per quanto tempo ancora
potranno questi legni malmessi opporsi agli elementi?
Della terra non c’è più traccia all’orizzonte.
Avresti dovuto aggrapparti con la mano alla sabbia delle rive,
o allacciarti con un ricciolo agli scogli.
Schiumando fra le conchiglie, i mostri del mare scivolano
sul dorso delle onde, cavalcano e riducono
in pezzi i giorni con lucide sciabole, una traccia rossa
rimane sull’acqua, e lì ti piega il sonno,
sui resti delle tue ore,
e ti vengono meno i sensi.
Ma ecco, sopra ti chiamano,
è successo qualcosa alle gomene, e tu sei felice
che ci sia bisogno di te. La cosa più bella
è la fatica sulle navi,
che non smarriscono la rotta,
è annodare le funi, attingere l’acqua,
rinforzare lo scafo e avere cura del carico.
La cosa più bella è essere stanchi e la sera
accasciarsi sfiniti. La cosa più bella
è rischiararsi al mattino, con le prime luci dell’alba,
levarsi contro il cielo impassibile,
non badare alle acque ostili,
e condurre la nave oltre le onde,
verso le rive del sole e il loro eterno tornare.
Traduzione di Alessandro Bellasio
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Ingeborg Bachmann (1926-1973) è una delle maggiori scrittrici in lingua tedesca del Novecento. Autrice di romanzi, poesie, opere teatrali e giornalista, ha trascorso lunghi periodi della sua vita in Italia, paese di cui era innamorata. Fra le sue opere più famose di narrativa, ricordiamo Malina (Adelphi, 1973), Il trentesimo anno (Adelphi, 1985) e Invocazione all’Orsa Maggiore (SE, 1994).