Nota di Alberto Pellegatta
Il 2019 è un anno di festa per la cultura spagnola, e non solo perché il cambio politico ha favorito un clima di distensione dopo lo scontro territoriale e la crisi economica, ma perché, a otto anni dalla chiusura per mancanza di fondi, ha riaperto il museo dedicato al maggiore scultore spagnolo del secondo Novecento, Eduardo Chillida. Un progetto espositivo avviato dall’artista stesso nel 1983, quando acquisì la tenuta dove si ambienta questa meraviglia: «Una volta ho sognato un’utopia: trovare uno spazio dove le mie sculture potessero riposare e la gente potesse camminare tra loro come per un bosco».
Il museo stesso diventa scultura, in pacificato dialogo con la natura. Il visitatore è invitato a percorrere i giardini seguendo la propria intuizione, lasciandosi guidare dalle opere – più di quaranta monumentali. Nel casale che fu casa e studio dell’artista, una mostra temporanea espone la serie più nota di Chillida,Pettine del vento – la stessa del celebre monumento a picco sul mare di San Sebastian: le mani che pettina gli elementi naturali, come in Dylan Thomas: «Nessuna onda può pettinare il mare/eincanalarsi in saldo sentiero… Vieni, stai per perdere la tua freschezza./Vuoi scivolare da te nella rete,/o devo io trascinarti/nella mia esotica compostezza?».
Non algida astrazione intellettuale, quindi, ma ricerca prensile e concreta che riconduce la ruvidità del ferro alle forme del sonno lirico e alla velocità del contrappunto – come negli amati Bach e Mozart, anche in Chillida c’è poco spazio per l’adagio.
Nato a Sen Sebastian nel ‘24 e morto nel 2002, dopo gli studi in architettura si trasferisce a Parigi per creare la sua prima scultura, in gesso – ne seguiranno altre in pietra e poi, dagli anni Cinquanta,in ferro. Nel 1954 è premiato alla Triennale di Milano e due anni più tardi partecipa alla mostra Sculpture and Drawings from Seven Sculptors nel Guggenheim di New York. Nello stesso anno ottiene il premio internazionale della Biennale di Venezia. Partecipa a diverse personali negli Stati Uniti – è uno degli autori europei più apprezzati da quelle parti – e alla Documenta di Kassel. Nel 1980 gli è stata dedicata un’importante antologica al Guggenheim di New York, che ha reso evidente la sperimentazione continuadell’artista: dal legno sensuale all’intuizione del cemento, dall’alabastro alla terra. Senza dimenticare la fertilità di disegni eincisioni, che hanno sempre accompagnato, indipendenti e autonomi, il lavoro scultoreo.
Le opere più compresse dello scultore sono anche quelle più drammatiche, che si inteneriscono nei dettagli minerali. Le ceramiche a blocco sembrano solo apparentemente incise da forme suggestive, in realtà sono incastri di dita, chiusure di pugni– come suggerisce l’opera grafica. Sarà un caso che nei primi lavori le dita incastrino le falangi in pugni chiusi e che negli anni successivi e democratici le mani si aprano fino a pettinare il cielo?
Mai a calco o lavorato in fusione, il metallo è stato forgiato direttamente dell’artista in un corpo a corpo incandescente – un metodo che rimonta al gesso e alla terracotta, alla pietra -, ottenendo dalla materia flessioni e atteggiamenti naturali. La ricercata ossidazione delle opere potrà aiutare a riconoscere le più antiche, quelle più scure: la «luce nera che è la nostra». Il ritmo del pensiero contribuisce a renderle sonore – una delle più grandisi intitola proprio De musica III. La tensione delle piccole sculture preziosamente premute, che si chiudono in soli venti centimetri, si mantiene intatta anche a grande scala: a parete vicino al Museo di arte contemporaneo di Barcellona, a Gijon con l’Elogio del horizonte, a Guernica con Gure Aitaren Etxea, a Madrid con Luogo d’incontro e negli Stati Uniti all’esterno del Fine ArtsMuseum di Houston e all’entrata del Morton Symphony Center di Dallas. Nella capitale catalana, la galleria Mayoral espone in queste settimane le sculture di piccolo formato, deliziose argille e terrecotte degli anni Settanta e Novanta che indagano il corpo più originale dell’opera dello scultore basco. Dialoghi tra materia e vuoto, dalla cui frizione l’artista estrae la luce, che a sua volta genera spazi e volumi. Opere irritate e liriche insieme, prive di retorica.
Lettore raffinato e amico di Jorge Guillen dal 1971, quando coincisero come visiting professor a Harvard, trovò nella poesia una corrispondenza per il proprio lavoro, come nel verso dell’amico che ripeteva a proposito della scultura: «la profondità è l’aria».
Museo Chillida Leku
20120 Hernani – Spagna
Tutti i giorni dalle 10 alle 20
Martedì chiuso