DENTRO CARAVAGGIO
DI RICCARDO PRENCIPE
“Caravaggio Napoli”, titolo essenziale, che tende quasi a fondere i due nomi, senza preposizioni.
Entrando in mostra ci si rende subito conto della cura scenografica che vi hanno riposto i curatori: ospitare i dipinti di Caravaggio e dei caravaggeschi, in sale completamente scure,“dipinte di negro”. Era così infatti che il maestro lombardo colorava le pareti delle sale studio dove lavorava. Egli Lo faceva in modo da far cadere la luce dalle alte finestre sui soggetti, lo stesso effetto ottenuto oggi artificialmente nei teatri, evitando dispersioni visive, mettendo gli accenti giusti sui chiaroscuri ed enfatizzando i colori. L’intento è chiaro: ricreare un’atmosfera simile agli ambienti in cui queste opere hanno visto la luce.
L’altra novità: non inserire la mostra nell’ambito del percorso museale, bensì trattarla come un organismo autonomo rispetto al museo. La mostra ha infatti un ingresso a sé stante, un’isola di chiaroscuro nella sala Causa, a piano terra.
Così facendo si è guadagnato in spettacolarità: sarebbe stato impossibile, o assai laborioso, ottenere lo stesso effetto nelle sale dell’esposizione permanente. D’altro canto si è perso il discorso storico: uno dei grandi pregi del secondo piano di Capodimonte è sicuramente quello di farci vedere il prima e il dopo rispetto a un passaggio che lascia tracce paragonabili aun’esplosione atomica nella pittura napoletana. Quest’esplosione risulta oggi avulsa dal contesto.
Prima della mostra, al secondo piano del museo, si passava da sale piene di colori e di pose manieriste, tipiche della cultura pittorica napoletana del secondo Cinquecento, all’assoluta sporcizia delle carni e agli scuri ingagliarditi posteriori al passaggio di Caravaggio in città, la chiave di volta era la Flagellazione. Al momento questo anello di passaggio, questo shock termico, è impercettibile, essendo stata sostituita la Flagellazione con l’Annuciazione di Tiziano.
La mostra ha destato non poche polemiche in merito al rifiuto di spostare la tela delle Sette Opere di Misericordia, esposta a Napoli, nella chiesa del Pio Monte della Misericordia.
Senza entrare nel merito aggiungerei che Nessuno (o quasi) ha storto il naso di fronte ai numerosi spostamenti della tela delle Sette Opere di Misericordia negli anni precedenti. Esistono foto da brivido in cui si vede la Tela delle Sette Opere trascinata alla buona e senza protezioni per i vicoli di Napoli, quasi come fosse uno stendardo della Madonna dell’Arco..
Caravaggio arriva a Napoli a seguito di un omicidio, e questo è cosa nota, nel 1606 infatti pugnala per un futile motivo legato al gioco della pallacorda, tale Ranuccio Tommasoni, in seguito ad una zuffa.
Molti i dipinti presenti in mostra, distribuiti nelle sei sale. Per ragioni di spazio ci concentreremo principalmente sui dipinti di Caravaggio.
Sala 2 (tema: la Flagellazione)
Nella sala vengono messe a confronto la Flagellazione esposta permanentemente a Capodimonte (Fig. 1) con la tela dallo stesso soggetto, di Rouen (Fig 2)
La tela napoletana (Fig. 1), a dirla senza troppi eufemismi, non teme il confronto con quella francese, anzi. In essa alberga uno spaventoso concentrato di verità della carne e di moralità del mestiere, sia esso mestiere di dipingere o torturare. Gli aguzzini vengono infatti rappresentati come manovali al lavoro. Il primo sulla destra ha appena calciato Gesù alle gambe per farlo inginocchiare, quello a terra sta preparando un fascio di radici, lo stesso fascio che l’aguzzino di sinistra sta adoperando per colpire Cristo, trattenendolo per i capelli.
La cosa che più impressiona è forse il sangue sottopelle che traspare dallo sterno di Gesù, come se il mento vi fosse sbattuto contro. Caravaggio ribadisce il suo punto di vista: prima di essere Cristo era innanzitutto un uomo.
Passando alla Flagellazione di Rouen (Fig. 2): è come se ci fosse un edulcoramento della violenza, una sorta di versione accomodata, dove le espressioni e i gesti di violenza vengono attenuati, smorzati. L’attenzione cade sui boccoli dei capelli di Cristo, sulle pieghe delle vesti ed i panneggi; mancano i lividi delle corde strette agli avambracci della tela napoletana (Fig. 1).
Qui viene proprio da ripensare ai dipinti della fase romana, dove quella violenza post 1606 era ancora in nuce.
Sala 3 (tema: Salomé)
Altri due soggetti di Caravaggio a confronto: la Salomé con la testa del Battista di Londra e quella di Madrid.
Nella tela di Londra (Fig. 3) Caravaggio raffigura il momento immediatamente precedente alla deposizione della testa di San Giovanni Battista nel grande bacile di bronzo sorretto da Salomé. Tra il soldato nerboruto e la donna si interpone la vecchia Erodiade (la “mente” del delitto), che affiora dalla penombra. Al tema principale se ne aggiunge un secondo: la Vanitas, i due visi (quello della giovane Salomé e della vecchia Erodiade) messi su uno stesso piano. Un meraviglioso sottotesto: gioventù e vecchiaia a contrasto.
Veniamo ora alla versione di Madrid (Fig. 4): Se i napoletani amano tanto Carlo di Borbone (impropriamente chiamato Carlo III, titolo che ottenne solo al suo ritorno in Spagna, quando non era più Re di Napoli) di sicuro c’è qualcosa che al tanto biasimato Re non possono perdonare: l’aver strappato a Napoli questo capolavoro supremo, per portarlo con sé in Spagna. La tela infatti si trovava in città fino al 1759, anno di partenza del Re per Madrid.
A mio parere il dipinto più bello della mostra. In primis la gravità dello sforzo viene espressa mediante la figura dell’aguzzino in modo mirabile, la sorpresa per il gesto fatto e l’incoscienza di un omicidio comandato. Egli guarda la testa della sua vittima con sorpresa e senso del dovere allo stesso tempo. La vecchia Erodiade è diventata quasi un fantasma, all’aria si è aggiunto uno strato vaporoso che fa affiorare le figure da una sorta di teporeombroso.
Salomé ha uno scollo che traborda, una delle due fasce arancioni è ancora slacciata, ed allude al suo ruolo di seduttrice in questa vicenda biblica; mentre il drappo rosso tanto caro al nostro pittore riempie la tela come un grumo di sangue. Ma il pezzo più bello del dipinto, che manca alla tela di Londra, è quell’oasi di silenzio, del tutto irrilevante ai fini della storia. Quella striscia di tela lasciata completamente vuota al fianco di Salomé, una “vertigine di anestesia”. La spezia più inaspettata è un alone di luce verde parmigianinesca, migrato dalla vicina Antea di Capodimonte?
Il punto più alto della mostra.
Sala 5 (tema: San Giovanni battista)
La sala espone il San Giovanni Battista della Galleria Borghese(Fig. 5).
“Il dipinto che gli avrebbe fruttato il perdono”, Caravaggio eseguì quest’opera per il Cardinale Borghese, affinché potesse ridargli la libertà, negatagli dopo la condanna a morte, firmata dallo stesso Cardinale.
Secondo alcuni il dipinto non raffigurerebbe San Giovanni Battista, ma il buon pastore, soggetto che tornerebbe alla perfezione con i motivi per cui il quadro è stato eseguito.
Il buon pastore ha una mano che frena l’altra (trattenendo il polso), in riferimento alle maldicenze e le pressioni ricevute dal cardinale per non firmare il perdono.
Ricordo l’insistenza del prof. Bologna durante le sue lezioni, su una frase: Caravaggio disse che
“tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori come di figure”.
Ciò che contava per il genio lombardo era semplicemente: la buona “manifattura”.
Nel dipinto vediamo tre figure che spiccano, e tre colori dominanti:
Un ragazzo di campagna, un drappo rosso e una capra (che poi si tratti di una pecora appenninica, un San Giovanni o un Buon pastore non cambia il senso della “manifattura” a cui si riferiva il maestro).
La capra si trova alla stessa altezza del ragazzo, il pittore li ha dipinti con la stessa cura, la stessa attenzione, e per entrambi i corpi dimostra la medesima noncuranza prospettica, sia il corpo del ragazzo che quello dell’animale risultano scorciati senza particolare cura, e sono posti allo stesso livello, morale e stilistico.
Una cura immensa è riposta nelle pieghe del drappo rosso, che giganteggia esattamente come il fratello della Morte della Vergine al Louvre, un immenso utero che è anche un presagio rosso della morte per decapitazione del santo.
Fanno da basso continuo le meravigliose foglie e il potentissimo tronco d’albero riverso, su cui si adagia il protagonista. Non c’è gerarchia, anche le foglie e il tronco hanno un’importanza visiva pari a quella del santo. E pare quasi che il pennello del pittore vi abbia indugiato con la stessa cura, se non addirittura maggiore, rispetto al protagonista.
Sala 6 (la Sant’Orsola)
Altra tela napoletana rimasta in patria, nonostante il lungo viaggio iniziale, che la portò fino a Genova, la Sant’Orsola confitta dal tiranno (Fig. 6).
Tra le tele più oscure del Maestro, insieme a quelle siciliane, in questo gruppo di opere il colore sembra languire e affiorare prepotentemente da una nera palude.
La donna sembra quasi sorpresa, più che dolente, dal colpo di freccia inferto, a una distanza terribilmente ravvicinata, uno “sparo” a freddo dal generale unno (Attila, o chi per lui). La leggenda vuole infatti che alla Santa, incontrati gli unni a Colonia, fosse stato imposto un matrimonio con il loro Re. Costei non accettò, quindi fu messa a morte.
L’opera ebbe un karma conservativo particolarmente negativo sin dal principio, pare infatti che l’addetto al trasporto via mare ebbe l’idea malsana di mettere il quadro ad asciugare al sole, si rese subito necessario un restauro ad opera di Caravaggio stesso.
Pare si tratti dell’ultima opera in assoluto di Caravaggio, colpito da una febbre malarica sulla via del ritorno a Roma, sua patria acquisita, dopo aver finalmente ricevuto il perdono.
Nell’occasione della mostra del 2004 un portentoso restauro riesumò alcuni dettagli di questa tela. Tutti vedemmo per la prima volta una mano sporgere tra lo scherano e la santa, un tentativo estremo e mal riuscito, da parte di uno dei personaggi retrostanti, di salvare Sant’Orsola, di far desistere il tiranno da quell’atroce colpo a distanza ravvicinata.
E dietro, quasi in punta d piedi, Caravaggio stesso a scorgere la scena. Il pittore tratta la morte di una santa come l’atroceesecuzione di una donna, che tutti, egli compreso, avrebbero potuto osservare.
A distanza di anni, personalmente ho rivisto con occhi nuovi la figura del pittore che probabilmente incontrò Galileo, che assistette al rogo di Giordano Bruno e che in silenzio perpetuò la loro stessa battaglia.
Non posso tuttavia chiudere questa breve descrizione della mostra senza accennare ai due grandi assenti: Raffaello Causa e Ferdinando Bologna.
La mostra interessa un’ala del museo dedicata allo storico dell’arte ed ex sovrintendente Raffaello Causa, scomparso nel 1984.
Costui fu tra i pionieri di uno sperimentalismo all’insegna dell’innovazione in molte esposizioni napoletane. In particolar modo Causa fu fautore di un nuovo modo di riavvicinare l’arte contemporanea e quella antica. Questo modo di esporre che definirei “contrastivo” è oggi tanto in voga. Nel 1978 Raffello Causa contribuì alla collezione d’arte Contemporanea del Museo,osando non poco, affiancando il grande Cretto Nero di Alberto Burri (allora vivente) ai dipinti Caravaggeschi, seguendo la volontà dell’artista stesso.
La nostra mostra si chiude con una dedica, anche se poco evidenziata, sul Colophon della mostra, forse sarebbe stato ancora più bello vederla a grandi lettere all’inizio della mostra, e vengo al secondo grande assente: Ferdinando Bologna, tra gli storici dell’arte più rappresentativi di una fetta abbondante del secolo scorso, e di quello presente, scomparso di recente, nonché sostenitore di una storia dell’arte che sia insieme letteraria, poetica e scientifica al tempo stesso.
Bologna fu il curatore di un’altra grande mostra su Caravaggio, nello stesso Museo di Capodimonte, intitolata “Caravaggio e l’ultimo tempo” (nel 2004), oltre che autore di uno dei testi metodologicamente più importanti sul pittore: “l’incredulità di Caravaggio”.
Desidero ringraziare: il direttore Sylvain Bellenger, il prof. Stefano Causa le cui dritte nei miei confronti durano ormai da numerosi lustri, Ferdinando Bologna per le sue impareggiabili lezioni sull’argomento. Le amiche Linda Martino, Alessandra Rullo, Giovanna Bile e Loredana Ianora. Gli studenti del Liceo Classico Giordano Bruno di Maddaloni da cui “ancora imparo”.
“Caravaggio Napoli”
Dal 12 Aprile 2019 al 14 Luglio 2019
NAPOLI
Museo e Real Bosco di Capodimonte
CURATORI: Cristina Terzaghi, Sylvain Bellenger
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Riccardo Prencipe si è laureato con Ferdinando Bologna all’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa, ha poi conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in scienze Storico-Artistiche presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Insegna Storia dell’Arte presso il Liceo Classico Giordano Bruno di Maddaloni (CE).
Compositore e chitarrista, si è diplomato in chitarra presso il conservatorio di Napoli San Pietro a Majella ed ha poi proseguito lo studio dello strumento con il maestro Aniello Desiderio.
Ha all’attivo diversi saggi e articoli di storia dell’arte, oltre ad una nutrita produzione discografica. Ha già svolto numerose conferenze sui rapporti tra arte e musica all’Università degli Studi di Firenze, all’auditorium di Capodimonte, al teatro Tempio di Modena, alla Biblioteca di Villa Bruno a San Giorgio a Cremano.
Dal 2005 fonda e dirige l’ensemble Corde Oblique in cui riveste il ruolo di compositore, autore e chitarrista. Ha licenziato sei album distribuiti da case discografiche francesi, inglesi, portoghesi, tedesche, russe e cinesi ed ha all’attivo decine di concerti in Italia, Europa, Albania ed Cina, oltre a collaborazioni con artisti del calibro di Milo Manara e Franco Fontana.