L’OMBRA DELLA PAROLA FATALE
COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO
Non ha paura del fondo perché lo ha abitato, Sylvia Plath. La sua poesia, confessionale eppure incapace di insterilirsi sul puro piano dell’autobiografia, adombra una ricerca finissima in ambito lessicale e fonico e, dalla voce di dentro, proietta sulla pagina letteraria un dialogo viscerale e sanguigno con la natura e i suoi elementi. Non c’è spazio per la neutralità: l’urlo deve essere ribadito, perché ai tormenti è necessario dare del ‘tu’. Tuttavia, sebbene la consapevolezza delle proprie ombre sia portatrice di una qualche lucidità, il dolore non porta qui a un livello superiore di conoscenza. L’autrice è ancora inchiodata al ruolo di Elettra che da sola ha voluto assegnarsi, non ha ancora imparato – né mai ne avrà occasione – la legge di Zeus per cui la sofferenza fa scaturire scintille di luce e di sapere. Orfana, culla la propria afflizione e come in un rito pronuncia per tre volte la parola fatale cui andare incontro.
OLMO
Conosco il fondo, dice. Lo conosco con la mia grossa radice:
è quello di cui tu hai paura.
Io non ne ho paura: ci sono stata.
È il mare che senti in me,
le sue insoddisfazioni?
O la voce del nulla, che era la tua pazzia?
L’amore è un’ombra.
Come lo insegui con menzogne e pianti.
Ascolta: ecco i suoi zoccoli: è corso via, come un cavallo.
Per tutta la notte galopperò così, impetuosamente,
finché la tua testa non sarà una pietra, il tuo cuscino una zolla,
rimandando echi ed echi.
O vuoi che ti porti il suono dei veleni?
Ecco, questa è la pioggia ora, questo grande azzittirsi.
E questo è il suo frutto: bianco-stagno, come arsenico.
Ho patito l’atrocità dei tramonti.
Bruciati fino alla radice
i miei filamenti rossi ardono ritti, una mano di fili di ferro.
Ora mi rompo in pezzi che volano intorno come clave.
Un vento di tale violenza
non tollera neutralità: devo urlare.
Anche la luna è spietata: vuole trascinarmi
crudelmente, lei che è sterile
Il suo splendore mi folgora. O forse l’ho catturata.
La lascio andare. La lascio andare
diminuita e piatta, come dopo un intervento radicale.
Come mi possiedono e mi colmano i tuoi brutti sogni.
Sono abitata da un grido.
Di notte esce svolazzando
in cerca, con i suoi uncini, di qualcosa da amare.
Mi terrorizza questa cosa scura
che dorme in me;
tutto il giorno ne sento il tacito rivoltarsi piumato, la malignità.
Le nuvole passano e si disperdono.
Sono quelli i volti dell’amore, quelle pallide irrecuperabilità?
È per questo che agito il mio cuore?
Sono incapace di maggiore conoscenza.
Che cos’è questo, questa faccia
così assassina nel suo strangolio di rami? –
Sibilano i suoi acidi serpentini.
Pietrificano la volontà. Queste sono le colpe isolate e lente
che uccidono e uccidono e uccidono.
19 aprile 1962
Sylvia Plath nella traduzione di Giovanni Giudici (Oscar Mondadori, 2013)
ELM
For Ruth Fainlight
I know the bottom, she says. I know it with my great tap root:
It is what you fear.
I do not fear it: I have been there.
Is it the sea you hear in me,
Its dissatisfactions?
Or the voice of nothing, that was your madness?
Love is a shadow.
How you lie and cry after it
Listen: these are its hooves: it has gone off, like a horse.
All night I shall gallop thus, impetuously,
Till your head is a stone, your pillow a little turf,
Echoing, echoing.
Or shall I bring you the sound of poisons?
This is rain now, this big hush.
And this is the fruit of it: tin-white, like arsenic.
I have suffered the atrocity of sunsets.
Scorched to the root
My red filaments burn and stand, a hand of wires.
Now I break up in pieces that fly about like clubs.
A wind of such violence
Will tolerate no bystanding: I must shriek.
The moon, also, is merciless: she would drag me
Cruelly, being barren.
Her radiance scathes me. Or perhaps I have caught her.
I let her go. I let her go
Diminished and flat, as after radical surgery.
How your bad dreams possess and endow me.
I am inhabited by a cry.
Nightly it flaps out
Looking, with its hooks, for something to love.
I am terrified by this dark thing
That sleeps in me;
All day I feel its soft, feathery turnings, its malignity.
Clouds pass and disperse.
Are those the faces of love, those pale irretrievables?
Is it for such I agitate my heart?
I am incapable of more knowledge.
What is this, this face
So murderous in its strangle of branches?—
Its snaky acids hiss.
It petrifies the will. These are the isolate, slow faults
That kill, that kill, that kill.
Sylvia Plath (Boston 1932 – Londra 1963) poetessa statunitense. Dopo gli studi universitari allo Smith College, ottenne una borsa di studio in Inghilterra, dove conobbe il poeta T. Hughes, che sposò nel 1956. Le durezze e le frustrazioni della vita domestica, e soprattutto lo scarto tra la prigionia della condizione femminile e l’ardore dell’ispirazione poetica, le si rivelarono presto insopportabili. Morì suicida. Al momento della scomparsa aveva già pubblicato un libro di versi, Il colosso (The colossus, 1960) e il romanzo autobiografico La campana di vetro (The bell jar, 1963), in cui rievocava un’allucinata New York anni Cinquanta, dominata dai codici del successo e della mistificazione. Ma il meglio della sua produzione, raccolto dopo la morte a cura del marito nel volume Ariel (1965) e nei più frammentari Alberi invernali (Winter trees, 1971) e Attraversando l’acqua (Crossing the water, 1971), appartiene all’estremo, solitario periodo della sua vita.