Cristiano Poletti, “Temporali”

Cristiano Poletti

 

DI TOMMASO DI DIO

Sebbene in Italia se ne pubblichino ovunque, a centinaia, a migliaia l’anno, è raro leggere libri di poesia. Per chi sia un cercatore d’oro e non un divoratore compulsivo di parole a caso, non è per nulla facile imbattersi in un’opera che abbia ricevuto il battesimo del fuoco e la grazia della pazienza. Già si grida al miracolo quando, fra le migliaia di pagine che si leggono ogni anno, ci si imbatte fortunosamente anche in una sola delle due virtù sopraelencate. Ahinoi, spesso chi ha il fuoco non ha lavorato abbastanza affinché scaldi e faccia una luce ampia dalle braci; e c’è anche chi invece ha lavorato sodo, magari per anni, ma non ha quel mantice che accende improvviso, quell’aculeo insomma, che penetra e stordisce quando si è alla presenza di un verso che non sappia disperatamente di esercizio, di ricalco, “di tavolo”. Ma qui in Temporali di Cristiano Poletti, l’ultimo libro edito nella bella e importante collana di Marcos y Marcos a cura di Fabio Pusterla, bisogna dire sì: alziamo le mani. Questi sono versi animati da qualcosa di oscuro che si agita dietro le parole, un magma a lungo covato nel petto di chi le scrisse; nondimeno, queste pagine sono una ferita da cui un siero viene alla luce, levigato e liscissimo, fin quasi a raggiungere una leggerezza disarmante, una trasparenza che nondimeno non abdica all’enigma.

Ed è ancora più prezioso questo libro perché gioca una partita che oggi è assolutamente fuori contesto. Temporali è infatti un libro che diremmo risolutamente anacronistico. Ed è un bene: è il segno della buona poesia, non c’entrare nulla, sembrare inessenziale alla cronaca, fuori luogo, spaesata, sbagliata. La scrittura qui non è instagrammabile, non c’è gioco di invenzione, nessuna trovata di immagini o di suoni, non c’è divertimento né spensierata deficienza, come tanto sembra andare di moda oggi, in poesia e altrove; la voce della scrittura (che qui trasuda rigorosa dal testo, densa, resinosa) non gioca a fare il pagliaccio con un lettore che si vuole ridotto a figura di spettatore plaudente o a quella di fine intenditore: come se la poesia fosse una cosa da decaduti buongustai. Questo è un libro scritto sottovoce; fatto di parole pronunciate al limite del silenzio, che non mancano mai di mostrare il loro desiderio di sparire presto: «Niente carta, alle labbra, al loro confine/ serve fermarsi, a un vero silenzio/ negli occhi» (p. 12). Sì, perché per Poletti scrivere è solo sostenere l’umiltà di un gesto, non è l’inizio e non è la fine, non è il centro: il compito della parola è quello di mostrare di scorcio; trattenere sì, ma nei suoi limiti, il frutto di un percorso interiore che intravediamo vasto ai fianchi, nei dintorni che bordano il sopraggiunto tacet alla fine del testo. Ciò che precede e segue la parola: è lì che Poletti vuole che noi gettiamo lo sguardo. Le parole servono, tutto qui, aprono una fessura, forse un deserto (p. 13). Si badi: non per questo è concessa alcuna pigrizia allo scrittore. È il contrario: per aprire, le parole devono essere messe in riga, addestrate, tenute al massimo grado di tensione e di arte, devono essere scorciate, abbreviate e compresse finanche all’escissione, finanche all’ellissi, affinché quel varco, una volta aperto, resti visibile fino alla fine.

È in questo senso che la parola poetica di Poletti ha a che fare con la preghiera. Oggi che nel discorso pubblico la preghiera è oggetto di fraintendimento, se non di continuo sacrilegio, alcuni poeti forse sono i soli che continuano a pregare, ovvero a fare del linguaggio un sacrificio. Poletti ci avverte fin dal primo verso: «Un discorso religioso, ma niente fantasie» (p. 11). Non si tratta qui di una poesia “devota”, non ha da difendere nessun Dio Poletti, figurarsi; ma questa è una poesia che ha continuamente a che fare con l’attesa di una voce. Scrive l’autore: «Ogni cosa per vocazione preme in una voce/ sembra dire: è occulto il fine» (p. 15). Attendere la voce è predisporsi ad una scrittura che ha come fondamenta l’ascolto: non di sé, ma di ciò che esula, che fuori orbita, che transita, entrando e uscendo, aprendo e chiudendo il giro della mente. Quella di Poletti è una poesia che è dappertutto un’invocazione di voci: si chiede alle voci di raggiungere la pagina, di farsi presenti, di darsi a vedere, di sedersi qui con i mortali a mangiare. E contemporaneamente, proprio in virtù di questo ascolto, la poesia di Poletti è misura di un rapporto infinito fra il sussulto feriale e un altrove immortale, glaciale, spropositato: «sotto sopra avanti/ indietro tossisco/ la mia storia e tutta/ la vita immortale» (p. 16). Preghiere: come dire, con un lessico che ormai non comprendiamo più, “parole vere”; parole che vanno da un qui ad un lì e giungono da un lontano e si fanno prossime, vicine, abissali: «Perdersi./ Questa è la via, questa la/ calligrafia che ha il nome di nessuno» (p. 30). Così fiato e scrittura coincidono, precisamente, senza sfoggiare mai alcuna maestria, ma con la fede piena che è nella poesia, qui, nel suo metro così artefatto e costruito da anni di lavoro, solo qui, si consegna la possibilità di dire qualcosa offerto alla verità: «Nelle tue mani consegno il mio spirito,/ endecasillabo». Ed è così che la parola della poesia diventa forma, tiene («nella coda degli occhi/ una parola ti tiene», p. 42); e ci tiene uniti ad un appuntamento che non sarà mancato: «mandate lettere al loro indirizzo./ Lì chiara l’anima tornò» (p. 42).

Questi versi chiedono un lettore che voglia ascoltare, calarsi nel proprio di quanto qui si scrive. Non di certo un lettore che stia a guardare, con la lingua facile e pronta al giudizio. Un lettore che sia piuttosto un rilettore, lento, che assorba, rumini. Fa parte della bellezza di questo libro il delicato e obliquo, ma continuo, percepibile, doloroso, affondo nella biografia; mai è resa però ingombrante nel testo, anzi è tutta bruciata sulla pagina, evaporata dalla luce di un trapasso. Il dato biografico è come scomparso nelle pagine proprio a causa del tempo e del lavoro a cui la pagina è stata sottoposta; e rimane soltanto tenuto fra le pieghe e i silenzi, laddove insomma non possa essere d’ingombro a chi deve seguire un sentiero. Chi scrive infatti è in movimento, il testo è il mezzo e noi siamo chiamati a camminare con lui, lasciandoci alle spalle il fardello inutile dei giorni. «Vado in un luogo risolto dal tempo», recita l’incipit di una poesia (a p. 61). Cosa è un luogo «risolto dal tempo» se non l’area di un vuoto, un «corpo d’aria» dove stare un rimanere in una solitudine che non è abbandono? E – sembra dirci Poletti – questo corpo aereo non è mio, non è tuo, è oltre ogni pronome: «Solo attraverso/ questo,/ essere soli» (p. 70).

A fronte di tutto, c’è la storia. In questo libro di voci, lavorato al cesello, a mano a mano che si procede nella lettura, è sempre più chiaro che ciò di cui si sta parlando non è qualcuno, ma è «il nostro/ Occidente», come si trova scritto nella poesia d’apertura. È il grande tramonto dell’eterno, del senza tempo, nella singolarità cronologica delle creature che a questo poeta interessa; così troviamo scritto in una delle più potenti poesie di Temporali il cui titolo è significativamente Per fede: «L’uomo è in queste stazioni/ l’immagine di Dio, che cade/ dentro i corpi, le orografie, i mondi,/ le rappresentazioni» (p. 77). E allora la poesia di Poletti si apre e nell’ultima sezione si fa teatro di caduti: di chi cade – come la pioggia, che cadendo accompagna il lettore attraverso tutto il libro, comparendo e scomparendo, tornando a cadere. Nell’ultima sezione, Storia, l’attenzione della scrittura è tutta dedicata a due eventi simbolo che aprono alla fine del Novecento: la caduta del muro di Berlino e l’omicidio di Aldo Moro. Le poesie qui sono scarne descrizioni di chi ha provato a scavalcare il muro e non ce l’ha fatta, come in Berlino, 22 agosto: «Inizio del film, confine./ Buio su tutti: cade/ Ida giù dalla finestra, in agosto,/ martedì ventidue. Tod.» (p. 84). Questi caduti sembra dirci Poletti ci consegnano all’epoca dell’esplosione: un tempo dove si contrappongono senza soluzione lo Stato, «il suo enorme corpo esploso/ dentro la storia», e il singolo, chiuso rannicchiato in un buio inspiegabile, come quel corpo in un baule di una Renault 4 rossa.

Una cosa, infine. Raramente negli ultimi tempi mi è capitato di leggere una scrittura che intrattenga con alcuni poeti un rapporto così denso, così esplicitamente costitutivo.  Leggendo i versi di Poletti, si sente in eco il dialogo continuo che essi intrattengono con quelli di Milo De Angelis, di Mario Benedetti e, più indietro e meno, di Giovanni Raboni, Vittorio Sereni, Franco Fortini. Eppure non è manierismo e non è falsetto, non c’è insomma né nevrosi né ironia; c’è una qualità del dialogo intertestuale che sfugge alla canoniche categorie e potrebbe essere preso facilmente per epigonismo. Eppure no, l’intensità della scrittura, il suo calore avvolgente, allontana del tutto questa idea. C’è qualcosa di diverso qui: mi sembra che il poeta cerchi consapevolmente questo effetto di risonanza perché meglio la poesia aderisca ad una verità: che nessuno viene da solo, ma nasce da una strana luce, «archivio nascosto dei nostri cassetti» (p. 59). Come se Poletti ci dicesse che soltanto evocando le voci degli altri, umilmente trovandovi dunque posto, sfuggendo così alla trappola brutale dell’essere moderni a tutti i costi, la poesia può lentamente uscire dal Novecento senza nervosismi, né nevrosi, né ridicole cesure. «La scena è solo cominciata» (p. 58), sì, non è una novità: l’inizio sempre accade. Non abbiamo che queste parole già scritte da riprendere e fare nostre: finalmente, allora, «Sorridi,/ eredita la terra» (p. 12).

ESTRATTI

Per una donna mite

Scivola all’infinito presente
una malattia. Scriverne?
Niente carta, alle labbra, al loro confine
serve fermarsi, a un vero silenzio
negli occhi. Sì, siate
gentili, capaci.
Capaci di. Gentili con.
Avere vuoti, gli occhi,
con lei che va e si perde come noi in noi
l’indirizzo di sempre, l’afa, l’Adda
dentro la veste e il letto, tutto bianco.
O che sia invece l’ultima neve o nebbia antica,
la malattia è un viaggio
costoso. Sorridi,
eredita la terra.

Semplice

Tu sarai all’ombra di un suicidio
e io forse avrò amato, alla fine.

Terra, sventura.
Spiraglio.

Risaliremo il destino
tra la tomba degli angeli
e quella degli uomini.

Sono uguali inchiostri i nostri
debiti d’amore.

Fine partita

Una bandiera lasciata sul campo,
abbandonata, a fine partita.
Il tifoso l’avrà dimenticata
in un eccesso di tristezza, o di gioia.

Nell’episodio pensavo a me
come oggetto smarrito della storia.

O forse è un’altra la metafora che occorre
per la stessa ragione, o religione,
ma in un ritmo diverso:
le infinite vasche
che ora nuoto e vuoto
polmoni e tossisco
sotto sopra avanti
indietro tossisco
la mia storia e tutta
la vita immortale.

Decalogo sei

Decalogo sei
mondo in errore
e passato.

Passate
nell’avere amato mai e sempre
voi che siete dieci
piegate
dita, un tamburellare di continuo
avete già fatto
sul tavolo, lucido.

C’è un altro posto per questo.
Sono anni, spiegatevi,
avete e avete avuto
con voi per perdere le rose
e i notturni. Sistemate
tutti
gli inversi, anni, anni
dentro sparse ore e spessore dell’aria.

Su,
benedetti, benedite
cosa aspettate
la mano con la mano.

Fuga, o ritorno

Tu torni dove tornano nel vento
di tutti i nostri amori le figure
e i fiori. O tu non torni,
sapranno riferire. In quale luce

tu, voce, stai avvicinandoti muta
alla fonte del fiato? Lì sei nata,
formi da poco parole e in natura
di buio cresci, e non muori o divieni,
tu taci sulla strada.

La sfiori non il vento
al limite del fiato
la voce dei tuoi giorni,
la ferma solitudine dei giorni.

Una parola

Parola, una,
anche tu, anche tu.

Nei vestiti strappati ai gomiti,
cose che ti hanno messo, hai detto.
Negli abiti che poi hai messo, da uomo
fino al suono
di “mille”. I mille
abiti che hai messo
li vedi adesso in una stanza e con loro sei
in un piccolo disegno.

Fuori infuria la storia.
Nella coda degli occhi
una parola ti tiene.

Da Temporali, di Cristiano Poletti, Marcos y Marcos, 2019

Cristiano Poletti (Treviglio, 1976) è autore di Porta a ognuno (raccolta di poesie, L’arcolaio 2012) e del saggio Trovandomi in inviti superflui, in L’attesa e l’ignoto – L’opera multiforme di Dino Buzzati (L’arcolaio 2012). Dal 2007 al 2017 ha diretto Trevigliopoesia, festival di poesia e videopoesia. Dal 2013 è redattore del lit-blog Poetarum Silva; una raccolta di articoli, intitolata dei poeti, è stata pubblicata per Carteggi Letterari nel 2019.
Ha contribuito alla realizzazione del film documentario sulla vita e il lavoro di Fabio Pusterla, intitolato Libellula gentile. Per Marcos y Marcos ha curato il libro-cofanetto omonimo, edito nel 2019.

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