La poesia del domani
Mio cuore, il rumore delle falci che s’affilano somiglia
Al Primo battito d’ali della felicità.
Che il tuo canto sia la preghiera di quei mietitori
Perduti laggiù, sotto un sole micidiale.
Che il tuo canto sia bello della bellezza immortale
Di tutti i dolori e di tutte le forze.
Che sia il singulto della lingua sotto la scorza,
L’azzurro sogno dei mari innamorati dell’estate.
Che il canto sia il sonnambulo delle notti chiare,
Vagabondo del sentiero profondo ove si ascoltano
I rintocchi della luna sulle pietre
E gli accordi degli alti fusti nel vento.
Che il tuo canto sia l’eco della folla selvaggia.
Io la amo con terrore, come si ama il mare.
Già l’alba promessa rischiara i volti,
Un amoroso giugno si specchia sugli scudi di ferro.
Che il tuo canto sia il rumore di un’epoca che crolla.
Da che i morti hanno smesso di opprimere i vivi
Il Vangelo solare illumina le folle;
Sulla fronte degli infanti sono comparsi segni.
Che cosa abbiamo visto cuore mio? La guerra,
Il garrito dell’oriflamma al vento,
Il barbaglio del sudore sotto un cielo di polvere,
La fioritura dei lutti durante la cruenta primavera.
A sinistra la tristezza, il rimorso a destra;
All’orizzonte in volo i grandi venti della carestia.
Le corone senza croce illuminate dall’inferno
E sangue sul pane, e oro sull’oro,
La lussuria e il crimine appostati sotto i ponti,
Cuore triste! Tutto ciò che non dovrebbe esistere,
La magrezza dei bambini attirati dalle finestre
Da dove scorgi barcollare i padri vagabondi.
Le grotte fredde degli orfani, i loro cuori vasti
Che ricercano l’eco di un cuore sotto il velo delle vedove,
I cadaveri traditi che lavano nel fiume
Il rossore della vergogna e il belletto della felicità.
E quando tornerà, mio cuore, tu gli dirai:
“Domani, nell’inverno della morte,
avranno fango e requie; perché dunque non hanno
Un campo, qui, per seminare il pane?
Tutti domani avranno la loro casa di silenzio
Dove l’oblio chiuderà gli occhi scevri di rimorso.
Perché, per quale piacere o per quale vendetta
Rifiutare ai vivi ciò che si concede ai morti?”.
Allora egli trarrà dai baratri del sonno
I ricchi, fruscianti in tutto il corpo di larve inaridite;
Nell’ottone ritorto delle Trombe del risveglio
Sputerà il nome dei settemila peccati.
Inchioderà l’ipocrisia alla sua falsa pietà,
Il corpo dell’adulterio alla carne della sposa.
Il suo grido d’ira squarcerà le dodici
Trombe di mezzanotte del Giudizio Universale.
RISVOLTO
Nato nel cuore della Bielorussia e suddito dell’Impero russo, Oscar Vladislas de Lubicz-Milosz non cessò mai di rivendicare l’antico lignaggio lituano; la sua lingua madre era il polacco, ma questo non gli impedì di diventare un grande poeta cosmopolita di lingua francese. Non stupisce allora che il suo più illustre esegeta (e lontano parente), Czesław Miłosz, abbia scritto che, ovunque straniero, egli era «un romantico non foss’altro che per la sua stessa nostalgia», e che, nella sua mitologia privata, il paradiso perduto dell’infanzia si trasformava impercettibilmente «nel paese ideale della futura umanità rigenerata»; né che Milan Kundera, nella intensa Prefazione a questa silloge, parli di «futuro grammaticale della nostalgia». Milosz si sottrae a qualsiasi classificazione: studioso della Bibbia, di alchimia e di cabbala, affine di Dante, Goethe (il suo «maestro spirituale»), Byron, Lamartine, Heine, Hölderlin, discepolo di Swedenborg (il suo «maestro celeste»), si considerava esiliato in un secolo di decadenza e «ridanciana laidezza». E mentre ovunque si imponevano le avanguardie e trionfavano gli esperimenti più bizzarri e le innovazioni più disperate, egli scelse di allontanarsi da quella che definiva una «pericolosa deviazione», destinata a creare tra il poeta e la «grande famiglia umana» una «scissione» e un «malinteso». Tanto più, dunque, Milosz spicca oggi come un dolmen solitario e ammaliante nel variegato paesaggio della poesia novecentesca.