Gli scritti militanti di Giovanni Raboni

Meglio star zitti? raccoglie centosettanta stroncature firmate da Giovanni Raboni in quarant’anni di attività critica: interventi talvolta garbati, più spesso sarcastici e addirittura spietati, tesi a mettere in discussione il valore e il significato di prodotti artistici (romanzi, poesie, film, spettacoli teatrali) e di fenomeni di costume. Ne fanno le spese nomi blasonati: Woody Allen, Italo Calvino, Umberto Eco, Federico Fellini, Dario Fo, Giorgio Gaber, Ernest Hemingway, Milan Kundera, Pier Paolo Pasolini e tanti altri.

Inflessibile nella difesa della qualità, Raboni condanna la deriva consumista della produzione culturale italiana del dopoguerra, rivendicando la responsabilità primaria del critico militante: essere per il pubblico una guida attendibile e onesta, chiamata a distinguere il “vero” dal “falso”. Compito che va sempre più assumendo i toni di una solitaria e disperata sfida etica.

UN ESTRATTO DAL LIBRO

Il poeta fa spettacolo ma non si fa leggere

Letture pubbliche di poesia, festival di poesia: e perché no? Anche se appaiono ormai lontanissimi i tempi, fra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, in cui ci siamo entusiasmati per questa nuova forma di comunicazione e, sembrava allora, addirittura di aggregazione, non per questo sembra il caso di metterne in dubbio la legittimità e il senso. Piuttosto, può valere la pena di chiedersi che cosa a suo tempo si prevedesse o sperasse e che cosa, poi, si è davvero verificato, anche per non cadere ulteriormente nelle stesse illusioni.

Se non ricordo male, le principali aspettative erano due: da una parte, un qualche miglioramento dei rapporti fra poesia e pubblico (vedere, sentire, “toccare” le persone e i poeti avrebbe dovuto, si pensava, aiutare a sensibilizzare i lettori e forse, chissà, farne nascere di nuovi) ; dall’altra, uno stimolo per gli autori a perseguire, in ragione del contatto “corporeo” con il pubblico e grazie alle specifiche risorse della vocalità, una poesia in qualche misura più affabile, più eloquente, più direttamente comunicativa.

Temo che nessuna di queste eventualità si sia minimamente realizzata. Il pubblico, che pure in quegli anni ha veramente affollato le più riuscite manifestazioni del genere (dal Festival di Castelporziano, con successivi sviluppi in diverse altre sedi romane, alle varie edizioni di “Milanopoesia”), si limitò a consumarne l’aspetto spettacolare, continuando a ignorare l’importanza e il piacere della fruizione privata dei testi; e quanto ai poeti, la mia impressione è che abbiano vissuto il tutto come un puro momento di esibizionismo e di gratificazione personale e non abbiano deviato di un centimetro, per il resto, dalla strada che stavano percorrendo.

Largo alle letture di poesia, insomma, per chi ancora ne ha voglia, con l’amara e tuttavia rassicurante certezza che lasceranno le cose, uno o cento volte di più, esattamente come stavano.

Giovanni Raboni (Milano 1932), è stato critico letterario e teatrale del “Corriere della Sera”. Ha tradotto Baudelaire, Apollinare, Proust, Racine, Hugo. Le sue poesie sono state raccolte in Le case della vetra (1966), Cadenza d’inganno (1975), Nel grave sogno (1982), Canzonette mortali (1986), A tanto caro sangue (1988), Versi guerrieri e amorosi (1990), Ogni terzo pensiero(1993), Quare tristis (1998) e successivamente in Tutte le poesie (2000).

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