Nel centenario della storica antologia degli Espressionisti, Crepuscolo dell’umanità, vi proponiamo un secondo contributo di Alessandro Bellasio su Gottfried Benn, dopo essere entrati nell’esperienza estetica di George Tralk.
COMMENTO DI ALESSANDRO BELLASIO
Traduzioni di A. Bellasio e F. Masini
«Esistenza vuol dire esistenza nervosa, cioè eccitabilità, disciplina, enorme conoscenza di fatti, arte. Soffrire vuol dire soffrire nella coscienza, non già per decessi. Lavorare vuol dire innalzamento verso forme spirituali. In una parola: vita vuol dire vita provocata.» Sarebbe forse sufficiente la breve, fulminante sintesi di questo giro di sentenze per definire l’esperienza esistenziale e artistica – esistenziale in quanto artistica – di Gottfried Benn (1886 – 1956). Se non fosse che, come in un gioco di specchi e rifrazioni interiori, dietro il saggista raffinatissimo e sornione c’è il prosatore ellittico e allucinato, e dietro questo il lirico dalle immagini sulfuree e il sottile teorico della poesia statica. E se non fosse che il saggista, il prosatore, il lirico e il teorico a loro volta venissero sempre, accuratamente celati dietro l’impeccabile camice del dermatologo brillante e up to date, che firma studi scientifici per le riviste di settore e raccomanda pomate di zinco per le dermatiti più ostinate.
L’accolito, insieme a Ernst Jünger, della “emigrazione interiore”, l’asceta del Doppelleben e il discepolo dell’Artistik, iperconsapevolmente scisso tra laboratorio medico e microscopio lirico, fu di certo la figura intellettualmente più complessa (e politicamente più ambigua) dell’espressionismo. E d’altronde, fu anche colui che, davvero e proprio superstite, a giochi ormai compiuti, contribuì a mantenere vivo il ricordo di ciò che il movimento aveva significato per l’arte europea, scontando sulla sua persona, è bene ricordarlo, il rifiuto di abiurare i propri trascorsi, allorché tutto ciò che era stato espressionismo iniziò a puzzare, sempre più pericolosamente, di “arte degenerata”.
Dai tetri affreschi di Morgue ai preziosi mosaici di poesia statica della produzione tarda, dalla prosa assoluta distillata nelle psichedeliche vicissitudini del più celebre dei suoi alter-ego, il sifilopatologo Werff Rönne, fino alle iridescenti stilizzazioni delle prose mature (Romanzo del fenotipo, Il tolemaico), colui che elesse Pallade a nume tutelare (e spettrale) in un mondo disertato tanto dalla ragione quanto dagli dèi, per tutta la vita seguì il fil rouge di una sola, inaggirabile, primaria intuizione: «in pace o in guerra, al fronte o nelle retrovie, da ufficiale come da medico, fra trafficanti ed eccellenze, davanti alle celle dei manicomi e a quelle delle prigioni, accanto ai letti e alle bare, nell’ora del trionfo e in quella della caduta, non mi ha mai abbandonato la trance che questa realtà non esista.» Di sé avrebbe forse detto – chiosando con un celebre passaggio di Gehirne – «vivevano tutti con il centro di gravità fisso su meridiani, tra rifrattori e barometri, lui solo gettava sguardi oltre le cose, paralizzato dalla nostalgia di un azimut, gridava invocando una chiara pulizia logica e una parola che finalmente lo afferrasse.»
Mann und Frau gehen durch die Krebsbaracke
Der Mann:
Hier diese Reihe sind zerfallene Schöße
und diese Reihe ist zerfallene Brust.
Bett stinkt bei Bett. Die Schwestern wechseln stündlich.
Komm, hebe ruhig diese Decke auf.
Sieh, dieser Klumpen Fett und faule Säfte,
das war einst irgendeinem Mann groß
und hieß auch Rausch und Heimat.
Komm, sieh auf diese narbe an der Brust.
Fühlst du den Rosenkranz von weichen Knoten?
Fühl ruhig hin. Das Fleisch ist weich und schmerzt nicht.
Hier diese blutet wie aus dreißig Leibern.
Kein Mensch hat so viel Blut.
Hier dieser schnitt man
erst noch ein Kind aus dem verkrebsten Schoß.
Man läßt sie schlafen. Tag und Nacht. Den Neuen
sagt man: hier schläft man sich gesund. Nur sonntags
für den Besuch läßt man sie etwas wacher.
Nahrung wird wenig noch verzehrt. Die Rücken
sind wund. Du siehst die Fliegen. Manchmal
wäscht sie die Schwester. Wie man Bänke wäscht.
Hier schwillt der Acker schon um jedes Bett.
Fleisch ebnet sich zu Land. Glut gibt sich fort.
Saft schickt sich an zu rinnen. Erde ruft.
Uomo e donna attraversano il padiglione del cancro
L’uomo:
questa fila qui sono grembi in disfacimento
e mammelle in disfacimento quest’altra.
Fetore di letto in letto. Ogni ora le suore si danno il cambio.
Vieni, solleva pure questa coperta.
Guarda, questa poltiglia di grasso e umori marcescenti
una volta per qualche uomo era una cosa grande
e voleva anche dire ebbrezza e intimità.
Vieni, osserva questa cicatrice sul petto.
Senti il rosario di tubercoli molli?
Palpa bene qui. La carne è frolla e non fa male.
Questa qui sanguina come trenta corpi.
Nessun essere umano ha tanto sangue.
A quest’altra si è tagliato da poco
anche un bambino dal grembo canceroso.
Le lasciano dormire. Giorno e notte. – Alle nuove
dicono: qui ci si risana con il sonno. – Solo di domenica,
per la visita, le tengono un po’ più sveglie.
Pasti poi se ne consumano pochi. Le schiene
sono piagate. Vedi le mosche. Talvolta
la suora le lava. Come si lavano le panche.
Qui, intorno a ogni letto, già si gonfia il campo.
La carne si livella al suolo. La fiamma si spegne.
I liquami stanno per colare. La terra chiama.
(da Morgue, trad. di Ferruccio Masini)
Mutter
Ich trage dich wie eine Wunde
auf meiner Stirn, die sich nicht schließt.
Sie schmerzt nicht immer. Und es fließt
das Herz sich nicht draus tot.
Nur manchmal plötzlich bin ich blind und spüre
Blut im Munde.
Madre
Ti porto come una ferita
sulla fronte, che non si rimargina.
Non sempre fa male. E il cuore
non ne muore dissanguato.
Solo talvolta sono di colpo accecato e sento
del sangue in bocca.
(da Morgue, traduzione di Alessandro Bellasio)
Ein Wort
Ein Wort, ein Satz – : aus Chiffren steigen
Erkanntes Leben, jäher Sinn,
die Sonne steht, die Sphären schweigen
und alles ballt sich zu ihm hin.
Ein Wort – ein Glanz, ein Flug, ein Feuer,
ein Flammenwurf, ein Sternenstrich –
und wieder Dunkel, ungeheuer,
im leeren Raum um Welt und Ich.
Una parola
Una parola, una frase – sorge dai segni,
vita che ha forma, senso fulmineo,
si ferma il sole, tacciono le sfere,
e tutto intorno ad essa si concentra.
Una parola – un bagliore, un volo, un fuoco,
un getto di fiamma, una parabola di stelle –
e poi di nuovo il buio, mostruoso,
nei vuoti spazi intorno al mondo e all’io.
(da Poesie statiche, traduzione di Alessandro Bellasio)
Einsamer nie
Einsamer nie als im August:
Erfüllungsstunde – im Gelände
Die roten und die goldenen Brände,
doch wo ist deiner Gärten Lust?
Die Seen hell, die Himmel weich,
die Äcker rein und glänzen leise,
doch wo sind Sieg und Siegsbeweise
aus dem von dir vertretenen Reich?
Wo alles sich durch Glück beweist
Uns tauscht den Blick und tauscht die Ringe
Im Weingeruch, um Rausch der Dinge –
Dienst du dem Gegenglück, dem Geist.
Mai più solitario
Mai più solitario che in agosto:
la pienezza dell’ora – per le terre
gli incendi del rosso e dell’oro,
ma dov’è l’estasi dei tuoi giardini?
I laghi chiari, i cieli teneri,
i campi puri risplendono lievi,
ma dove sono la vittoria e i segni
del regno che tu rappresenti?
Dove tutto si legittima con il successo
e ci si scambiano lo sguardo e gli anelli
nel profumo del vino, nell’ebbrezza delle cose –
tu servi la sconfitta, servi lo spirito.
(da Poesie statiche, traduzione di Alessandro Bellasio)
Menschen getroffen
Ich habe Menschen getroffen, die,
wenn man nach ihrem Namen fragte,
schüchtern – als ob sie gar nicht beanspruchen könnten,
auch noch eine Benennung zu haben –
«Fräulein Christian» antworteten und dann:
«wie der Vorname», sie wollten einem die Erfassung erleichtern,
kein schwieriger Name wie «Popiol» oder «Babendererde» –
«wie der Vorname» – bitte, belasten Sie Ihr Erinnerungsvermögen nicht!
Ich habe Menschen getroffen, die
mit Eltern und vier Geschwistern in einer Stube
aufwuchsen, nachts, die Finger in den Ohren,
am Küchenherde lernten,
hochkamen, außerlich schön und ladylike wie Gräfinnen –
und innerlich sanft und fleißig wie Nausikaa,
die reine stirn der Engel Trugen.
Ich habe mich oft gefragt und keine Antwort gefunden,
woher das Sanfte und das Gute kommt,
weiß es auch heute nicht und muß nun gehn.
Umanità incontrata
Ho incontrato esseri umani che,
quando gli si chiedeva il cognome,
timidamente – come se non potessero pretendere
di avere anche solo un modo di chiamarsi –
«signorina Christian» rispondevano e poi:
«come il nome», perché volevano facilitare la comprensione,
nessun nome complicato come «Popiol» o «Babendererde» –
«come il nome» – prego, non scomodi le sue facoltà mnemoniche!
Ho incontrato esseri umani che,
cresciuti coi genitori e quattro fratelli in una stanza,
di notte, con le dita ficcate nelle orecchie,
studiarono al focolare,
si fecero strada, belle di fuori e ladylike come contesse –
e dentro miti e operose come Nausicaa,
la fronte pura come quella degli angeli.
Mi sono domandato spesso e non ho trovato risposta,
da dove vengano la dolcezza e il bene,
nemmeno oggi lo so e adesso devo andare.
(da Aprèslude, traduzione di Alessandro Bellasio)