di Riccardo Prencipe
( a Ferdinando Bologna)
Per me è a dir poco emozionante e singolare scrivere di un’opera su cui non vi è bibliografia. L’opera in questione infatti è stata scoperta di recente, ne è stata data notizia pochi giorni fa, ed è per questo che mi andava di parlarne a carne fresca, senza libri/tegole che pesino sulla testa.
In una cucina di un piccolo paese a nord di Parigi, chiamato Compiègne, era appesa quella che si credeva fosse un’antica icona anonima raffigurante il Cristo deriso (fig. 1).
Di recente la tavoletta è stata giustamente attribuita a Cimabue, stiamo parlando di un pittore supremo, una leggenda lo vuole maestro di Giotto, e tutti gli aneddoti (anche quelli non veri) nascono per una ragione. In questo caso la ragione è evidente: in Cimabue si intravedono, in nuce, quelle che saranno le riconquiste giottesche, ovvero il riappropriarsi di un linguaggio visivo che è già sulla rotta della concretezza del rinascimento; un linguaggio che abbandona gli impacci e l’incorporeità della pittura alto medioevale. Il catalogo di Cimabue non supera una decina di opere su tavola, questo numero così basso ne accresce il valore. Volendo traslare E’ come se avessimo scoperto un nuovo film di Kubrick, o un album inedito dei Beatles. L’attribuzione collega la Derisione a un dittico di cui facevano parte altre due tavolette, una a New York (raffigurante la Flagellazione, e quindi il momento immediatamente precedente al nostro, fig. 2) e l’altra raffigura la Madonna con bambino fra angeli, e si trova alla National Gallery di Londra (fig. 3).
Le due opere vengono datate al 1285 circa, abbiamo quindi ragione di ritenere che anche l’esecuzione della nostra cada grosso modo nello stesso anno. La nuova opera è stata valutata dai 4 ai 6 milioni di euro.
Ma volgiamo lo sguardo ad essa, le lacune di documenti e di bibliografia lasciano spazio di indagine solo agli occhi.
Questo modo di assiepare la folla ricorda sicuramente gli affreschi del transetto della basilica superiore di Assisi (che Cimabue affrescò intorno agli anni ’80 del Duecento., fig. 4), mentre è il gioco delle prospettive a spingerci subito verso Flagellazione della collezione Frick di New York (fig. 2); ma andiamo per gradi.
Magistrale la composizione di questa piccola tavola (fig. 1), con una folla di uomini – in crescendo – verso la testa di Cristo. Su questa testa, apice del quadro, si incrociano tre forze esterne: una spada obliqua si insinua dal basso, quasi a voler avvitare la corona, la impugna uno dei personaggi all’estrema sinistra, il cui braccio sfiora quello di un altro personaggio, a mano aperta, mentre l’altra mano di quest’ultimo spunta al di sopra della spalla di Cristo, quasi a Voler testimoniare che in quest’oasi di oro e di arcaismi si era già insinuata la plasticità delle figure che avrebbe portato non solo alle Vele di Giotto nella Basilica inferiore di Assisi, bensì a Masaccio. Ma c’è un’altra spada che arriva dall’alto, sempre da sinistra, a fare da ulteriore stringi vite, entrambe le spade stanno “avvitando” la corona di spine sul capo di Cristo (corona che, almeno dalla riproduzione, non risulta visibile). La terza forza è incarnata da una mano che sembra appena aver posto la corona sulla testa si Gesù.
Il retrogusto orientale, resta solo nelle architetture, tutto il resto, quei calzari così peculiari, quelle braccia ed ascelle che si sfiorano, quelle prese corpose delle mani sugli avambracci, sono già vivo volgare, sono già lingua romanza. Cosa dire dei panneggi plissettati in maniera così naturale e spontanea, delle teste senza occhi che spuntano sulla parte sinistra di questo immenso “anfiteatro di uomini”, mentre tutti i volti sono visibili sul lato destro della folla. Questa sorta di coesione ed evasione da una simmetria – che in realtà è solo apparente – non è forzata, ma delicata, il gioco delle variazioni dei gesti non vuole essere uno strappo netto rispetto alla tradizione, ma un delicato alzarsi in volo, è la prima aria sotto le ali, la prima mossa del cavallo.
I piedi della folla stanno insieme senza calpestarsi, e pure potrebbero, tutto accade in pochi centimetri, eppure ognuno il suo spazio in un centimetro di terra, quei piedi non sembrano soffrire di alcuno spazio coatto, afferrano già la terra e dialogano già con il San Giovanni Evangelista di Masaccio, arrivano fino al Quattrocento fiorentino, a una velocità supersonica.
Quei calzari sono teoremi di colore, distribuito con un bilancino supremo sulle due schiere di gambe, equilibrio lievemente asimmetrico; eppure la bilancia resta sempre al centro, senza giochi di prestigio, senza alcuno sforzo.
Un ultimo sguardo meritano le braccia a penzoloni di Cristo, reduce da percosse infinite (che vediamo nella flagellazione della Frick), forse con qualche osso spezzato, quelle mani impotenti, a forcipe aperta, sono il frutto di ciò che era successo poco prima della derisione.
Nemmeno il suo alunno Duccio di Buoninsegna, quando circa 25 anni dopo, dipingerà la stessa scena sul retro della grande Maestà arriverà a tanto (fig. 5), troppo intento ad accordare il gusto sempiterno della sua città che quegli accenni di prospettiva giottesca. Forse troppo impegnato a mettere d’accordo molti aneddoti e a fare i conti con diverse situazioni stilistiche che, nel frattempo, erano cresciute in quegli anni fatti di forti accelerazioni.
Cimabue invece era negli anni del concepimento spregiudicato, libero di inventare e di navigare a vista.
Riccardo Prencipe si è laureato con Ferdinando Bologna all’Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa, ha poi conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in scienze Storico-Artistiche presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Insegna Storia dell’Arte presso il Liceo Classico Giordano Bruno di Maddaloni (CE).
Compositore e chitarrista, si è diplomato in chitarra presso il conservatorio di Napoli San Pietro a Majella ed ha poi proseguito lo studio dello strumento con il maestro Aniello Desiderio.
Ha all’attivo diversi saggi e articoli di storia dell’arte, oltre ad una nutrita produzione discografica. Ha già svolto numerose conferenze sui rapporti tra arte e musica all’Università degli Studi di Firenze, all’auditorium di Capodimonte, al teatro Tempio di Modena, alla Biblioteca di Villa Bruno a San Giorgio a Cremano.
Dal 2005 fonda e dirige l’ensemble Corde Oblique in cui riveste il ruolo di compositore, autore e chitarrista. Ha licenziato sei album distribuiti da case discografiche francesi, inglesi, portoghesi, tedesche, russe e cinesi ed ha all’attivo decine di concerti in Italia, Europa, Albania ed Cina, oltre a collaborazioni con artisti del calibro di Milo Manara e Franco Fontana.