NOTA INTRODUTTIVA DI MAURIZIO CUCCHI
La poesia di Michele Hide, che si è rivelata in questi ultimissimi anni con poche uscite, ma sempre notevoli, ha, tra gli altri, un pregio evidente, che è quello di una immediata riconoscibilità. Un pregio oggi molto raro, dato che le innumerevoli voci nuove della poesia rischiano spesso un’impersonalità che le rende purtroppo quasi indistinguibili.
Ma che cosa, soprattutto, caratterizza il nostro autore? Sicuramente – come già si era visto nella plaquette d’esordio, Il baule di Zollikön del 2014, ripresa in questo libro – la fedeltà strenua ma al tempo stesso del tutto naturale, necessaria, alle proprie radici, a un mondo ebraico di appartenenza e alle vicende personali, anche drammatiche, legate a questa condizione. Ed è questo qualcosa di ancor più significativo se pensiamo che il nostro è poeta ancora giovane (è nato nel 1977) ma ha già in sé la saggezza di chi sa che è impossibile o insensato guardare verso il futuro senza una piena, sebbene inquieta, consapevolezza del passato e delle proprie origini. Naturalmente, agisce in modo decisivo la memoria, che riporta ritmicamente a galla, nella mente del poeta, momenti, episodi, luoghi, paesaggi e figure di un’esperienza sensibilmente vissuta e che contiene i più diversi colori della vita, non certo esclusi quelli della tenerezza negli affetti. Così, con percorsi interni articolati, Hide lavora alla ricomposizione di un’immagine di sé molto aperta e in fondo di continuo mutante, in una inesausta ricerca identitaria destinata a sempre nuove acquisizioni.
Ma se una precisa e ricca fisionomia tematica è uno dei punti di forza della sua poesia (già inclusa in una rilevante antologia generazionale, Velocità della visione, curata per la Edizioni Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori da Marco Corsi e Alberto Pellegatta nel 2017) appare non meno significativo il corpo formale dei suoi testi. Qui, infatti, la medietà linguistica e di tono di Hide si realizza in un alternarsi di versi e prosa poetica, e dunque in movimenti che portano dalla pacatezza del suo recitativo a un canto sempre discreto e controllato, estraneo a ogni possibile accentuazione enfatica. Tutto questo componendo un gioco sottile di sfumature emozionali che danno eleganza e nuovi spazi virtuali al testo.
Il monte del ricordo è dunque un’opera molto convincente e matura, che consolida il valore di una delle presenze poetiche più interessanti delle nuove generazioni.
ESTRATTI
L’ULTIMA VISITA A SAFTA
È l’alba. Da circa un’ora.
Ho messo i pattini a terra a Rosh Pina
e il rotore sembrava sferragliare
così forte… l’avrebbero sentito
fino alle alture di
Già passando su Tzfat, sulla frequenza
del radiofaro, strideva come…
come a tagliarmi, da non riuscire
a tenere l’orizzonte.
Sono andato a Kadita sul piccolo lago
a trovare Safta. L’acqua è quieta
e non si sente niente. Solo i canti
delle anziane che pregano a tutte le ore.
Ho visto Safta.
In una pietra, sommersa dall’acqua
fin quasi al naso: respira a fatica,
ogni filo di vento che passa
la sommerge. Ma non del tutto
la inghiotte. Resta li,
a sentire il male senza il coraggio
di sprofondare… Il vento arriva
tutto sarà sommerso,
prepariamoci. Ti porto io per mano,
come sei gracile…
L’INUTILE ATTESA
La piccola marina di Herzilya
è per me il porto più affollato
di anime al mondo. Passano
le ombre delle galee dei conquistatori
di mille anni fa, scroscia il brusio
dei figli di Sion sparpagliati.
Ho pensato che se rimango
ancora un poco ad aspettare
diventerò immobile e muto,
come il vecchio leccio
di fronte al molo arba-shalosh.
Allora farò un buon profumo
e a me si appoggerà chi era venuto
in attesa di chi non torna più.
E sentirà col corpo, con la mano
il senso dell’inutile attesa.
FRATELLO NEL VENTO
Così la sento gelida
e ferma, sospesa nel tempo
la bava di vento
sulla nostra casa,
33 Hayon Harotyiim
Petak Tikva; casa di cenci
borraccia scolata degli anni
a tracolla al perduto viandante
che senza di te io sono.
Ma se torni ti aspetto:
vieni col vento a prendermi
alle tre. Non tardare, fa freddo,
è tanto, troppo, ormai,
non ti dimenticare
di me, io ho sempre impresso
il tuo nome, fissato nel vento che va.
L’ALBERO DEL CANTO
Dopo aver ascoltato fuori dalla casa di Safta il saggio Rabbi Ziv e i suoi ragionamenti matematici, infallibili, pieni di riferimenti dotti e sensati, sentii come un impellente bisogno, pulsante, di svuotare la testa. Feci un poco di cammino e mi appoggiai con il tronco del corpo, di spalle, a un antico nocciolo e lì gettai le gambe, lungo le pendici della collina di Mevesseret Sion.
Me ne sono stato lieto e fermo a sentire il brusio che fa il grande albero: un sussurrio ancestrale, con una melodia ordinata, una cadenza precisa di una lingua che non sempre riconosco. Da secoli, la grande moschea di Abu Gosh, qui di fronte, mormora i suoni delle preghiere druse con alito d’incenso, coi canti dei vecchi che arrivano con addosso ancora l’odore di pane che gli ebrei comprano nei giorni di Yom Tov.
Mentre ne seguivo la voce, mi attraversava il vento e l’odore di limonata con la menta che il chiostro non distante ti fa sorbire in grande quantità per fumare più a lungo il narghilè. E diventai vuoto e leggero, come un guscio di nocciola.
Mi sembrò dopo poco che la giovane Rebecca, figlia di Amira e sorella di Elazar, in età di marito, pensando di farmi cosa lieta venne a salutarmi con la sua paffuta faccia bianca e un poco irsuta.
Lì per lì mi venne di cacciarla. Ma mentre aprivo gli occhi e preparavo le parole, il grande albero inclinato dal vento spostò una fronda come verso di lei, le fece segno di venire e io capii che in un solo secondo mi ero riempito di nuovo di scatole di parole e di intenti inutili.
Compresi il senso, e non parlai più. Sorrisi, non pensai più a niente e mi feci di nuovo guscio, così leggero e rotondo, così sordo alle tante parole che lei disse e che mi scivolarono confondendosi nel soave canto dell’albero.