La virtù dei buoni libri

Un libro che riapre sentieri interrotti

di Franco Ferrarotti

Ecco un libro geniale e originale. Per questo va segnalato, letto e meditato. È un libro che parla di libri, ma, come dice bene l’Autore nell’avvertenza posta all’inizio, non è un libro di recensioni. Non è, in altre parole, uno di quei libri – temo che si tratti della maggioranza – che sono prodotti, oserei dire, incestuosamente mercé altri libri.

Contro tutte le apparenze e le prime impressioni, che a torto Voltaire riteneva le più giuste, (méfiez-vous de la première impression; c’est la bonne), questo libro non fa parte e non rientra nella cultura libresca. È vero che spesso, troppo spesso, quando gli scrittori parlano dei loro colleghi lo fanno in termini molto libreschi e intellettuali. Parlano e scrivono come se dovessero venir letti, e giudicati, solo da colleghi e intellettuali.

Questo libro è diverso. È un’altra cosa. Ha la virtù che hanno i buoni libri – una esigua minoranza nella sterminata produzione di molti editori, degradati ormai a meri stampatori, portati a vendere libri come se fossero carciofi o patate o altra frutta di stagione. Questo libro fa parlare i morti. Ne resuscita l’intento profondo. È una chiamata dall’oltretomba; richiama un passato ormai ritenuto lontano, che invece ha ancora cose importanti da dire nel presente o addirittura contiene i semi dell’avvenire.

C’è un merito ulteriore, che non va sottaciuto. Questo libro non parla solo di libri best-seller. Parla anche, se non soprattutto, di libri poco noti al gran pubblico. Oppure parla di libri divenuti noti o anche celebri per le ragioni sbagliate. Ma parla anche di «rivisitazioni» critiche necessarie, non più rinviabili, vale a dire di libri riscoperti pienamente, valutati solo generazioni dopo la loro prima pubblicazione.

Il successo commerciale non è ritenuto un test decisivo per il valore di un libro. Tutti sanno che Honoré de Balzac fu subito famoso. La sua «comédie humaine» vendeva molto. I suoi contemporanei – la borghesia francese in ascesa – vi si rispecchiavano come in uno specchio di alta fedeltà. Stendhal, invece, del suo trattatello De l’amour, aveva venduto tre copie in otto anni. Non solo nessuno lo comprava. Non lo toccavano neppure. Lo sconsolato Stendhal confessa, a malincuore: «On dirait qu’il est sacré. Car personne n’ytouche». Curioso com’era, si fa dare dal libraio – una specie di libraio in via di rapida estinzione – nomi e indirizzi dei compratori. Li va a trovare. Che delusione! Almeno due di loro avevano comprato il libro credendo che si trattasse di un Kamasutra. Ma Stendhal, con La Certosa, Il Rosso e il nero e i Souvenirs d’égotisme dava un appuntamento ai lettori di centocinquant’anni a venire. Inutile dire che l’appuntamento è puntualmente scattato.

Nel mio Il bosco e l’asfalto mi sono a lungo interrogato sull’essenza del libro. Anni prima, con Marshall MacLuhan – e valendoci della collaborazione del critico letterario inglese George Steiner –, al TrinityCollege di Toronto, ho cercato di comprendere la complessa, in parte certamente contraddittoria natura della «civiltà della lettura». Nessun dubbio che il libro sia in crisi. Non è più l’unico, e forse neppure il più importante, strumento della elaborazione e della trasmissione su vasta scala dei valori culturali. Anche se resistono le religioni del libro, le tre grandi religioni monoteistiche universali – giudaismo, cristianesimo, islamismo – il libro sembra avviato verso un tramonto inevitabile. Dal punto di vista materiale, è un manufatto povero: un certo numero di pagine, tenute insieme da uno spago o da una leccata di colla. Non regge certamente la concorrenza con gli sfavillanti tablet della comunicazione elettronicamente assistita che oggi incantano i giovani e i meno giovani. Il libro introduce nella realtà una superficie i cui lati raramente eccedono i dodici e ventuno centimetri e lo spessore di un dito. Ma lo posso leggere ovunque. Me lo porto a spasso sottobraccio. Non fa rumore. Lo posso leggere a letto, in bagno.

È vero, e lo confesso con una certa quota di vergogna, che amo i libri come manufatti; li ho accarezzati con un amore sensuale, fisico. Me li sono spesso portati a letto, talvolta versandovi sopra con colpevole distrazione qualche goccia del caffè mattutino. Perché il libro è modesto, non fa rumore. Chi scrive tace, deve osservare un silenzio monastico. Il libro non rompe questo silenzio.

C’è di più. Un poeta satirico dell’Ottocento italiano, meno noto forse di quanto meriterebbe e, come sovente accade, capace di insegnamenti preziosi, Giuseppe Giusti, lo ha detto in maniera definitiva: «Il fare un libro è meno che niente, se il libro fatto non rifà la gente».

I libri di cui Marco Testi scrive in questo suo libro hanno aperto nuove strade, offerto inediti significati ad antiche angosce, avviato una diversa immagine del mondo e della vita, una diversa, come un tempo si diceva, Weltanschauung, una diversa «visione del mondo». Non è un esercizio degno della mutual admiration society, o «compagnia dell’ammirazione reciproca», cui a volte indulgono scrittori e intellettuali. È un’indagine che pesca molto più a fondo e rilegge autori, alcuni ormai giunti alla statura di classici, secondo una prospettiva originale.

Da La pietra lunare del criptico scrittore sperimentale Tommaso Landolfi, a Prufrock ed altre osservazioni, geniale preparazione alla Terra desolata di T. S. Eliot, che preferirei definire «guasta», per mantenermi più vicino al «guasto» dantesco che amavano certi poeti di lingua inglese, innamorati del Trecento italiano; dai paradossi umoristici di Gilbert Keith Chesterton al Deserto dei tartari di Dino Buzzati, alla quotidianità onirica di WisławaSzymborska e alle misteriose premonizioni di Friedrich Hölderlin, il libro di Marco Testi va oltre gli steccati consueti, che impoveriscono il discorso letterario poetico e latamente intellettuale, riapre sentieri interrotti. L’autore avverte nei libri che indaga un anelito che non conosce e non accetta barriere precostituite, esprime l’esigenza di un piano di vita trascendente, forse un vago, e tuttavia intenso, bisogno di una deità cui gli esseri umani, per essere completamente umani, si sentono oscuramente chiamati.

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MARCO TESTI . Nato a Tivoli nel 1952, vive ora in Sabina. E’ Dottore di Ricerca in Letteratura Italiana, ed è stato docente a contratto di Letteratura Italiana nelle università dell’Aquila e di Cassino.

E’ critico letterario (e dei rapporti tra letteratura ed arte) dell’agenzia stampa della Cei SIR e della rivista dell’Ac “Segno”. Collabora inoltre con la rivista on line “Fili d’aquilone” ed è nel comitato di redazione della rivista “L’Albatros”; collabora inoltre con “L’Osservatore Romano” e con “La Civiltà cattolica”. Ha intervistato, grandi scrittori e premi Nobel: i semiologi e linguisti Lotman e Uspenskij, Gordimer, Zichichi, Ferrarotti, Guitton, Calabria, Rovelli e molti altri.

Ha scritto saggi su “il Policordo”, “Galleria”, “Annali dell’istituto di Filologia dell’Università di Roma”, “Astrolabio”, “La Procellaria”, “Critica letteraria”,“Ottonovecento”, “Ariel”,  “MondOperaio”, “Orizzonti”.

Ha pubblicato alcuni volumi, tra cui:

Il romanzo al passato. Medioevo e finzione in tre romanzi contemporanei, Bulzoni, 1992; il volume analizza romanzi contemporanei come Il Quinto Evangelio di Mario Pomilio, Il nome della rosa di Umberto Eco e i Dodici abati di Challant di Laura Mancinelli, alla luce della categoria del “romanzo storico”.

Frammenti d’Occidente, Editrice La Voce del Tempo, 2003, in cui sono raccolte alcune sue recensioni e alcuni saggi sul rapporto tra tradizione e modernità nella letteratura.

Altri piani, altre valli, altre montagne. La deformazione dello spazio narrato in Con gli occhi chiusi di Federigo Tozzi, Pensa Multimedia editore, 2006, con cinquanta tavole fuori testo, in cui si approfondisce il rapporta tra letteratura ed arte e il concetto di spazio nel primo Novecento.
Tra speranza e paura: i conti con il 1789, Giorgio Pozzi Editore, 2009 che approfondisce le reazioni degli intellettuali e degli scrittori italiani alla rivoluzione francese.
Il poeta, il suo tempo, la città, Fermenti, 2014, sulla poesia di Camillo Sbarbaro e i suoi rapporti con il Novecento europeo.

Sentieri nascosti, Fili d’Aquilone, 2019. Prefazione di Franco Ferrarotti e immagine di copertina di Ennio Calabria.

Ha edito volumi sui rapporti tra arti figurative e letteratura tra Ottocento e primo Novecento, soprattutto sui vedutisti di primo Novecento e su Roesler Franz, alcuni tradotti in altre lingue, tra cui Ettore Roesler Franz, un vedutista di fine Ottocento a Tivoli e nel Lazio, catalogo della mostra omonima a Villa d’Este nel 2004, De Luca editore.

Ha pubblicato –in volumi di autori vari e in riviste- saggi sul simbolismo del castello nella narrativa italiana, su Michelstaedter, Pirandello, D’Annunzio, Campana, Rebora, Croce, Tozzi, Landolfi, Vigolo ed altri autori tra Otto e Novecento.

1 pensiero su “La virtù dei buoni libri

  1. Ho avuto il piacere di presentare il libro “Sentieri nascosti”di Marco Testi presso il Comune di San Polo dei Cavalieri , invitata dal Sindaco e dallo stesso Autore. Un libro utile per i suoi contenuti anche per la Biblioterapia, una tecnica integrata in psicoterapia che utilizza la lettura scelta e guidata finalizzata al raggiungimento di obiettivi terapeutici, educativi e formativi. Attraverso l’elaborazione di emozioni, pensieri, contenuti, analogie, contrapposizioni, identificazioni, processi empatici, cognitivi, emotivi e relazionali questa bella e interessante lettura si rivela come un percorso di crescita culturale e personale.

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