Tre e-mail
a Maria Cristina Cabani
sull’ottava
(Estate 2014)
– Caro Emilio, in attesa di spedirti il libretto /Amori/, che è finalmente uscito, mi rivolgo a te in cerca di suggerimenti. A settembre andrò a Città del Capo dove sono stata invitata ad un Convegno sulla poesia del ’900. Avrei intenzione di parlare della fortuna dell’ottava e dei poeti che la usano, prendendo le mosse dal /Requiem /di Patrizia Valduga.
In particolare vorrei esaminare come i poeti sfruttano la doppia natura, lirica e narrativa, del metro (tu mi sembri uno dei pochi che ne apprezza la liricità). Ti chiedo se puoi indicarmi interventi o saggi in proposito (anche e soprattutto tuoi) e anche se puoi dirmi in poche parole che cosa ti affascina dell’ottava, visto che è fra le tue forme predilette.
Un caro saluto.
Cristina
Temo, cara Cristina, che ti toccherà concentrarti sulla sfortuna dell’ottava nel Novecento, perché, a memoria, non mi viene in mente nessun poeta che l’abbia usata: a parte Sanguineti. Mi sembra anche di ricordare che nel discorso di accettazione del Nobel, Montale abbia esplicitamente affermato che nel suo -e nostro- secolo non si poteva più scrivere in ottave.
Comunque, per quel che mi riguarda, si è trattato di un colpo di fulmine, dopo aver riletto tutto d’un fiato il Furioso, nei pigri pomeriggi della primavera del 1988.
Ero partito con l’idea sonnolenta di leggiucchiare qua e là, in un noiosissimo periodo di insegnamento, dal quale tornavo avvilito. Be’, la magia del cristallino e liquido
endecasillabo ariostesco mi obbligò a leggerlo avidamente, senza scartare un verso, senza perderne una sillaba, o meglio, una nota…
E mentre leggevo mi chiedevo se non si potesse arditamente provare a riprendere in dialetto quella struttura di otto versi, coi quali tutto era stato detto, e così bene, un
tempo; in cui ogni cosa aveva trovato il suo posto, alonata di stupore. Il Novecento non crede ai poemi, non conosce cavalieri, mi dicevo. Ovvio che occorresse ripensare l’uso
dell’ottava. Il poeta è isolato, il dialetto è accerchiato, pensavo. Isoliamo l’ottava e facciamone un rifugio ed un mondo, pensai in conclusione. Il limite era proprio questo: tentare di tenere all’interno di otto endecasillabi una goccia di vita che continuasse
a muoversi, senza scivolare via o prosciugarsi. Ma praticando l’ottava mi accorgevo via via che l’angustia del metro offriva spazi insperati. E vivevo come in una continua scoperta speleologica, su un terreno carsico dove sprofondare equivaleva spesso a riemergere in un altrove luminoso. Al punto che non mi sono mai sentito così libero come prigioniero dell’ottava. Uno dei momenti più commoventi e pieni della mia vita. Tanto più se pensavo che stavo usando la lingua degli avi, a cui per certi versi davo voce, una lingua atemporale, mitica. E in quanto mitica, in grado di reggere l’anacronismo della misura chiusa.
Altro grande vantaggio dell’ottava, poi, la brevità memorizzabile che mi permetteva di lavorare a mente, in qualunque momento: di levigare e ritoccare e portare a compimento senza bisogno d’altro che di una buona concentrazione… non mi è mai piaciuto scrivere. Con la sensazione di poter tenere dentro quello scrigno da niente musica e pensiero, poesia e poetica.
Non va inoltre dimenticato che l’ottava diventava sistematicamente doppia, e la complessità che nasceva dall’uso di entrambe le mani, per così dire, toglieva noia
e abitudine, richiedeva uno spessore interiore pari a quella che potrei chiamare tecnica; e la cosiddetta tecnica mi garantiva su un altro piano: se non ero poeta, almeno ero
artigiano. La versione italiana, più moderna e libera, che Giudici definì una variante, mi permetteva tra l’altro di aggiungere senso.
Un momento molto importante, quasi liberatorio, fu quando, ancora agli inizi, mi sovvenne del saggio del Contini sulle varianti ariostesche, nel quale si dice che l’Ariosto variando privilegiava la musicalità. Da quel giorno mi sentii autorizzato a proseguire beatamente l’opera di alleggerimento e cantabilità del ruvido dialetto sassolese. L’italiano la partitura, il dialetto musica. E intitolavo le letture di allora In forma schiusa.
Termino, per non fartela troppo lunga, precisando che Otèvi (1994) comprendeva 46 ottave, tante quanti i canti del Furioso; Segrè (1998) 46+46+3.
Come tu giustamente scrivi, cara Cristina, sono e mi sento un lirico e, per certi versi, le ottave possono essere assimilate a monadi. Ma ho sempre sperato in un mutuospontaneo misterioso travaso, tra di esse, in grado di creare o ricreare un universo umano e intellettuale. Sta di fatto che in un’antologia dialettale ora in uscita, Manuel Cohen
parla complessivamente delle mie ottave come di un ‘poema concettuale’. E la cosa mi fa molto piacere.
Emilio
* Maria Cristina Cabani, Amori. Poesie d’amore da Dante a Vasco Rossi, Cesati, 2014
* Giovanni Giudici, E da Sassuolo arriva il rumore del tempo, in “Corriere della Sera” 4/6/1999
* AA.VV., L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti in dialetto e in altre lingue minoritarie tra ‘900 e 2000, Gwynplaine, 2014
Caro Emilio,
ti ringrazio. Sicuramente oltre alla liricità le tue ottave sfruttano la naturale oralità della forma (mi riferisco soprattutto a quelle dialettali). Sono fatte per essere dette e sentite, mentre un sonetto in italiano si può leggere. C’è un’altra duplicità dell’ottava che è quella fra il lirico e il narrativo (condizione necessaria per svolgere un discorso
dotato di qualche respiro e continuità). Non mi sembra però che, a differenza di quanto fa per esempio Patrizia Valduga nel /Requiem /o Sanguineti in /Novissimun testamentum, tu cerchi forme di collegamento fra le parti (o non le ho ancora viste, ma le cercherò) o qualunque forma di narratività. La sfortuna dell’ottava nel ’900 mi interesserebbe più della fortuna. Non credi che, mentre il sonetto è una forma che si scompone bene (perché tutti la conoscono e perché un sonetto è comunque isolato) l’ottava non si presta a tale esercizio con altrettanta efficacia? Di un poema non si ricordano tanto i frammenti (un’ottava) ma gli insiemi e non c’è una tradizione lirica dell’ottava (il rispetto o strambotto) autorevole. L’ultima duplicità, in effetti, è quella fra l’aulico e il popolare (implicita, forse, ingannevolmente, nell’uso del dialetto).
Intanto faccio tesoro di quanto mi scrivi.
Ciao.
Cristina
Per me l’ottava è addirittura concentrica, quasi un gorgo che mi risucchia e mi risputa. Ci devo sprofondare armato di sensibilità e mestiere, e di pensiero. Narrare non mi è mai interessato. Ma tra le ottave raccolte in un volume è impossibile che non emergano affinità tematiche, di contenuto, di ambiente, di suono, etc., in una costruzione
per vie laterali, indirette, che porta comunque, a mio avviso, a una forma poematica fatta di aloni e sottintesi, e quindi difficilmente definibile, per quanto strutturale.
Un’ossatura perimetrale di rimandi, diciamo così. Riguardo all’oralità della forma, tieni conto che quando leggo non faccio sentire le parole ma il verso, il metro, e quindi il contenuto tende a sfuggire, contenuto restituito comunque dall’italiano. E la naturalezza è riconquistata, alla seconda. Tutto per me deve stare in uno strano equilibrio, esso stesso apparente, tra pensato detto cantato, in cui aulico e popolare si intrecciano.
È vero, non c’è tradizione lirica dell’ottava, ma ciò mi conforta. Per cui le singole ottave di un poema non si ricordano. Giusto, ma ininfluente: rovesciando il discorso
appena fatto sull’oralità dialettale, ho sempre scritto per far diventare il dialetto leggibile. Penso che le mie ottave vadano lette, in silenzio. Ne basta una ogni tanto, 4 o 5 alla volta cominciano a essere parecchie. Ed ecco l’ennesimo sdoppiamento, il più tragico: mi presto volentieri a leggere pubblicamente in dialetto perché so che dopo di me basta. Eppure, me ne importa fino a un certo punto. Dato che l’utopia è immaginare gente che non conosco piegata su un libro a compitare faticosamente la mia lingua che non
conosce.
In questi ultimi mesi ho unito e uniformato in un file le 256 ottave fin qui pubblicate. Se poi ti serve te lo mando.
Lo stesso vale per qualche pagina di critica. Ma non voglio opprimerti.
Emilio
Caro Emilio,
ti tartasso con qualche altra domanda sperando di non scocciarti:
1) In che relazione sta la scelta dell’ottava con quella del dialetto?
2) Che rapporto c’è tra dialetto e italiano? Quale precede? e tra dialetto e parlato?
3) Quella in italiano è una traduzione che mira alla fedeltà?
Si adegua al medesimo registro stilistico? LO VERIFICHERÒ
4) Che genere di dialetto è il tuo? Lo parli anche?
Comincio dalla fine e vado un po’ a caso.
Mai parlato il dialetto. Per me in fondo è lingua d’arte. La lingua dominante nella composizione è il dialetto, come matrice, ma nel corso della realizzazione mi servo,
attingo spunti, parole e idee anche dall’italiano in assoluta libertà. Diciamo che l’ottava vera è quella in dialetto ma costruita sul labile confine tra le due lingue, con continue incursioni nei due sensi. Mi sforzo di rincorrere una lingua per fortuna imprendibile e vasta, dentro di me, fatta di doppiezza e mistero, una lingua sdrucciolevole, che forse proprio per questo mi sembra viva, pur non essendolo e
forse non esistendo. La ‘variante’ italiana, non metrica, mirerebbe a una fedeltà ‘intelligente’.
Per quel che riguarda la forma, mi preme poter sfruttare ogni possibilità dell’ottava per arrivare a dire, o mostrare, o far baluginare il brandello di senso -significato?- che
si agitava dentro di me all’inizio della composizione e che nel corso del lavoro si è poi -ovvio- anche evoluto in altro. Quindi mi sono tenuto libero da partizioni, stando attento proprio a non fare, per esempio, del distico finale una clausola fissa e sentenziosa, bypassando per quanto possibile ogni steccato interno, con l’intenzione, alla bisogna, di rendere più verticale la discesa della strofa verso il suo culmine. Allo stesso tempo più volte ho sfruttato le cesure, quando mi pareva il caso. E questo è il
punto: Busoni, il grande musicista, afferma che la tecnica è la capacità di adattare la difficoltà a se stessi. In fondo, tento di essere meno noioso possibile, sia a livello di forma sia di significato, e ciò mi spinge ad un atteggiamento aperto, inclusivo.
Le ottave scritte o pensate tutte d’un fiato mi hanno assalito tante volte ma ho preferito opporre resistenza.
Nessuna necessità di correre, piuttosto, di scavare: il topo prigioniero di una sola ottava per volta è spinto a scavare. Ciò non toglie che tra le 256 pubblicate ce ne siano di quasi immediate, ma sono quelle di cui mi fido meno.
Poi, sempre e comunque, lima. Tanto per essere concreto e attuale: ho scritto l’ultima stanza nell’agosto 2013. Da lì fino a Natale, come dico a chi chiede: spostato sillabe. Il lavoro più amato perché lieve e assoluto.
Il sassolese è un dialetto ibrido, un mix tra modenese, reggiano e montanaro.
Ciao Cristina.
Emilio
*Stanze di confine, Il Fiorino, 2014
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ESTRATTI da 44 ottave, Book Editore, 2019
1
Cal fil d’oli d’or, biend, lengh al binel
ch’al se travesa mótt e imot al dà
al seins dl’ignot, l’incant dl’etern uguel.
In ste sistema ed cherna ch’an se sa,
da na quelch pert, agh srà la lus d’n’anel
sorgeint, l’aqua d’un rio ch’al va e s’al sta:
e s’a srà acsè e seimpr acsè sia stê
in ogni dóve cherna seinsa pchê.
Quel filo d’olio d’oro, biondo, lungo l’imbuto
che si travasa muto e immoto dà
il senso dell’ignoto, l’incanto uguale dell’eterno.
In ’sto sistema di carne che non si sa,
da qualche parte, ci sarà la luce di un anello
sorgivo, l’acqua di un rio che va e che sta:
e se sarà così e sempre così sia stato
per ogni dove carne senza peccato.
2
Chi dis che n’aforisma in vers sia po’
ultma senteinsa, mot, màsima, détt
-e giand via acsè- com al dirévv da lò
ogni vocabolari… As curva al drétt
ed ecco na ninféa per l’aqua şò
che na man vecia, ormai seinsa profétt,
la próva a liberer da la coreint,
in punta ’d pnel, su n’ansa dal Novseint.
Chi mi dice che un aforisma in versi sia
sentenza ultima, motto, massima, detto
-e così via- come direbbe
ogni vocabolario… Il dritto s’incurva
ed ecco lungo l’acqua una ninfea
che una vecchia mano, ormai senza profitto,
prova a liberare dalla corrente,
in punta di pennello, su un’ansa del Novecento.
3
La léngua al gred piò pur, disancoreda
e nuda, al brivid d’ogni pausa deinter:
umilmeint ed se stessa inamureda
e dal sô istant, damand n’artòurn al ceinter,
la scoca acsè d’incant la libereda vanitê
d’un vers. L’eteren un meinter cucê
lè ai pè d’un em ch’l’ha pers al fil
e al scoulta na poesia da un vec vinil.
La lingua al grado più puro, disancorata
e nuda, il brivido di ogni pausa dentro:
di se stessa umilmente innamorata
e del suo istante, come un ritorno al centro,
scocca d’incanto la liberata vanità
di un verso. L’eterno un mentre accucciato
lì ai piedi di un uomo che ha perso il filo
e ascolta una poesia da un vecchio vinile.
4
Ander şò per i camp in meş al fói,
i camp areint la streda ch’la va a Sera
meinter che nueter no, col scherpi mói,
teved umòur come gnu sò d’in tera,
ànşel ed fiê man in la man, arvói
distrat dal blisgher douls di pas despera
sul gias celest d’na not ch’la dà i barbai…
Ciameres pian per nem e an turner mai.
Andarsene per i campi in mezzo alle foglie,
i campi accanto alla strada che va a Serra
mentre noi no, con le scarpe bagnate,
tiepidi umori come venuti su dalla terra,
angeli di fiato mano nella mano, infagottati
e distratti dal dolce scivolare dei passi non pari
sul ghiaccio celeste di una notte che abbaglia…
Chiamarsi piano per nome e non tornare mai.
5
In fenda, ninsun grand l’ha scrétt per dir
quell che l’ha détt, ma per purter a gala
da un fil sett’aqua al gnint ch’an’s sa mea dir,
e an ha mai fat piò cer tra veira e bala
d’un cin in altaleina, nè argiulir
al vec in nóv tranne de sfrus, de spala,
soul che al sileinsi dop el sô parol
al perla la sô léngua tolta a nol.
In fondo, nessun grande ha scritto per dire
ciò che ha detto, ma per portare a galla
da un filo sotto l’acqua il nulla inesprimibile,
e non ha aggiunto più chiarezza tra vero e falso
di un bimbo in altalena, né rinnovato
il vecchio in nuovo se non di sfuggita, di spalle,
solo che il silenzio dopo le parole
parla la sua lingua presa a nolo.
6
E dè per dè la véta la s’arvisa
a st’atacher al spasi e intant murir
l’è regredir nal teimp ch’an’s counta brisa
e fórse al counta perchè an gh’ha da dir,
anch s’an psrèm piò gusterl a la raisa
come scunfétta, e aloura as va a bendir
incosa, nueter an sarèm piò nueter.
N’arlói l’è al dio piò onest, tic tac, gnint èter.
E giorno per giorno la vita somiglia
a questo aggredire lo spazio, mentre morire
è regredire nel tempo che non si conta
e forse conta perché non ha da dire,
anche se non potremo più gustarlo alla radice
come sconfitta, e allora tutto
va a farsi benedire, noi non saremo noi.
Un orologio il dio più onesto, tic tac, nient’altro.
7
“ Al mèrem levighê ed la Pietê
come rimedi a ogni rimors al tira
via i sô contrast ad un amour scruşê,
Maria ringiovanida la s’avira
al fiól sintû soul suo per caritê
dal mèrem mê ch’l’alata e ch’al respira,
e fiê per fiê la véta l’è arciameda
in véta da na fióla inamureda. ”
“ Il marmo levigato della Pietà
come rimedio a ogni rimorso
toglie attrito a un amore scrociato,
Maria ringiovanita si apre
al figlio sentito solo suo per carità
del marmo mio che allatta e che respira,
e fiato dopo fiato la vita è richiamata
in vita da una fanciulla innamorata. ”
8
La precisioun e la profonditê
ed la parola el n’èin tótt un, es besen
lengh la linea a trategg del dmandi-arfiê
e insem el van -anch se chè e là el se sfesena
te per te col seins del cos spurghê.
A chi sfurdiga angh pies incosa, agh piesen
propia el rispost ch’el dmànden n’eter quel
e in quell ch’el san gh’è n’embra vertichel.
Precisione e profondità
della parola non sono tutt’uno, combaciano
lungo la linea tratteggiata delle domande fertili
e insieme vanno -anche se qua e là si sfasanoa
tu per tu col senso spurgato delle cose.
A chi fruga non piace ogni cosa, piacciono
proprio le risposte che chiedono qualcos’altro
e in quel che sanno c’è un’ombra verticale.
9
Al teimp rusghê via al gnint, carghê dai em
sul spal come şavora ed sél al fa
termer al sanghv, epór, s’an respirem
mea al teimp an tirem sò la nostra cà.
Spirtê a naşem al teimp e as consumem
per der un seins al bur, per dir ch’as sa
chi sem. E acsè, murir per savèirs viv
l’è al privilég, al mit di tempestiv.
Il tempo rosicchiato al nulla e caricato dall’uomo
sulle spalle come zavorra celeste fa
tremare il sangue, eppure, se non respiriamo
il tempo non tiriamo su la nostra casa.
Spiritati fiutiamo il tempo e lì ci consumiamo
per dare senso al buio, per dire che noi si sa
chi siamo. E così, morire per sapersi vivi
è il privilegio, il mito dei tempestivi.
Emilio Rentocchini è nato a Sassuolo nel 1949. Ha pubblicato tra l’altro le raccolte di poesia Ottave (Garzanti 2001), Giorni in prova (Donzelli 2005), Del perfetto amore (Donzelli 2008), Lingua madre. Ottave 1994-2014 (Incontri 2016), 44 Ottave (Book 2019). Daria Menozzi gli ha dedicato il documentario Giorni in prova. Emilio Rentocchini poeta a Sassuolo (Vivo Film 2006). Nel 2016 ha vinto il Premio Lerici Pea, nel 2019 il Premio Pierluigi Cappello e il Premio Crovi.