Alessandro Moscè, da “La vestaglia del padre”

Alessandro Moscè

Lo sanno

La polvere nascosta nella camera da letto,
gli interstizi delle mattonelle nel pavimento nell’atrio
e gli armadi a muro lo sanno
che non ci sei più.
Lo sa la borsa dell’acqua calda
sotto la vestaglia che indossa qualcun altro
che dalla cucina maschera un sospiro infaticabile
non credendo che il nulla sia nulla,
in un marzo discreto di mezzo sole
che arriverà nei glicini rampicanti e nel bianco sfumato delle azalee.
Lo sa la signora garbata del piano di sopra che non parla
e lo sanno le cravatte annodate sulle grucce,
chiuse al buio che non vediamo

Ad ogni ora

Una volta, una volta sola
dovrebbe aprirsi l’accesso di una cantina sotto le scale
in quel passaggio che assomiglia alle uscite di sicurezza
dove darsi la mano, guardarsi tre, quattro secondi
e salutarsi con gli occhi arrossati.
Oppure comporre un numero telefonico,
sentire un fruscio di correnti, un buongiorno
e nient’altro.
Sono sogni che ci farebbero trovare pronti
ad ogni ora, specie di notte,
con il batticuore sotto il pigiama
e una pila in mano,
tu con la vestaglia regale del padre

Lambendo la terra

Mia madre toglie le giacche e i maglioni dell’inverno,
li ammassa nelle buste di plastica
e sfila di dosso un odore di gelsomino
che non smette di circolare dalle ciglia al naso.
Sei custodito negli abiti vuoti della casa
e alla stazione dei pendolari per il viaggio
che aduna la gente nel primo hotel della notte
fino all’uscio del posto che chiamiamo paradiso.
Sei qui e in uno splendore di anima e corpo indivisi,
libero di andare al di là delle abitudini
lambendo la terra, con un occhio al televisore spento
e un altro alla vestaglia, la più elegante,
lasciata con una macchia di sugo nel colletto

Estratti tratti da: “La vestaglia del padre”, Di Alessandro Moscè, (nino aragno editore, 2019)

Alessandro Moscè è nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano. Si occupa di letteratura italiana. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro 2004), Stanze all’aperto (Moretti & Vitali 2008, finalista al Premio Metauro), Hotel della notte (Aragno 2013, Premio San Tommaso D’Aquino), la plaquette in e-book Finché l’alba non rischiara le ringhiere (Laboratori Poesia 2017) e La vestaglia del padre (Aragno 2019). E’ presente in varie antologie e riviste italiane e straniere. I suoi libri di poesia sono tradotti in Francia, Spagna, Romania, Venezuela, Stati Uniti, Argentina e Messico. Ha pubblicato il saggio narrato Il viaggiatore residente (Cattedrale 2009) e i romanzi Il talento della malattia (Avagliano 2012), L’età bianca (Avagliano 2016, finalista al Premio Onor d’Agobbio), Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville 2018, finalista al Premio Flaiano). Ha dato alle stampe l’antologia di poeti italiani contemporanei Lirici e visionari (Il lavoro editoriale 2003); i libri di saggi critici Luoghi del Novecento (Marsilio 2004), Tra due secoli (Neftasia 2007), Galleria del millennio (Raffaelli 2016) e l’antologia di poeti italiani del secondo Novecento, tradotta negli Stati Uniti, The new italian poetry (Gradiva 2006). Si occupa di critica letteraria su vari giornali, tra cui il quotidiano “Il Foglio”. Ha ideato il periodico di arte e letteratura “Prospettiva” e dirige il Premio Nazionale di Narrativa e Poesia “Città di Fabriano”. Il suo sito personale è www.alessandromosce.com.

IL PADRE CHE VIVE PER SEMPRE NELLA SUA VESTAGLIA

Alessandro Moscè si rivolge al padre con la poesia, carta velina che rispecchia una fervida emozionalità, stavolta per la perdita del genitore che oscilla ancora tra la vita (i ricordi giovanili ad Ancona, di uomo che lavorava a Roma, precisamente in uno studio tecnico) e la morte, sopraggiunta lo scorso anno in un “giorno slavato di febbraio”. Nel limbo tra due mondi che si incrociano, l’excursus pone nel deviatoio dei binari una nettezza dichiarativa che fa pensare a Vittorio Sereni e a Giorgio Caproni come ineludibili punti di rifermento nella dialettica secolare. Il padre è inseguito negli anni, nella pienezza di un tempo immortale come l’amore. Quando l’esistenza terrena si arrende il poeta non fa altro che raccogliere episodi singoli nel suo minimalismo espressivo: “Ho preso in mano il tuo cuscino dove un capello curvo / ha l’impronta del viaggio serafico / dove custodisci la giovinezza di Ancona e di Roma, / uno specchio in stile francese antico / per la barba con la schiuma al mentolo”. La vestaglia del padre (Aragno 2019) è un libro malinconico incentrato nella residenzialità familiare, ma sciolto in un’aurea: schietta, lirica, disarmante. Gli strumenti umani, per dirla con Sereni, aumentano il senso di partecipazione affettiva e riflettono l’ideale condizione di figlio per sempre. C’è smarrimento per la morte del padre, ma anche l’affermare il primato del legame di sangue e un culto per i morti di natura foscoliana, come verità ultima, controtempo del sentimento che si infuoca. Non manca la gioia improvvisa dei momenti “azzeccati” dell’infanzia, durante le feste di carnevale, per i ritorni a casa del padre da Roma, ogni venerdì notte. E poi le vacanze estive a Porto Recanati, le passeggiate a Vigna Clara a Roma, sul Colle Guasco di Ancona ecc. La provincia è immolata con un’intensità fraterna, perché Moscè è anche un poeta di luoghi nominati, di periferie, di realtà urbane (vive a Fabriano, nell’entroterra marchigiano). Scrive Roberto Cotroneo nella prefazione: “I temi ci sono tutti, fermi nel loro dolore, nell’assenza, nella consapevolezza delle nostre finitezze, con quella follia che sempre è una porta aperta su stanze che non conosciamo, sui corridoi bui delle nostre vite. Con quello sgomento che ti lasciano i Natali del passato, con il calcio che entra ed esce dai versi come una cucitura necessaria, come un motivo che riaffiora a ricordare la propria identità, il gioco delle passioni, e le passioni messe in gioco. Ma è dentro la scelta dei temi, oltre che dalla sapienza dei versi, che Moscè si muove meglio”. Il calcio è un leitmotiv per Moscè, il sentiero battuto nel “sonno che rompe lo sperdimento”. La Lazio del primo scudetto, quella di Giorgio Chinaglia, Pino Wilson e Felice Pulici, dell’allenatore Tommaso Maestrelli, delle partite della domenica viste in televisione, in poltrona con il padre che indossava la “vestaglia regale”. Alessandro Moscè guarda anche all’amore quotidiano, ad una parabola comune, alle stazioni, agli ospedali, agli istituti psichiatrici, agli anziani, agli emarginati. La fuga dell’attimo zooma immagini, miniature (“Nella metropolitana buia / ci sono amori da reinventare / in una routine che non è più / nel ritardo della Freccia Rossa, / nel canto di un barbone senza fiato, / nella morsa di un biglietto da timbrare”). Questa poesia si alleggerisce nel tono anti-intellettuale: le parole cantano, non speculano nella forma. La sostanza evocativa di Alessandro Moscè si rovescia in una combinazione di versi liberatori, nel racconto che “cattura l’intima oscurità”.

Elisabetta Monti

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