Mario Benedetti, il poeta dell’inverno

Mario Benedetti, 5 gennaio 2020 credits ph Viviana Nicodemo

MILO DE ANGELIS RICORDA MARIO BENEDETTI
Milano, 28 marzo 2020

Mario Benedetti, uno dei pochissimi poeti del nostro tempo. Non scorderò mai la prima volta che l’ho visto negli anni ottanta. Era appena uscito un suo libro, Moriremo guardati, che mi toccò profondamente a partire dal titolo, con quel suo verso pieno di strappi e slogature e quel suo “parlato” che all’improvviso svettava in alto. Andai dunque a trovarlo a Padova, dove Mario Benedetti dirigeva una piccola e originale rivista, Scarto minimo, insieme a Stefano Dal Bianco e a Fernando Marchiori.

Mario Benedetti (2012)

Mi colpì subito quello che Mario diceva della poesia, le sue simpatie per Celan e Mandel’štam, il suo disprezzo per tutto ciò che gli pareva gioco, evasione, esperimento. Ma ancora di più mi colpì quello che Mario non diceva, i suoi lunghi silenzi, la tensione spasmodica del suo ascolto affilato e attentissimo, la capacità di far convergere in questo silenzio le parole degli altri. Era una giornata rigida di gennaio e non poteva che essere così. Mario è un poeta dell’inverno e l’inverno è la sua stagione naturale, la stagione del raccoglimento, del riparo tra le mura di casa, delle coperte di lana. E anche la sua parola sembra provenire da un luogo freddo e lontano, ai confini della Slovenia, quel Friuli “oltre il Tagliamento”, come lui diceva, fermo nel suo eterno dopoguerra di mille lire, Settimana Enigmistica e wafer Saiwa, umili cascine e umili sale da pranzo, un mondo di “interni” disadorni, descritti nella loro povertà, nello spazio inerme dove un tavolo o un bicchiere acquistano una luce sacra, come gli oggetti dell’ultimo Van Gogh, per citare un artista carissimo a Mario.
E il destino ha voluto che anche il nostro ultimo incontro fosse invernale.

Con Viviana Nicodemo e Cristiano Poletti, entrambi innamorati della poesia di Mario Benedetti, sabato 5 gennaio siamo partiti da Milano, abbiamo raggiunto la Casa di Cura di Piadena  – dove Viviana ha scattato l’ immagine sopra – siamo stati accolti da Donata Feroldi, creatura appartata ed eroica che ha dedicato agli ultimi anni di Mario tutta se stessa. Abbiamo trovato un Mario tranquillo e a volte persino sorridente, attirato in modo irresistibile dai gianduiotti che gli avevamo saggiamente portato, ricordando le ultime visite e la sua passione per il cioccolato. Abbiamo parlato a lungo con Donata dell’umore di Mario, notevolmente migliorato rispetto alla costrizione carceraria del precedente ospedale milanese. E abbiamo parlato anche della sua poesia laconica, della sua parola carica di mutismo, costretta a compiere uno sforzo supremo per trovare la voce. Abbiamo parlato della morte che percorre, con varie tonalità, tutta la sua opera. E abbiamo parlato della pietas di Mario – magari nascosta dietro una scorza ruvida ma capace di slanci ardenti e improvvise, febbrili adesioni – e della sua commovente fragilità, celata anch’essa dal riserbo e dall’antico pudore della sua terra. Per questo mi piace concludere questo ricordo di Mario Benedetti – uno degli uomini e dei poeti che più ho amato nella mia vita – con qualche verso che accenna al respiro fragile di Mario e di tutti noi che restiamo qui, sbigottiti ma riconoscenti, a leggere e rileggere le grandi pagine della sua poesia.

A D.

Penso a come dire questa fragilità che è guardarti,
stare insieme a cose come bottoni o spille,
come le tue dita, i tuoi capelli lunghi marrone.
Ma d’aria siamo quasi, in tutte le stanze
dove ci fermiamo davanti a noi un momento
con la paura che ci ha assottigliati in un sorriso,
dopo la paura in ogni mano, o braccio, passo,
che ogni mano, o braccio, passo, non ci siano.

da Umana gloria (2004)

 

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