GIAN MARIO VILLALTA RICORDA MARIO BENEDETTI
Ogni ricordo di Mario Benedetti che mi viene in mente porta con sé un luogo, non solo gli spazi aperti, i “posti” belli o brutti, ma a volte la stanza di una casa o il tavolo di un bar, il vagone di un treno, l’interno di un’auto. La sua presenza è sempre stata intensa, per me, di cose da dire e da tacere, di vicinanza o dispetto, di un’intensità che coinvolgeva tutto quello che c’era intorno. Anche quando si parlava, come si dice, “per parlare”, o quando si dice di “parlare di niente”, quando si sta insieme perché c’è qualcosa che accade, accade e basta (basta perché l’accadere è di più di qualsivoglia sua descrizione, e allo stesso tempo perché davvero basta, non gli occorre altro).
E’ questa l’amicizia, che si rivela a noi stessi quando c’è una continuità della voce dell’altro nei nostri pensieri. Quando anche il suo corpo parla e muove intorno a sé uno sguardo che ci sorprende e – sì, davvero – ci com-prende. Non importa se poi i caratteri portano a scontrarsi, o il sentire non è in sintonia, o se ancora qualcosa dell’altro ti è addirittura, a volte, insopportabile. Mario non è mai stato una persona empatica, anzi, proprio perché lo era al massimo grado, temeva e cercava di prendere distanza dall’empatia. Incorrendo per questo talvolta in equivoci. Anche se poi ti capitava di sentirgli sgorgare inattese autoaccuse, dichiarazioni enfatiche, scuse non richieste e imbarazzanti richieste di comprensione. Ciò non gli impediva di essere tagliente e odioso qualche ora più tardi. Non tollerava che fosse sprecato un solo pensiero, una sola occasione di vita. E non accettava che non si assaporasse o detestasse qualsiasi cosa al massimo, non accettava che non ci si esponesse o nascondesse al massimo.
Aveva le sue preferenze, le sue idee, ma quello che contava era che non si doveva mai mollare la presa sull’istante che si stava vivendo. Il tempo per lui non scorreva soltanto in avanti, ma aveva una dimensione verticale, scoscesa, che in ogni momento chiedeva a sé e a te di esserci, lì dove eravate, lui con tutto sé stesso e tu con tutto te stesso. Per questo “parlare per parlare”, “parlare di niente” a volte era di più che parlare di un qualche altro argomento, di qualcosa che si poteva inquadrare in un contesto e così tenere a distanza da sé. Come facciamo spesso, anche troppo. Mario era capace di gesti detestabili come di inattese affettuosità: essere lì con te in un modo che ti stanava da te stesso, solo questo gli importava, metterti di fronte alla percezione del tuo essere dov’eri, in quel momento, in quel respiro verticale del tempo, come fa la sua poesia.
Questa sua esigenza di intensità assoluta veniva dalla sua personale vicenda di vita, certo, ma anche dall’incontro con la poesia. Non si può trascurare che Mario ha sofferto fin dall’adolescenza diversi episodi di una malattia che minaccia come poche altre l’esistenza, oltre che la vita, e che questi episodi si sono fatti nel tempo più crudeli. La malattia gli ha imposto molto presto, e poi ancora più volte con violenza, di provare la differenza tra vivere e non vivere più, dentro i pensieri, i gesti, le parole di ogni giorno. Ogni istante può diventare il tempo che si apre a un desiderio o un abisso che li inghiotte tutti. A questo aspetto della sua vita va aggiunto qualcos’altro: a Nimis, ovvero sul confine tra Italia e Yugoslavia, quando nasce Benedetti nel ’55, è ancora dopoguerra. La povertà della guerra e gli odi della guerra sono ancora nell’atmosfera, ma forse proprio per questo il cibo, gli oggetti, i gesti contano di più; è quella meraviglia e quella paura, quel desiderio e quello sguardo di chi sa che desiderare – non possedere – è tutto, e che fa l’incanto delle poesie di Mario, quando riesce a farci percepire quella sospensione e quella persistenza, quando ogni significato già dato si dischiude nell’istante e ci sentiamo chiamare per nome.
Ma come ho già accennato queste vicende della vita devono incontrare la poesia, per diventare poi Mario Benedetti, l’uomo e il poeta che è diventato. Incontrare la poesia nel mondo, come arriva e da dove arriva, come è accaduto a lui e a tutti, sui banchi di scuola o sul libro di un amico, in un pomeriggio di inquietudine oppure di beatitudine, a sette o diciassette anni. Ma anche incontrare la poesia, come accade ai poeti, accettandone il richiamo e il compito. Per tutti diventare poeti vuol dire incamminarsi attraverso una terra sconosciuta fino a quando sarai la persona che deve scrivere la poesia che vuoi scrivere, ma non sai scrivere ancora. Per Benedetti questo incontro è stato un urto, un assoluto, così assoluto da voler bruciare ogni altra presenza poetica, e creare un altare, spoglio e vorticante, sul quale levare l’offerta del suo essere senza sosta incamminato su quella terra sconosciuta. Fino al punto di negare la propria stessa presenza poetica, e voler non essere più l’“io” della sua poesia, in nome dell’assoluto voler-dire nell’istante, fino ad accusare il “sosia” che usurpa la voce della poesia per mezzo dell’“io” grammaticale così come per mezzo dell’“io” psicologico. Un cammino che possiamo ripercorre, da Umana gloria a Pitture nere su carta a Tersa morte, allontanati a volte, insicuri, sorpresi; a volte chiedendo di essere altrove.
Queste ultime righe non sono un giudizio critico, ma qualcosa di più diretto e più intimo: so di cosa parlano le poesie di Umana gloria, le ho seguite mentre arrivavano foglio dopo foglio, plaquette dopo plaquette. Diverso e più difficile, anche se imprevisto il confronto con la composizione, in breve tempo, di Pitture nere su carta, al contrario del libro precedente – al contrario quasi in tutto – pressate a forza dentro una compattezza ossessiva, una cupa cornice metallica che tiene unita una materia sgretolata, impossibile da impastare. E infine nei doppi fondi, nelle ingannevoli confessioni, nei giochi di specchi di Tersa morte mi trovo imprigionato, spaesato e, non lo nego, sedotto con un misto di repulsione e dolcezza.
Ma leggendo queste opere non mi sfiora mai il dubbio di qualcosa di meno di una necessità che non chiede e non ha bisogno di giustificazioni. Non si affievolisce l’accento di quella intensità che più volte ho tentato di raccontare: in questo senso, nella lingua, che è anche gesto, si percepisce una presenza che la forma non risolve in comunicazione. Anzi, la forma di questa poesia, sulla quale c’è ancora molto da dire, ci porta sulla soglia di quell’esitazione che precede la selezione delle parole che fissano una relazione tra noi e il mondo. Quell’esitazione sulla soglia dove la percezione del nostro essere esposti al mondo si riduce a una sequenza di parole, che ci tiene ancora e ancora – su quella soglia – in attesa e in ascolto della poesia.
Molto intensa e complessa questa analisi, anche psicologica, della poetica di Mario Bendetti fatta da Gian Mario Villalta, davvero uno scavo profondo e appassionato, e soprattutto un’esplorazione dell’uomo oltre che del poeta. Un uomo che ha affrontato la vita, la poesia, ma anche la morte, senza mezzi termini e senza scarti. E se un assoluto c’è in questo tempo verticale è appunto quello dell’essere e dell’essenza, dell’accadere quindi, come sottolinea pefettamente Villalta. Il dolore, come la paura, come la vita, è quando accade..
Mi piace ricordare questi versi di una poesia di Mario Benedetti tratta da Umana gloria:
Arrivano a piedi come gli dèi, stanno lì.
L’essere di qualcuno tra le case e io
con la mano cancello davanti
un ragnetto sul foglio,
niente non vuole dire se piango.