Qui durano i libri

Mario Benedetti, credits ph Dino Ignani

 

di Guido Mazzoni

Nessuno conosceva la fragilità meglio di Mario Benedetti. Dalla fragilità discende il suo sguardo sul mondo, che indugia sul nulla cui ogni persona o cosa è destinata e al tempo stesso sullo stupore di essere vivi. «Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia: |quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini», si dice dei vicini che sono venuti a vegliare il padre morto in uno dei testi più belli di Umana gloria. Angoscia e stupore hanno la stessa origine; nascono dalla certezza che ciò che esiste è transitorio, dalla «paura in ogni mano, o braccio, passo, | che ogni mano, o braccio, passo, non ci siano». In questo senso la prima poesia di Umana gloria contiene già tutti i temi dell’opera successiva:

Lasciano il tempo e li guardiamo dormire,
si decompongono e il cielo e la terra li disperdono.

Non abbiamo creduto che fosse così:
ogni cosa e il suo posto,
le alopecie sui crani, l’assottigliarsi, avere male,
sempre un posto da vivi.

Ma questo dissolversi no, e lasciare dolore
su ogni cosa guardata, toccata.

Qui durano i libri.
Qui ho lo sguardo che ama il qualunque viso,
le erbe, i mari, le città.
Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi.

Avevamo creduto che l’invecchiamento e la malattia fossero comunque parte della vita, dice il testo, ma non eravamo preparati a questo dissolversi. È a partire da qui che si apre un altro piano di realtà. Ne fanno parte l’amore per gli altri e per la realtà («Qui ho lo sguardo che ama qualunque viso | le erbe, i mari, le città») e la coscienza di essere transitori («Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi»). Nel mondo di Benedetti non esistono l’alienazione, l’estraneità o la noia: esiste la caducità. Ciò che aveva senso e era amato non c’è più, o rischia di non esserci più. È un vuoto intriso di perdita, un lutto reale e non simbolico.

C’era qualcosa di esposto, di inerme nella persona e nell’opera di Mario. Il primo segno di questa inermità è il nucleo infantile, arcaico, da cui nasceva la sua scrittura. Quello che per altri poeti è pura convenzione (le poetiche del fanciullino di molti falsi fanciullini), per Benedetti era un modo di vedere le cose, era stile e biografia. In pochi scrittori la vita e l’opera coincidono così perfettamente, così tragicamente. Le forme elementari della poesia di Benedetti provengono tutte da quel nucleo: la sintassi a elenco, quella di chi non organizza il mondo ma lo subisce o lo accoglie come si presenta (Pitture nere su carta è di fatto una successione di elenchi); i versi fondati sull’inversione di causa e effetto, di soggetto e oggetto, di tutto e parte («perché la mano è così, amore, | lei va alta fra i tuoi capelli»); la percezione animistica della realtà, tipica dei bambini, dell’inconscio e del pensiero magico («Lo scavo è lo sguardo che lo tiene», «Nelle mani il vetro che siamo noi e ciò che adesso è il cameriere»); gli anacoluti («Vengono a vedere la partita e io potevo non venire se volevo»), l’uso frontale di parole semplici, primarie, che nessuno oggi saprebbe adoperare in questo modo: «buono», «bello», «grande». Il genere umano non può sopportare troppa realtà, si legge nel primo dei Quartetti di Eliot. La poesia di Mario cerca di fissare la realtà che non possiamo guardare, di mostrare le cose ultime, quelle che forano il nostro cielo di carta e le illusioni che ci raccontiamo. Lo fa in molti modi: in Umana gloria e Tersa morte costruisce un io lirico all’altezza della nostra epoca, di ciò che le prime persone sono diventate in questo secolo; in Pitture nere su carta oltrepassa questo io scavando verso il basso, verso l’afasia delle frasi nominali, verso Celan; in Materiali di un’identità lo oltrepassa verso l’alto, cioè verso il saggio, l’intervista, il frammento autobiografico, le pagine più diaristiche di Bataille.

Mario aveva anche un lato buffo, una comicità stralunata e imparentata con un altro aspetto dell’infanzia, con lo straniamento di chi vede il lato assurdo della vita normale, adulta. Questa parte di lui non ha lasciato una traccia scritta, o almeno non una traccia pubblica, ma c’era. Chi l’ha conosciuta la conserverà nella memoria con affetto: è giusto ricordarla.

Ciò che invece si è inciso sulla carta è la sua poesia. Nel testo con cui si apre Umana gloria, alla caducità si oppone lo sguardo che ama il qualunque viso. Ma prima di quel verso ne viene un altro: «qui durano i libri». Mario ripete l’atto di fede con cui, nella nostra tradizione, la poesia istituisce se stessa: la poesia (la letteratura) vuole preservare il ricordo dei mortali, vuole costruire monumenti più duraturi del bronzo. Che questo atto di fede sia fondato o infondato non dipende dai poeti: dipende da ciò che li circonda, da circostanze che nessuno può controllare. Se però la letteratura dovesse continuare a essere ciò che finora è stata, i libri di Mario dureranno. Chi li legge in questi giorni sa che non sono mai stati così presenti. Il loro tempo comincia adesso.

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