«Accorgetevi»

Mario Benedetti, Credits ph. Dino Ignani

di Maria Borio

In un sonno lunghissimo, mentre il silenzio dai confini della zona rossa si allarga, si potrebbe sognare un fiume: le onde sono deboli ma costanti e sorreggono molte zattere di pino. Si può immaginare di sognare tanti morti e di sentire freddo ma anche di vedere le stelle, perché nell’universo, dove manca l’atmosfera, le stelle bruciano senza riscaldare. I corpi passano sopra le onde, come i numeri della statistica scivolano sugli schermi dei computer in una ripetizione studiata con la migliore retorica.

Se questo sogno potesse essere per un attimo condiviso con tutti, vorrei che tutti all’improvviso sentissero, come un ronzio intenso nelle orecchie, una sola parola: accorgetevi. È una parola di una poesia di Mario Benedetti.

Pensiamo, allora, che tutti possano sentirla per un tempo prolungato, come se fosse detta in un contrappunto tra il basso e l’acuto: “accorgetevi, non abbiate solo vent’anni / e una vita così come sempre da farmi solo del male”. Mario Benedetti, nato a Udine nel 1955, se ne è andato il 27 marzo 2020. Accorgetevi, sì.

Accorgetevi della retorica del comunicare e dell’apparire. Chiedete di più, pesando ciò che vale, bucando lo schermo. Con una poesia nuda, spogliata, nella povertà dell’autenticità, empatica fino alla radice, completamente esposta nel dolore e nell’affetto, Mario Benedetti ci ha messo in guardia.

Come non si può essere ingenui da pensare che la letteratura sia verità, tutti dovremmo cercare di andare oltre la superficie, di essere onesti, di fare esperienza della vita senza compromessi nella precarietà, nella frammentarietà. Scrivere e vivere non devono significare illudersi, ma avere coraggio e essere per ciò che si fa, si sente, si diventa, si è. I poeti dovrebbero non tanto consolarci, ma farci accorgere.

Lo stupore, la lucidità è il titolo di un breve saggio che Benedetti pubblica sulla rivista «Scarto minimo» nel 1988. La virgola fra le due parole le rende molto più unite rispetto a una congiunzione. La poesia è stupore e lucidità insieme: c’è una parte emotiva, vertiginosa, in cui si scopre la meraviglia – la dimensione della favola (“Io vorrei […] scrivere di noi solo favole”) – e una parte che acuisce il pensiero, lo sguardo critico sul mondo, di cui porta la sofferenza – la dimensione della storia (“volante, pietra, focolare, televideo, in fievole historia”).

La poesia non dà, certo, una soluzione, ma ci fa accorgere. La lingua di Mario Benedetti non è quella di culto mistico, oracolare, né un sistema destrutturato: sta vicino a come si parla e come si vive, con uno stile che cerca di essere sempre essenziale, simile ai tocchi di Mondrian, Beuys, Marini, trovando quel respiro antropologico che trae dall’esperienza, reale e nuda, un significato e una rappresentazione unica, irripetibile. È una ricerca che ha unito Mario ai poeti compagni e amici di una vita Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, arrivata alle generazioni più giovani con l’intensità del bacio che segue lo schiaffo e sembra non andarsene mai.

“Penso a come dire questa fragilità che è guardarti”, “la mano attraverso le case è dirti guarda”: ecco che il mondo appare percorso da un senso, fragilissimo, instabile, ma che non mente; persino in sillabe scomposte e balbettii – “Qui. Oh” – ci può essere, se c’è lo sforzo di un capire… Anche la morte diventa “tersa”. E riemergendo dal sonno, immaginando un silenzio ancora più denso sopra tutta la zona rossa, sopra tutta la terra, vorrei chiedere quanti ci hanno detto davvero di accorgerci.

Quante parole non ci sono più.
Il preciso mangiare non è la minestra.
Il mare non è l’acqua dello stare qui.
Un aiuto chiederlo è troppo.
Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole.
E non ci sono salti, mani che insieme si tengano
alla corda, sorrisi, carezze, baci. Una landa impronunciabile
è il letto nella casa di riposo dei morenti,
agitata, negli spasmi del sentire di vivere ancora.
In provincia di Udine, Codroipo, il malato ai due polmoni,
i pantaloni larghi, il viso con la pelle attaccata alle ossa,
il naso a punta non sono la storia da raccontare, né i ricordi.
Arido sapere, arido sentire.
E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni,
e una vita così come sempre da farmi solo del male.

da “Tersa morte“, Mondadori 2013

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