“Padre morto, ci sono altre generazioni”

Mario Benedetti, foto di proprietà dell’autore

di Giovanna Rosadini

Pur essendo vissuti nella stessa città, Milano, ed avendo fatto parte entrambi del piccolo mondo della poesia, che comprende diverse conoscenze e amicizie comuni, non ho mai conosciuto Mario Benedetti. Il quale, recentemente scomparso dopo essersi ammalato del morbo che in questo periodo ci assedia tutti, era già morto una volta nel 2014, quando a un infarto seguì un coma farmacologico dovuto a ipossia cerebrale da cui non si è mai più ripreso, perso in un limbo della coscienza. A suo tempo, avendo vissuto un’esperienza simile che, paradossalmente, nel mio caso si è risolta (sono stata molto fortunata) nel recupero della scrittura poetica, anzi nella sua sempre negata esplicitazione, detti qualche consiglio di natura medico-riabilitativa a Tommaso Di Dio, che gli è stato amico e, insieme alla famiglia, lo ha assistito sino all’ultimo. Però posso dire di averlo incontrato nella lettura dei suoi testi, essendo lui stato un poeta imprescindibile di questo inizio di secolo/millennio. E mi riferisco in particolare alla laconica orizzontalità di Umana gloria (un solo verso, quasi un’inquietante premonizione, vale il libro: “E’ stato un grande sogno vivere/e vero sempre, doloroso e di gioia.”), la scarnificata verticalità di Pitture nere su carta (a proposito del quale Maria Grazia Calandrone intitolò emblematicamente la sua recensione Quello che mi pronuncia è il nome di tutti) e, soprattutto, l’aver trasceso il limite comunicativo insito nella parola nel suo ultimo libro, Tersa morte. Quello di Benedetti è stato uno sguardo sulla vita lucido e dimesso, una restituzione in versi piani ed essenziali (penso per esempio al folgorante incipit di una poesia di Umana gloria, Borgo Scovertz: “Sassi, posti di erbe, resti.” Tre immagini, secche e scandite allitterativamente, che evocano immediatamente un luogo abbandonato) della pochezza e transitorietà della vicenda umana, del suo essere inscritta in un orizzonte di morte e di dolore. In questo senso, l’uso della lingua che fa Benedetti è magistrale, col ricorso ad una paratassi quasi ipnotica e, per dirla con Umberto Fiori: “In un dettato ostentatamente grigio e ordinario ci sono dei sussulti, dei nessi arbitrari, delle deviazioni improvvise, che sconcertano il lettore non frontalmente ma subliminalmente, aprendo prospettive sottilmente inquietanti. Lo sguardo di Benedetti non si distoglie mai del tutto da quello che chiamiamo realtà, ma è come se mettesse in opera uno strabismo appena percettibile, un clinamen che piega e distorce le cose più familiari e ovvie”. Osservazione applicabile anche a un titolo come Tersa morte, con l’accostamento ossimorico di un aggettivo tanto intriso di luce e chiarore al sostantivo più scuro che ci possa essere… il lirismo eccentrico (nel senso di straniato ed implosivo) di Benedetti è stato un modo di rendere efficacemente la condizione dell’uomo contemporaneo. Il poeta, parlando in prima persona, si fa carico di un sentimento collettivo e condiviso: “Sono questo, questa mortalità/che mi assedia, che si concentra/negli occhi, nelle mani. Intorno/sono mute le cose, le facce/che si muovono senza motivo, /e sento dissolvermi tra questo.” (Duomo-Pasteur, in Tersa morte).

Se molte delle liriche di Tersa morte hanno la paradossale perentorietà di un koan zen (“Quel nulla che noi non saremo/porta con sé e cancella tutto.”), e la dimensione del vuoto, dell’insensatezza e dell’impermanenza pare dominare su tutto, vi sono testi che si aprono a toni elegiaci, in cui traluce una umanissima pietas, un senso di lutto, perdita e rimpianto per i propri cari morti che affratella nel comune destino umano. Ho trovato una piegatura di pagina, nella mia copia di Tersa morte, all’altezza di questa poesia:

 

Padre morto, ci sono altre generazioni.
Non sei stato la storia, sei stato l’umiltà
delle cose minute. Ma a chi importa?
Hanno già saputo dimenticarci, catalogare
uomini con uomini, donne con donne.
Forse da sempre. Ma se tu non c’eri
non c’era nessuno, lo sanno? E’ troppo
per loro, prole serva di vita, superba.
Dire di te è come dire di me, e del sonno.
Lettura amara è La ginestra del poeta.
Padre morto, ci sono altre generazioni.

 

Ecco, ricordo molto bene che, quando lessi questi versi, mi sentii chiamata in causa per il mio proprio lutto del mio proprio padre… Mario Benedetti ha saputo, con questa poesia, interpretare il mio sentimento di perdita per quell’essere, tanto unico per me quanto per lui il suo, così caro e insostituibile. Eppure, nel flusso della storia e delle generazioni, inessenziale. In questo testo c’è tutto il rimpianto e lo struggimento per una vita, quella di una persona tanto fondamentale e significativa, finita per sempre. E i veri poeti, da sempre, sono quelli che riescono a rendere i propri sentimenti (ma anche, e il riferimento a Leopardi è emblematico, il proprio pensiero) universali.

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