Giornale di un infante saggio (e insolente)
di Alessandro Anil
Il primo libro che lessi di Mario Benedetti, Pitture nere su carta, lo trovai in una piccola libreria vicino alla piazza del Collegio Romano. Avevo vent’anni, il libraio provvidenzialmente, saputo il mio interesse, indicò il libro. Negli Appunti su Kafka di Adorno, Celan sottolineava: «invece di guarire la nevrosi, Kafka cerca in essa la forza terapeutica, cioè la forza della conoscenza: le ferite che la società imprime a fuoco nel singolo sono da questi lette come cifre della non-verità sociale, come negazione della verità». Penso che questa definizione di Adorno sia appropriata anche per la poesia di Benedetti. Cambierei leggermente il finale. Da una parte trovo nella poesia di Benedetti una realtà allontanata, percepita in difetto, in una mancanza spaesante, con un senso di perdita e sdoppiamento «Ho freddo ma come se non fossi io.», ma dall’altra non riesco a non vedere in questo percorso poetico un tentativo, quasi ipertrofico, di cambiare la non-verità in una verità, anche se minima, anche se difesa con l’aggressività di un infante spietato, in una forzata auto-istanza, come per dimostrare che per ritagliarsi un piccolo spazio di autenticità bisogna indossare i panni del «Idiot boy» di Wordsworth, o molto diversamente quella di alcuni personaggi di Dostoevskij, che sporadicamente appaiono cifrati nelle pagine di Umana gloria.
Se c’è un filo che lega in comunanza sia Celan che Benedetti a Kafka è quella ferita che viene impressa a fuoco nel singolo e in questo la poesia di Benedetti, come ha scritto Roberto Galaverni qualche giorno fa, cade a capofitto sulla priorità della persona Mario. È infatti la sua esistenza letteraria ad essere un’occasione diffusa per comprendere la ferita che trova un segno visibile, diventa materia che dona conoscenza, per noi che ci troviamo dall’altra parte del testo ed è in questa posizione etica, nella autogenesi della sua opera che si può comprendere un legame storico e politico nel senso più ampio. Ma il valore più grande della poetica di Benedetti, più che storico, più che politico, resta spaziale, nel senso che apre un altro spazio, non solo quello dello sguardo, compito più del filosofo direbbe Nancy, ma eseguendo, mi viene da dire, un compito per eccellenza poetico, quello di portarci anche per mano. Così, a fronte della nostra vita troviamo il testo di Benedetti, a fronte del testo di Benedetti c’è la vita di Mario, dentro cui iniziamo ad addentrarci. È un’esperienza che immediatamente ci porta in uno altro spazio, in un’altra atmosfera, chiara, precisa, diversa, fatta di slavine, di campagne, di desolazioni come diffusamente mostrato, ma anche di una sacralità ritrovata attraverso la ripetizione di piccoli gesti nel quotidiano. Così, appaiono quelle piccole forzature grammaticali, quei anacoluti, quelle ripetizioni che si avvalgono di cortocircuiti tra causa-effetto, quegli scarti minimi eseguiti con maestria su un linguaggio prevalentemente ordinario ad aprire l’altro spazio: «Si sta dentro con la paura che il corpo è strano che non faccia male».
Del legame con Montale, Sereni, Zanzotto, si è già discusso ampiamente, poco di quello con Saba, del belato della capra con cui, nelle sue qualità più semplici si inizia a condividere un dolore in comunanza e di questo c’è quasi da rallegrarsi. Ma nella poesia di Benedetti c’è sempre uno slittamento pieno di inquietudine, o forse dovrei dire un rientro, verso il suo doppio: «Nella casa il sosia tocca le dita della madre/dicendole che il figlio è morto.» Accanto a questa poetica della limpidezza e dell’autenticità, dello stupore, del disarmo, davanti a cui mi torna in mente quell’assurdità comprensibile per cui D’annunzio tirava le lodi al fanciullino di Pascoli per le sue qualità francescane, c’è un altro Benedetti, un poeta che stringe un’inquieta alleanza. Un’infante che non ha solo la capacità di essere semplice o di meravigliarsi, ma anche un’aggressività naturale, un certo grado di crudeltà, un’insolenza o spietatezza con cui affronta determinati brandelli di vita. Se la quotidianità è portata quasi a un livello sacrale, l’autenticità diventa spudoratezza, insolenza nel porre il re dolore «a nudo».
Da quel libro trovato per caso, conobbi Mario Benedetti attraverso altri libri, foto sulle copertine o trovate nella rete. Incontrai una sola volta e da lontano Mario Benedetti. Mi colpì quella sua voce metallica, che a prima vista respingeva, quei modi leggermente ruvidi che di solito, per mia esperienza, fanno parte di persone timide con un mondo dentro pieno di accadimenti. Nella mia giovanissima mente ricordò, vagamente, la figura di Artaud che in un convegno pubblico si spogliò per lasciar vedere ciò che il suo corpo aveva dovuto subire. Un disarmo che può sembrare insolenza aggressiva e mi verrebbe quasi da aggiungere ora, che in questo presente, non è dato nascere infanti, lo si diventa con accurato e duraturo esercizio. Da qui quell’ipertrofia dell’autenticità che a volte si avverte leggendo la poesia di Benedetti. È questa, d’altronde, un’etica che nell’immaginario diventa figura che, mettendoci al muro, ci chiede in modo altrettanto netto di ritrovare nella confusione uno spazio da cui ripartire. Parlo di quella trasmissione dei valori alla generazione successiva e se penso a Mario Benedetti, ritrovo nella mia mente un insegnante, a volte, un maestro che ha saputo percorrere una via nella sua estrema compattezza, un’istanza, anche una, ma precisa nel segno del proprio fuoco, attraverso l’opera e la vita e mi verrebbe da dire: finalmente, un piccolo punto saldo. Dietro a una certa aggressività di ritorno come ha scritto Cortellessa, c’è un ulteriore sdoppiamento, un infante saggio che rientra nella sua mente, comprendendo quanto il suo essere autentico non sia che un affronto e davanti a quel nostro restare ammutoliti non può che timidamente ritrarsi ammettendo: «L’ho letto su un foglio di un giornale. /Scusatemi tutti.»