di Jean Nimis
Dopo Il destinatario nascosto. Lettore e paratesto nell’opera di Andrea Zanzotto (Franco Cesati, 2018), Alberto Russo Previtali propone un secondo saggio monografico sull’opera del poeta di Pieve di Soligo. L’autore ha inoltre dedicato ben nove articoli all’opera del poeta scomparso nel 2011, prova della sua esperienza riguardo a un’opera poetica reputata difficile e però essenziale per l’arco di tempo che va dalla seconda metà del Novecento al primo decennio del Ventunesimo secolo. Infatti, Andrea Zanzotto è stato un poeta tra i più significativi di questo periodo, certamente per la sua ricerca formale molto originale, ma soprattutto per la messa in rilievo dell’esperienza di un soggetto lirico inserito nella realtà contemporanea e intento ad esperimentare un principio di consistenza del linguaggio.
Alberto Russo Previtali parte dall’osservazione secondo la quale vari elementi del discorso fenomenologico lacaniano sono presenti nei testi in prosa e in poesia di Andrea Zanzotto. Era un elemento che Michel David aveva enunciato nel suo saggio del 1966[1] e che Stefano Agosti aveva ripreso nelle prefazioni ai volumi delle opere pubblicate da Mondadori fin dal 1973. Ed è questa configurazione che Russo Previtali mette in rilievo con precisione già nel suo prologo, dove si parte dal fatto che il linguaggio, considerato da Zanzotto in quanto dimensione “totale” (p. 10), non poteva che rendere conto di un distacco per così dire “fatale” tra significato e significante. Tale distacco appare già nel titolo del saggio, con la sbarra che separa i cognomi del poeta italiano e dello psicanalista francese. Russo Previtali insiste su “un punto teorico inaggirabile”: se Lacan rappresenta per il poeta trevisano “il nome del tentativo più coerente e organico di un’alleanza teorico-pratica tra linguistica e psicoanalisi”, non si tratta di ridurre sul piano interpretativo questa poesia al suo rapporto con la teoria dello psicanalista francese, bensì di riconoscere che è “una sua componente prospettica fondamentale, imprescindibile” (p. 10). Andrea Zanzotto, che leggeva il francese e che ha frequentato in modo regolare i testi di Lacan, aveva visto nel discorso teorico dello psicoanalista una potenzialità conoscitiva atta a permettergli di intavolare un approccio – poetico – del proprio rapporto soggetto-mondo.
Occorre certo avere una piccola idea del percorso poetico di Zanzotto (sin dagli esordi, o almeno a partire da Dietro il paesaggio del 1951, fino a Conglomerati del 2009 e passando da La Beltà del 1968), ed è anche necessario avere abbastanza chiari alcuni dei concetti di Jacques Lacan per seguire l’analisi di Russo Previtali. Tuttavia, l’autore riesce a palesare in modo accessibile, citazioni all’appoggio, le modalità con cui i concetti in area psicanalitica si fanno presenti nell’operato poetico, lungo tutta la produzione di Andrea Zanzotto, sia nelle poesie che nelle prose (saggi e narrazioni).
L’indagine, che si conclude con una bibliografia aggiornata dell’opera critica connessa al binomio Zanzotto e Lacan, si svolge lungo cinque capitoli che percorrono l’opera poetica di Zanzotto, legandola ai debiti riferimenti alla teoria lacaniana, e si conclude con un’appendice dedicata a un’interpretazione della poesia “I paesaggi primi” (nella raccolta Vocativo del 1957). Quest’appendice esplora con minuzia la detta lirica secondo tre aspetti – semantico, metrico-sintattico e fonico-timbrico – allo scopo di mettere in rilievo il modo con cui Zanzotto concepiva la trasmissione della voce poetica, vale a dire la relazione privilegiata tra il padre, pittore di mestiere, e il figlio futuro poeta, ambedue confrontati a un percepito “incrinamento della fusione narcisistica con il paesaggio” (p. 167). Questa poesia di Zanzotto e la sua interpretazione sono infatti un punto nodale di tutto il percorso analitico del libro di Russo Previtali: rendono già conto dell’“agonismo fonico” e della “poetica del significante” (p. 83) messi in atto dal poeta nel suo lavoro di “rielaborazione simbolica” (p. 84) del mondo vissuto (si ricorda la lirica breve de La Beltà, “Al mondo”, in cui il poeta si rivolge all’origine del senso: un ‘luogo’ preesistente all’individuo e alla sua storia).
Il primo capitolo del saggio mette in risalto l’importanza dell’approdo di Zanzotto alle teorie di Lacan e l’esistenza a tutt’oggi di “vaste zone ancora inesplorate” (p. 20) riguardanti il debito e il confronto del poeta con il discorso psicanalitico (in particolare il concetto di lalangue) tramite le “tessere di microverità” (p. 17) inserite nella poesia sin dalle raccolte Dietro il paesaggio e Vocativo. Questa impostazione percorre tutto l’arco dei testi di Zanzotto, in una scelta dei passaggi più significativi che danno a vedere “l’essenza del suo sodalizio con la teoria lacaniana” (p. 42), e si conclude con un riepilogo della lettura critica che Stefano Agosti ha fatto tramite l’“alleanza psicoanalisi-linguistica” (p. 43), la quale ha permesso di capire come, a partire da La Beltà, Zanzotto ha rappresentato la sfera pulsionale del soggetto lirico in “una tensione verso l’al di là della prospettiva linguistica” (p. 49). La conclusione di Russo Previtali è che per Zanzotto, “il punto di partenza per la conquista di un’autenticità della posizione del poeta nella contemporaneità consiste nell’esporsi alle ‘condizioni negative che bloccano ancora oggi la possibilità della parola’” (p. 52).
È questo intoppo della parola (riflesso tra l’altro attraverso le serie di fenomeni fonosintattici che percorrono i componimenti, visibili già in IX Ecloghe e onnipresenti a partire da La Beltà) che viene esplorato nel secondo capitolo, sotto il titolo “La fusione io-paesaggio e l’oltranza formale”. Russo Previtali vi indaga il modo in cui “l’oggetto che causa il desiderio poetico si incarna nel paesaggio” (p. 55), un paesaggio da considerare in quanto “oggetto a” (il concetto di Lacan in quanto ‘oggetto della pulsione’ detto anche ‘oggetto di godimento’). In questo capitolo, viene considerato il rapporto con il paesaggio nella visione scopica del soggetto, questo “io” che Zanzotto mette in primo piano a partire da Vocativo. L’esplorazione dello statuto dell’io e della sua posizione rivela la difficoltà, che presto appare impossibilità, di attestare una consistenza all’essere, la sua “indefinitezza” (p. 72). Questa esplorazione si conclude con l’osservazione di un “punto di non-ritorno” raggiunto nel 1968 con il discorso poetico del soggetto ne La Beltà e l’irruzione di un “inquieto universo” (Bandini) e di un incrinamento discorsivo e esistenziale già in atto nelle raccolte precedenti, in particolare in IX Ecloghe.
Un capitolo di particolare densità è il terzo, intitolato “L’emersione del reale: la poesia come sutura simbolica”, in cui viene esplicitato il “trauma” portato nel discorso del soggetto poetico e il tentativo di risoluzione. Qui si considera “l’eccezionalità della poesia di Zanzotto a partire da La Beltà” come “conseguenza di un’emersione del reale dovuta all’incontro con il paesaggio come oggetto a” (p. 79). È in questo capitolo che sono esplorati i procedimenti stilistici che permisero a Zanzotto, lungo le raccolte successive alla “svolta” del 1968, di affrontare linguisticamente il trauma del vissuto, nel percepire un imperativo allo scavo esistenziale e nel tentare di domare un’oscillazione instabile tra giudizio e sapere del soggetto poetico. Così, dove La Beltà era giunta a una resa dei conti con la verità del “processo di verbalizzazione del mondo” (l’espressione è di Zanzotto), i testi delle raccolte seguenti tentano il confronto (per così dire fisico, nella densità dei segni linguistici) con ciò che Lacan indicava come “la Cosa”, l’alterità del trauma come “vuoto” che determina l’andamento del dettato. Seguendo la teoria lacaniana, si esamina qui il tentativo del poeta di mantenere una “funzione costruttiva” (p. 105) del dire poetico come resistenza a ciò che mina lo “scrivibile” (p. 107): questo processo, descritto in chiave meramente psicoanalitica, è collegato a una serie di motivi poetici caratteristici, reperibili in Pasque, nel Galateo in Bosco e in Fosfeni – il ‘logos erchomenos’, il ‘gnessulógo’, l’oscuro – motivi che riguardano l’operare del linguaggio poetico tra materico (del paesaggio) e astrazione (del rapporto del soggetto al mondo).
Si giunge quindi al quarto capitolo (“La dimissione soggettiva e la scrittura dell’oggetto”), nel quale prosegue il percorso nel paesaggio poetico delle ultime raccolte (Idioma, Meteo, Sovrimpressioni e Conglomerati). Ora, osserva Russo Previtali, nella dinamica del dire poetico, “l’itinerario di Zanzotto ripercorre, senza ovviamente assimilarvisi, l’andamento di una psicoanalisi” (p. 142). Infatti, la poesia effettua in questi quattro volumi un viaggio (qualificato come ‘ultraterreno’ per sottolineare un’affinità, testimoniata dallo stesso Zanzotto, con l’operato dantesco) “per ricongiungere il dire con la terra” (p. 149), invocando sia la meteorologia (con Meteo e Sovrimpressioni) che la geologia (in Conglomerati), non più soltanto nell’utilizzare la lingua (dis)articolata ma nell’imporre anche la ‘lettera’, il ‘grafemico’, sempre al fine di tentare un dire-il-mondo, nonostante questo operato sia riconosciuto a priori come impossibile.
Con un ritorno a Pasque, il libro del 1973, il quinto e ultimo capitolo analizza un luogo importante della raccolta (una delle più difficili di Zanzotto), dov’era apparso appunto il grafema intitolato “Microfilm”. Nella continuità di quanto precede, questa analisi di un luogo poetico particolare conferma il processo tentato da Zanzotto (che in questo caso consisteva nella trascrizione grafematica di un sogno, commentata dal poeta in margine al disegno) per “perseguire l’utopia”, come accenna Russo Previtali, di una “possibile lingua che sia nota a tutti, felicemente pentecostale, dotata di universalità per eccesso” (l’espressione è di Andrea Zanzotto, che si espresse così in tre successivi interventi).
L’interesse della lettura di Alberto Russo Previtali consiste dunque nella dettagliata e densa proposta interpretativa del percorso di vita che fu quello della poesia di Andrea Zanzotto, entrando nella mente di un soggetto poetico e nelle sue oscillazioni interiori. La prospettiva psicoanalitica messa in opera in tale interpretazione si rivela particolarmente idonea considerando l’assunzione delle prospettive teoriche lacaniane e l’uso intertestuale dei concetti, finora rimasti allo stato di osservazioni occasionali. Il saggio di Alberto Russo Previtali permette realmente di prendere meglio la misura del tentativo del poeta di Pieve di Soligo di confrontarsi con l’impossibile a dire.
[1] Michel David, La psicoanalisi nella cultura italiana, Torino, Boringhieri 1966.
Recensione di Jean Nimis al saggio di Alberto Russo Previtali, Zanzotto/Lacan. L’impossibile e il dire, Mimesis, Milano, coll. “Altro discorso” 2019, 191 p.
Alberto Russo Previtali è critico letterario. Ha studiato Letterature comparate a Bergamo, Torino e Parigi, e ha conseguito il dottorato di ricerca in Italianistica con una tesi sul rapporto tra la poesia di Andrea Zanzotto e la teoria psicoanalitica di Jacques Lacan (Université de Lorraine / Università degli studi di Milano).
Docente di Lingua e cultura italiana nei licei francesi (Académie de Grenoble), ha insegnato nel dipartimento di italiano dell’Università di Lione “Lumière” e in quello dell’Università di Tolosa “Jean Jaures”, della cui équipe di ricerca (“Il laboratorio”) è membro associato.
Ha scritto saggi critici su autori italiani e francesi (Svevo, Zanzotto, Pasolini, Fenoglio, De Angelis, Laforgue, Scalesi, Artaud, Leiris,Camus, Forest) pubblicati in riviste e quaderni (Lettera, Alkemie, Nu(e), Cahiers de l’hôtel de Gallifet etc.). Ha curato l’edizione del saggio di Pierre Bruno, Antonin Artaud. Realtà e poesia (et al./edizioni, 2011) e il volume Lo straniero, il nome dell’uomo. Psicoanalisi e forme dell’alterità (Lettera n. 6, Mimesis, 2016). È autore di due saggi monografici sulla poesia di Andrea Zanzotto: Il destinatario nascosto. Lettore e paratesto nell’opera di Andrea Zanzotto (Cesati, 2018) e Zanzotto/Lacan. L’impossibile e il dire (Mimesis, 2019).