Simon Armitage, poesia sul Covid-19

Simon Armitage on August 9, 2014 in Edinburgh, Scotland.

Luca Guerneri traduce e commenta una poesia del poeta inglese Simon Armitage uscita sul quotidiano The Guardian il 21 Marzo 2020.

 

Lockdown, Simon Armitage

And I couldn’t escape the waking dream
of infected fleas

in the warp and weft of soggy cloth
by the tailor’s hearth

in ye olde Eyam.
Then couldn’t un-see

the Boundary Stone,
that cock-eyed dice with its six dark holes,

thimbles brimming with vinegar wine
purging the plagued coins.

Which brought to mind the sorry story
of Emmott Syddall and Rowland Torre,

star-crossed lovers on either side
of the quarantine line

whose wordless courtship spanned the river
till she came no longer.

But slept again,
and dreamt this time

of the exiled yaksha sending word
to his lost wife on a passing cloud,

a cloud that followed an earthly map
of camel trails and cattle tracks,

streams like necklaces,
fan-tailed peacocks, painted elephants,

embroidered bedspreads
of meadows and hedges,

bamboo forests and snow-hatted peaks,
waterfalls, creeks,

the hieroglyphs of wide-winged cranes
and the glistening lotus flower after rain,

the air
hypnotically see-through, rare,

the journey a ponderous one at times, long and slow
but necessarily so.

 

 

Lockdown, Simon Armitage

 

E fu impossibile sfuggire il sogno in veglia
di pulci infettate

tra la trama e l’ordito della stoffa pregna
accanto al focolare del sarto

nella cara vecchia Eyam.
Poi fu impossibile non vedere

La Pietra di Confine,
un dado sghembo con sei fori bui,

ditali ricolmi di aceto di vino
per purificare le monete appestate.

Il ché mi ricordò la triste storia
di Emmott Syddall e Rowland Torre,

sfortunati amanti divisi
dal confine di quarantena

il loro muto corteggiamento attraversava il fiume
fin quando lei più non comparve.

Mi addormentai nuovamente
e questa volta sognai

l’esiliato yaksha che spediva parole
alla moglie perduta su una nuvola di passaggio,

nuvola che seguiva la mappa terrena
di piste di cammelli e sentieri di bestiame,

ruscelli come collane,
pavoni coda a ventaglio, elefanti dipinti,

coperte ricamate
di campi e siepi,

foreste di bamboo e vette di neve ammantate,
cascate, torrenti

i geroglifici di gru dalle grandi ali
e il fiore del loto luccicante dopo la pioggia,

l’aria
un ipnotico vedere attraverso, rara,

il viaggio, a tratti gravoso, lungo e lento
ma così di necessità.

 

 

COMMENTO DI LUCA GUERNERI

 

La separazione, la distanza e la possibilità o impossibilità di superarle descrivono il territorio instabile di questa lirica di Simon Armitage, classe 1963 e fresco di nomina a ventunesimo Poeta Laureato del Regno Unito. Separazione che vive anche graficamente sulla pagina nei diciassette distici che alternano versi di due e quattro accenti legati dalle consuete semi-rime che sono il marchio di fabbrica del poeta dello Yorkshire. Il titolo ‘Lockdown’ è oramai nel mantra dei nostri bollettini quotidiani che sgranano dati di nuovi contagi e di nuove morti al tempo, il nostro, del Covid-19.

Lo sguardo stupefatto contempla spesso questa nuova durata dilatata, rarefatta e che però, come per necessità, ci spinge a cercare possibili pietre di paragone con questo nostro tempo che pare sfuggire ogni possibile riempimento di significato. Tempo di viaggiare con la mente dunque e, per un inglese, la memoria non può che andare alla Peste che imperversò sull’isola tra il 1665 e il 1666.

Il villaggio è quello di Eyam, a Nord di Londra, dove il contagio arriva con una partita di stoffa pulciosa recapitata proprio dalla capitale. Ricorda, questo passaggio, una celeberrima poesia di Paul Muldoon ‘Meeting the British’ dove il dono di coperte infettate di vaiolo da parte dei coloni britannici semina la morte tra i nativi americani.

Eyam reagisce in modo esemplare, decreta l’autoisolamento e fissa la Boundary Stone tra l’al di qua e l’al di là del contagio.

La pietra, tuttora esistente, è il luogo di scambio tra le derrate di sussistenza che arrivano da fuori e il pagamento in monete messe a mollo nell’aceto di vino per disinfettarle dentro i sei buchi affondati come ditali nel sasso che vagamente rassomiglia un dado. E sempre da Eyam viene l’infelice storia d’amore dei due amanti divisi dall’epidemia che si parlano in sguardi da un lato all’altro del fiume fino al giorno in cui lei non si presenta più.

La trama e l’ordito del testo ci segnala la distanza con side (lato) in rima con line (confine) e con river si e ci proietta, sempre attraverso la rima verso il no longer, il tempo del mai più o del non più.

Il but del diciassettesimo verso agisce come il turn (svolta) di un sonetto. Si vola tra le cime dell’Himalaya verso un antico poema sanscrito, il Meghaduta di Kalidasa dove uno yashka (spiritello al servizio di una divinità della fertilità, ci spiega il poeta stesso) convince una nuvola a portare messaggi alla moglie lontana e che non può raggiungere. La nuvola si fa convincere dall’abilità quasi orfica dimostrata dallo yashka nel descrivere i panorami che attraverserà. Ne abbiamo un assaggio tra pavoni, gru e l’evidenza grafica su coperte ricamate di coloratissime trame, tracce, passaggi, percorsi che dalla terra indicano la via al cielo.

L’aria tersa non impedisce di percepire quanto sia gravoso quel viaggio tra le vette innevate della catena himalayana. Si tratta di un viaggio che procede lento e che si prolunga nel tempo. Nessuno e niente può farci qualcosa se non compiere quella fatica e attraversare quella lentezza – nella rima slow/so degli ultimi due versi. L’incontro attraverso il messaggio della nuvola pare andare a buon fine. È solo un messaggio, fatto d’aria (il walking on air di Heaneyana memoria) in attesa di un abbraccio, quello sì, fisico, che, questo è certo, una poesia, esattamente come una nuvola, non può recapitare.

Armitage è perfetto rappresentante di quella generazione che, vissute le sperimentazioni tra anni sessanta e settanta, cresce e comincia a pubblicare negli anni ottanta.

Si tratta di una generazione portatrice di una fede ostinata seppure nel suo disincanto nei confronti della parola poetica. Non stupiscono quindi le parole del poeta a commento del testo: ‘La poesia è per definizione consolante perché ci chiede spesso concentrazione, pensiero e di essere contemplativi’. Per poi aggiungere: ‘C’è qualcosa di sacro nelle descrizioni semplici della vita di tutti i giorni’.  ‘La poesia ci chiede di essere attenti alla lingua e ci chiede di porre la stessa attenzione l’uno all’altro oltre che nei confronti del mondo. Nel rapporto profondo con un linguaggio qualcosa di ancora più profondo accade.’

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *