Su MANDATO A MEMORIA di Stefano Pini
Nota di lettura di Alessandro Bellasio
Sospeso tra rievocazione e divieto, tra reviviscenza e perdita, il nuovo libro di Stefano Pini ci conduce in quel luogo impraticabile e familiare, vicinissimo eppure inaccessibile, che è il ricordo. Mandato a memoria (Interlinea, 2019) imbastisce un fitto dialogo con le ombre, ombre delle persone ma anche ombre dei luoghi, delle cose, una lunga incursione nei territori del passato la cui prerogativa – come vuole la citazione di Faulkner posta dall’autore in esergo alla silloge – è quella di non essere mai davvero tale. Esso alimenta e configura il nostro presente, ma lo fa anzitutto sottraendovisi: ellissi repentine, vicoli senza uscita e strade improvvisamente sbarrate si susseguono nella raccolta di Pini, in cui il non detto svolge un ruolo forse ancor più determinante di ciò che invece perviene alla parola.
Qui il silenzio è decisivo, permea di sé uomini e vie, attraversa le esistenze e guida segretamente gli incontri. Un silenzio da non intendersi, tuttavia, come reticenza o omissione, bensì come confine invalicabile dietro il quale sta l’essenza inviolabile delle cose, e della parola stessa. Un confine che non può, non deve essere oltrepassato, perché è proprio il suo perimetro a proteggere la memoria e la fragile sostanza di cui si compone: un solo ulteriore tentativo di precisarne i contorni farebbe svanire tutto come per eccesso di luce. Il libro di Stefano Pini è un libro di penombra, di chiaroscuro, sorretto da una peculiare oculatezza del vedere e del dire, che sa riconoscere l’interdetto e circoscrivere il sottratto. Proprio da questo moto di sottrazione provengono le ingiunzioni a «non chiamare», a «non parlare», di uno dei testi iniziali: ogni gesto scomposto potrebbe compromettere la materia infinitamente perturbabile, frangibile della memoria. Proprio tale eccesso costituirebbe l’infrazione, la colpa da riscattare, qualora avvenisse. «Proviamo insieme | la memoria chiusa da perdonare | nel livido per tutto questo tempo». «Ogni corsa dovrebbe essere muta | tra i rami, non eludere, non sapere».
Attenzione e ascolto, silenzio e attesa: sono queste le dimensioni entro cui esplorare l’edificio interiore, nel raccoglimento. Dal quale guizza poi d’un tratto il particolare decisivo, la frase indelebile, il gesto irreparabile o prodigioso cui ciascuno è vincolato per sempre: sarà il lettore a ricostruire l’accadimento, la situazione d’insieme, in base alle poche pennellate suggerite dall’autore.
Così, ai toni piani e alla sintassi prevalentemente paratattica, alla parsimonia del tratteggio e all’esattezza minuziosa con cui vengono chiamati in causa luoghi e persone – indicati sempre con quella forma intensiva e liturgica del nome che è il nome proprio – corrisponde d’altro canto la rarefazione dell’evento entro i quali essi riappaiono, come diffratti, schermati, di una schermatura che è però più protezione che non allontanamento: «dobbiamo imparare il velo, | la forma impronunciabile, chiamare | le cose con il loro nome». Come forse si riusciva a fare da ragazzi, anche se per un soffio, e ancor prima da bambini.
La giovinezza, e più di essa l’infanzia, appunto, con «le spalle agili sulla schiena» e «i pali improvvisati», con «le mani scheggiate» e «le braccia limpide | nella manica lunga», sono continuamente, quasi ritualmente rievocate, ci si accorge che su di esse incombeva da sempre una minaccia segreta. Infanzia che rappresenta certo il luogo mitico dell’incontro con il mondo e con i nomi, senza però che l’autore commetta l’ingenuità, tutta adulta, di crederla totalità vergine e immacolata; al contrario, di essa non restano che pochi attimi, schegge strappate a forza al buio, rari frammenti luminosi legati soprattutto all’abbandono nel gesto (le partite di calcio per strada, un tuffo in una lontana palestra).
Tornare al nome, e non c’è nulla.
Il tonfo della palla sul legno
della palestra, le mani scheggiate dell’infanzia,
le braccia limpide
nella manica lunga.
Terminano nei figli queste ossa, e nient’altro.
Un mistero la gioia, come si fa strada.
E, a un tratto, appare l’altro versante dell’attività di rimemorazione: essa è anche una «ripetizione guidata», è un esercizio e una pratica, una tensione e una postura. Non solo un ponte teso tra oblio e salvezza, «bilancio di ciò che rimane», ma atto e metodo conoscitivo, ritorno e moto centripeto verso l’origine attraverso il quale avviene la seconda, autentica nascita: «si nasce nelle fondamenta», «sull’intreccio dei padri si compiono | diapositive e premonizioni | il tempo in cui fissiamo un rifugio». Questa ricerca e richiesta di riparo – per sé, per gli altri, per i luoghi e per le parole – è il fil rouge che si sdipana, compattandole, fra le cinque sezioni del libro , fino al tremito composto della poesia finale, con cui emblematicamente si dischiude una porta che immette il passato nel futuro.
Nessuno spiega come
nascono le pieghe del volto,
in geologie notturne.
Sul bordo del maglione
si arrestano le trame, la lana
bella da toccare a fianco dell’inverno:
non dovrai soffrire i piedi umidi,
i cinema con tutte le sedie vuote,
un naufragio. Io voglio sapere
la forma, la linea della mano che stringi
la vita nel ventre di cui abbiamo
immaginato il nome.
[1] Nell’ordine, Sentimentale Jugend (apparsa anche nel 13° volume dei “Quaderni” Marcos y Marcos); I giorni dell’incontro; Le ore di mezzo; Nomi, diserzioni, altre vie; La ripetizione guidata.